DANCER IN THE DARK

(di Lars Von Trier)

 

 

La danza: spesso simbolo di Vita, di sviluppo, di qualcosa che evolve, prolifera, si muove. Un incedere omogeneo di varie strutture che si mescolano, si alternano, portano avanti qualcosa che coinvolge, che trascina, magari che rende partecipi.

Pensando al Musical, ci aspettiamo scenografie fastose, balletti famtasmagorici, ritmi travolgenti e via dicendo.

Von Trier rompe completamente con tutti questi paradigmi. Il suo "Dancer in the Dark", infatti, propone un "Musical" dai toni che, seppur coinvolgenti, rasentano delle notevoli punte di drammaticità, e trascinano, più che per le scenografie ed i ritmi, per il lento cadenzare verso una tragedia incombente, ove l' atmosfera che si respira diviene, nella sua freddezza, sempre più carica di angoscia,  traboccante di desolazione.

"Dancer in the Dark": Il buio è quello di Selma, Cecoslovacca trapiantata negli Stati Uniti, la quale soffre di una malattia congenita, che la porta inesorabilmente verso la cecità.

Il buio scende su di lei. Ella non riesce più a lavorare (fa l' Operaia alla pressa), viene licenziata. Lentamente la sua vita sprofonda nella notte, quella notte che ormai avvolge il Mondo, per lei, in maniera perenne.

Un afflato di speranza si può ritrovare nel balletto "ho già visto tutto", dove si parla della possibilità di rivedere le cose, poi, sul piccolo schermo dentro noi stessi. Ma uno spiraglio di speranza solo fittizio, subito pesantemente richiuso, senza alcuna possibilità di replica. Von Trier ce lo lascia intuire già, comunque, nel suo finale, quando il suo incedere diviene lento, più solenne anche se a tratti impazzito, come una sorta di "Marcia Funebre".

Selma ama i Musicals, sino ad identificarsi completamente con i suoi protagonisti. Anche nella cecità, che le impedisce di vedere i film del genere, ella godrà del racconto che di essi ne farà l' amica Kathy (una buona interpretazione di Catherine Deneuve). La sua passione per la Danza la porterà, addirittura, a "prefigurarsi", e a proiettare l' idea di un Padre, Aldridge Novi, Ballerino di Musicals, in cui Ella trasferisce tutta la sua idea di paternità.

Selma pratica i Musical, in un gruppo amatoriale, dove dovrà purtroppo capitolare (si noti la bellissima scena in cui Selma chiede all' amica il numero di passi da compiere per giungere al palco), per poi, in un altro ruolo (reale o sognato: nel film, talvolta, le due dimensioni si sovrappongono), volteggiare come sospinta dagli Occhi del Cuore, che molto lontano possono vedere.

Occhi del Cuore. Occhi della Mente. Forse un modo per guardare la Realtà completamente differente. Selma guarda il tutto con occhi interiori. Lotta contro la sua malattia cercando di vivere normalmente (andrà anche in bicicletta), come se avesse voluto sviluppare un' altra, e differente, vista, molto più profonda.

Ma qui si intravede anche un discorso relativo al Cinema. Può darsi che Von Trier ci voglia far guardare il Cinema in modo differente, con occhi nuovi. Farci gettare uno sguardo sulle cose diverso da quello consueto, per aiutarci ad osservare nel profondo, trascurando le apparenze per quanto conta davvero. Anche i balletti, cadenzati, talvolta drammatici o deliranti nella loro angoscia, ci portano su una strada di questo tipo, ove, abbandonato l' orpello inutile, guardiamo a ciò che vale davvero.

Il buio che genera luce. Jim, il figlio di Selma, soffre della stessa malattia della madre, malattia congenita ed ereditaria. Solo una costosa operazione potrà assicurargli la vista. Selma difenderà questa possibilità a costo della sua stessa Vita.

Questo fatto ci riporta al ciclo stesso della Vita, per il quale la morte di qualcosa rappresenta spesso l' inizio della Vita di qualcos' altro (si pensi al binomio fiore / frutto). Il ciclo di un divenire continuo, in cui la morte di qualcosa è un passaggio obbligato per la generazione della Vita, anche se questa assumerà altre forme. La frase che appare alla fine, infatti, recita: "They say it's the last Song; they don't know us, you see; it's only the last song; if we let it be" (Dicono che sia l'ultima canzone,- ma,- vedi non ci conoscono; sarà l'ultima canzone solo se noi decideremo – permetteremo - che lo sia) . Queste parole sono di una forza incredibile. Infatti, non solo contengono in sé tutto il concetto di divenire, il ciclo della Vita, ma addirittura l'idea della nostra autodeterminazione su questo divenire. Sino a dilatarsi nel dire che, se noi decidiamo che non è finita, nulla, nemmeno la Morte, potrà determinare che lo sia. O, di certo, in modo meno deterministico, questo vale anche nel senso di dire: "Il ciclo del divenire: nessuno sa quando sarà interrotto". Forse mai, come una ruota che gira senza soste, in una sorta di moto perpetuo circolare, tornando sempre al punto di partenza, magari per trovarlo modificato (il simbolo del "cerchio" si ritroverà alcune volte nel corso del film: nella danza come in altri episodi della Vita dei protagonisti).

Un lavoro che apre in parte al politico (Selma è Cecoslovacca), e che, in alcuni rari momenti, può denunciare un pochino di stanchezza.

Per il resto, è il solito provocante e coinvolgente stile di Von Trier. Interessante, come sempre, appare la tecnica della ripresa digitale, con camera a mano, che tanta intensità e suggestione dona nella sua apparente caoticità, in realtà guidata da sublime padronanza del mezzo tecnico, e accompagnata da un notevole gusto estetico.

Questo particolare modo di riprendere dona alla ripresa un' intensità notevolissima, ove la drammaticità non è creata da effetti o musiche, ma dalla pura immagine.

Nel film appare anche Jean-Marc Barr ("Lovers") che, con Von Trier, aveva firmato il famoso "Dogme 95", una specie di carta di un nuovo Cinema che, secondo le intenzioni, dovesse puntare all' essenziale, cancellando inutili fronzoli per focalizzarsi su ciò che vale davvero.

I colori, cupi, neutri, senza Vita, ci conducono pienamente nel dramma di Selma, verso il suo progressivo annientamento, verso il progressivo epilogo drammatico. Questa, forse, l' intenzione del Regista.

O forse no. Forse è davvero bello pensare a quanto si diceva prima sul "ciclo della vita", dove un epilogo di una cosa apre un prologo di un altra. E vedere, quindi, invece della vittoria dell' annichilimento totale dell' Essere, un' apertura a qualcosa che nasce, si evolve, e darà splendidi frutti.

 

Sergio Ragaini