2001 ODISSEA NELLO SPAZIO
(Di Stanley Kubrick)
Un
film di fiction o una riflessione sulla Vita e sull’Uomo?
La
risposta non è difficile: Kubrick usa la fiction, la fantasy, per fare una
riflessione sulla Vita e sull’Uomo, sulle sue problematiche, sui suoi profondi
desideri e sulle sue paure, compresa quella dell’ignoto, dell’inaccessibile,
dell’inintelligibile.
Magari,
per risolvere gli eterni problemi dell’Umanità: chi siamo, da dove veniamo,
dove andiamo.
Un’atmosfera
lenta, quasi irreale. Ove tutto sembra dilatarsi, o a volte contrarsi, sino ad
arrivare dove nessuno potrebbe immaginare di giungere, attraversando le
barriere dello spazio e del tempo, per capire davvero quale è la vita dell’uomo
e quali sono i suoi desideri più profondi.
Un
viaggio verso Giove, o come dice l’autore “oltre l’infinito”. Oltre quei limiti
che crediamo fisici, ma che ogni volta ci appaiono superati, superabili. Oltre
le barriere della conoscenza stessa, al di là di quello che noi sappiamo,
conosciamo. Oltre il tempo e lo spazio.
Un
qualcosa di magico. Ove i suoni, i rumori, le voci, appaiono amplificati. Ove
le luci, i colori, appaiono irreali, forse assurdi (ancora più brillanti e vivi
nella versione restaurata), ma meravigliosi se guardati sotto un’altra
prospettiva.
Un
viaggio nel cosmo. O forse un viaggio dentro l’uomo, dentro i suoi più intimi
problemi. In fondo, ogni giorno possiamo sperimentare che le nostre prospettive
umane, esistenziali, sono limitate, e che se vogliamo le possiamo superare, le
possiamo eludere, e viaggiare verso nuovi orizzonti di coscienza.
In
tal senso, un viaggio verso Giove è solo un pretesto per affrontare un viaggio
dentro l’Uomo. Ed il finale, in quella sequenza incredibile di suoni e di
colori, dove non si capisce come e dove si potrebbe arrivare, è in realtà un
viaggio dentro la persona umana. Nell’uomo, infatti, si alternano rumore e
silenzio, pace e subbuglio, tristezza e gioia. La sequenza finale potrebbe
preludere a questa lettura: le immagini che si susseguono in sequenza
potrebbero essere davvero un modo per pensare ad un viaggio nell’uomo. Infatti,
quello che ci appare può essere la rappresentazione di una realtà interiore,
una visione del mondo dalla parte dell’uomo. Sino ad arrivare al di là delle
proprie immaginazioni. Ma, in fondo, la Realtà supera sempre la fantasia.
Il
flusso del tempo, che scorre in modo comunque circolare. Questa è la
prospettiva vera sulla Vita, che unisce presente, passato e futuro in un’unica
armonia.
Le
immagini della preistoria dell’uomo non sono così staccate da quelle delle
astronavi nello spazio. Il simbolo del Film, il monolite che viene da non si
capisce dove, rappresenta forse il tempo, ma nella sua circolarità, dove tutto
torna. Dalla preistoria dell’uomo si passa allo spazio, ma senza stacco, con
continuità. Questa è una delle grandezze del lavoro: nulla rompe, ma tutto
fluisce.
A
cominciare dalla musica. Dissonante, misteriosa quella di Ligeti; epocale,
forse evocativa o epica, in Richard Strauss (così parlò Zarathustra); sino ad
arrivare alla solare e bellissima “Danubio Blu” di Johann Strauss. Sentire
quest’ultima vedendo ruotare le stazioni orbitanti nello Spazio è pura poesia,
pura armonia. La sequenza, lunga, non ci pesa, perché ci travolge nella sua
bellezza.
Ci
colpisce come tutto sia ciclico, o anche circolare. Le astronavi che ruotano,
che si muovono a ritmo di valzer ci danno l’impressione di un qualcosa che
ritorna, che ruota, che si evolve per poi tornare uguale a sé stesso. Ma, in
fondo, lo stesso valzer, per la sua struttura armonica e melodica, è un pezzo
ciclico.
