L’agire dell’individuo come unità minima e, al tempo stesso,

limite superiore dell’analisi sociologica


Il fine della considerazione sociologica - la “comprensione” - costituisce infine anche il motivo per cui la sociologia comprendente (nel nostro senso) tratta l'individuo singolo e il suo agire come l'unità minima, come il proprio “atomo” - se ci è qui consentito questo raffronto in sé pericoloso. Il compito di altre forme di considerazione può ben comportare che si tratti forse l'individuo singolo come un complesso di “processi” psichici o chimici o di qualsiasi altra specie. Ma la sociologia prende in esame tutto ciò che sta al di sotto della soglia di un atteggiamento intelligibile dotato di senso nei confronti di “oggetti” (interni o esterni) - al pari dei processi della natura “estranea al senso” - solamente in quanto condizione oppure termine di riferimento soggettivo di tale atteggiamento. Per lo stesso motivo, però, l'individuo rappresenta pure, per questa forma di considerazione, il limite superiore e l'unico portatore di un atteggiamento dotato di senso. Nessuna forma di espressione che in apparenza se ne discosti può mascherare questo fatto. Appartiene al carattere specifico non soltanto del linguaggio, ma anche del nostro pensiero, che i concetti con cui viene colto l'agire lo facciano apparire nella veste di un essere permanente, di una formazione simile a una cosa o di una formazione di carattere “personale” che conduce una propria vita autonoma. Ciò avviene anche, e particolarmente, nella sociologia. Concetti come quelli di “stato”, di “corporazione”, di “feudalesimo” e simili designano per la sociologia, in generale, categorie di determinati tipi di agire umano collettivo; ed è quindi suo compito ricondurle a un agire “intelligibile” – il che vuol dire, senza eccezione, all’agire degli individui che vi partecipano.
(M. Weber, Alcune categorie della sociologia comprendente, op. cit, pp. 508-509)