Tutto
appare quasi irreale, forse magico, forse un sogno davvero lontano ma vicino ad
un tempo. Come tutto, nella Vita, può essere lontano e vicino nello stesso
momento.
Lo
spazio infinito: forse un mare sperduto, una corsa verso l’ignoto. Quanto può
essere simile, la sensazione dello Spazio, a quella del mare!
E
qui David, il capitano dell’astronave, può essere davvero un novello Ulisse che
torna verso la sua Itaca. Ma in questo caso Itaca è solo una meta ipotetica, un
punto estremo, forse asintotico, di conoscenza, un qualcosa a cui si tende
senza mai raggiungerla. O magari una meta vicina, anche se al di là di una
barriera che è sottile, ma spesso per noi insuperabile.
Anche
questa visione ha i suoi elementi che la rendono possibile. La Musica di
Richard Strauss ed il suo già citato titolo, tanto per fare un esempio. Ma
anche il computer, Hal 9001, che ha un occhio il quale ricorda molto da vicino
quello di Polifemo. Il gigante. Lo spazio come mare dell’Infinito, e così via.
A
proposito di Hal, si può ricordare che, all’origine, doveva chiamarsi Athena,
la dea della saggezza. Un riferimento mitologico ma, in questo caso, anche un
elemento che avvalora la tesi di una riflessione dentro l’uomo, i suoi limiti
ed il loro superamento.
Ancora
torna la circolarità, nella visione dell’occhio di Hal, ma anche nelle visioni
finali, in cui è evidente e chiaro come tutto fluisce per tornare da dove è
venuto. E’ sempre più chiaro il “nulla si crea e nulla si distrugge”, ma
stavolta si può modificare la frase in “ma tutto si trasforma, per tornare di
nuovo come era, ma trasformato”. Il finale del film lo dimostra, attraversando
tutte le fasi della Vita di David, sino alla morte e poi di nuovo alla Vita,
Lui stesso, in punto di morte, indica il monolite ove, vicino, appare lui
bambino. La nascita e la morte qui appaiono unite da una linea davvero marcata.
Un qualcosa che dice che nulla è mai finito. Forse davvero un grido di speranza
per l’uomo, il capire che la fine non esiste, è solo un’illusione, mentre in
realtà il tutto è solo un cambiamento verso uno stadio migliore, più vero, per
poi ricominciare rinnovato. Ancora il “nulla si crea e nulla si distrugge” ci
appare. Insieme al monolito, che forse lo rappresenta.
Nulla appare, nel film, lasciato al caso. Lo stesso nome Hal. Se analizziamo le sue lettere (H A L) ci accorgiamo infatti che, sostituendo ogni lettera con la successiva, otteniamo I B M: Ibm, appunto.
Nell’epoca
dei grandi calcolatori, quale quella in cui il Film è stato girato, questo ci
appare un gioco sottile, ma davvero interessante. Con questo, abbiamo ottenuto
un altro piacevole nome di senso compiuto, appunto Hal. Un altro elemento di
interesse notevole.
Nulla
di casuale, tutto perfetto, tutto appare combaciare, seppur nell’enigma di un
finale che, per molto tempo, ha fatto discutere.
Un
lavoro che, seppur visto oggi dà di certo un effetto diverso (siamo, in fondo,
nel 2001, ed Hal non ci stupisce più di tanto!) ancora ci affascina, ci
stupisce. Ci fa pensare.
Soprattutto,
ci permette di cercare di capire, sino in fondo, (o almeno di provarci) chi è
che cosa è questa macchina incredibile che si chiama Uomo. E come, sovente, i
limiti che l’uomo si pone siano in realtà fittizi, è possa bastare magari poco (anche se il poco può essere
moltissimo, e Kubrick ce lo dice chiaramente!) per volare verso nuove
dimensioni di spazio e di tempo, e scoprire in noi mondi meravigliosi.