Chiariamo, innanzitutto, cosa propriamente significhi, in pratica, questa razionalizzazione intellettualistica attraverso la scienza e la tecnica scientificamente orientata. Forse che noi oggi, tutti noi, per esempio, che siamo seduti in questa sala, abbiamo una conoscenza delle condizioni di vita nelle quali esistiamo maggiore di quella che possiede un indiano o un ottentotto? Difficilmente. Chi di noi viaggi in tram non ha alcuna idea, a meno che non sia un fisico specializzato, del modo in cui il veicolo si mette in moto. E del resto non ha alcun bisogno di saperlo. Gli è sufficiente poter “contare” sul comportamento della vettura tranviaria, ed egli regola conformemente il proprio comportamento; ma non sa davvero come si costruisca un tram in modo tale che si metta in moto. Incomparabilmente migliore è la conoscenza che il selvaggio ha dei propri strumenti. Se oggi spendessimo del denaro, scommetto che ciascuno dei colleghi esperti di economia politica presenti in sala avrebbe pronta una risposta diversa a questa domanda: In che mood agisce il denaro, tanto che con esso si possa comprare qualcosa, poco o molto che sia? In che modo riesca a provvedere al suo sostentamento quotidiano, e quali istituzioni gli servano a tale scopo, il selvaggio lo sa bene. La
crescente intellettualizzazione e razionalizzazione non
significa, quindi, una crescente conoscenza generale delle condizioni
di vita nelle quali ci troviamo. Ma essa significa qualcosa
di diverso, cioè la consapevolezza o la fede che sia
possibile apprendere solo ogni qual volta si voglia,
e che dunque per principio non esistano forze imprevedibili
misteriose che qui entrino in gioco ma che piuttosto tutte le
cose, per principio, si possano dominare attraverso il
calcolo. Ma questo significa il disincantamento del mondo.
Non è più necessario, come fa il selvaggio per
il quale esistono tali forze, ricorrere a mezzi magici per dominare
o propiziarsi gli spiriti. Ciò si ottiene con i mezzi
tecnici e con il calcolo. Questo, soprattutto, significa l’intellettualizzazione
in quanto tale.
Ma
questo processo di disincantamento, svoltosi incessantemente
per millenni nella cultura occidentale, e in genere questo “progresso”
di cui la scienza fa parte come elemento e impulso, ha un qualche
significato che superi quello puramente pratico e tecnico? Un
tale problemalo trovate sollevato, come più importante
questione di principio, nelle opere di Leone Tolstoj. Egli vi
arrivò in un modo tutto particolare. L’intero problema
che gli tormentava il cervello girava sempre di più attorno
alla domanda se la morte fosse o no un fenomeno che avesse
un significato. E la risposta che egli dà è che
un tale significato non c’è per gli uomini civilizzati.
E non c’è proprio perché la vita di ogni singolo
individuo civilizzato, inserita nel “progresso”, nell’infinito,
non potrebbe avere, per il suo stesso significato immanente,
una fine. Rimane, infatti, sempre un ulteriore progresso per
chi vi si trovi dentro; nessuno fra coloro che muoiono si trova
al culmine, perché questo è nell’infinito. Abramo
o un qualsiasi contadino del tempo antico moriva “vecchio e
sazio della vita”, perché si trovava nel ciclo organico
della vita, perché la sua vita, anche secondo il suo
significato, gli aveva portato alla sera dei suoi giorni ciò
che gli poteva offrire, perché non gli rimanevano enigmi
che desiderasse risolvere, e quindi poteva averne “abbastanza”.
Un uomo civilizzato, invece, coinvolto nel continuo arricchimento
della civiltà con idee, conoscenze, problemi, può
diventare “stanco”, ma non sazio della vita. Egli, infatti,
di ciò che la vita dello spirito genera sempre di nuovo
coglie soltanto la più piccola parte, e sempre qualcosa
di provvisorio, niente di definitivo, e quindi la morte è
per lui un avvenimento privo di significato. E dato che è
senza significato la morte, lo è anche la vita civile
in quanto tale, che appunto con la sua “progressività”
priva di significato dà anche alla morte questa impronta.
(M.
Weber, La scienza come professione, a cura di L. Pellicani,
Armando Editore, Roma, 1997, pp. 50-52; si tratta di una conferenza
tenuta a Monaco di Baviera nel 1918)
L’entusiasmo
appassionato di Platone nella Repubblica si spiega in
ultima analisi con il fatto che allora fu consapevolmente scoperto,
per la prima volta, il significato di uno dei più importanti
strumenti di ogni conoscenza scientifica: il concetto.
[…] Accanto a questa scoperta dello spirito ellenico comparve
ora, come figlio del Rinascimento, il secondo grande strumento
del lavoro scientifico: l’esperimento razionale come mezzo di
un’esperienza controllata in maniera attendibile, senza il quale
l’odierna scienza empirica sarebbe impossibile. […] l’esperimento
innalzato al principio della ricerca in quanto tale è
una realizzazione del Rinascimento.
(Ibidem,
pp. 53-55)
Ma
torniamo al discorso iniziale, per vedere quale sia, sotto tali
intrinseci presupposti, il significato della scienza come professione,
dato che tutte queste precedenti illusioni, cioè “via
verso il vero essere”, “via verso la vera arte”, “via verso
il vero Dio”, “via verso la vera felicità”, sono naufragate.
La risposta più semplice l’ha data Tolstoj con queste
parole: “Essa [la scienza] è priva di significato, perché
non dà alcuna risposta all’unica domanda per noi importante:
‘Cosa dobbiamo fare? Come dobbiamo vivere?”
(Ibidem,
p. 57)
Ci
soffermiamo ora sulle discipline a me più vicine, cioè
la sociologia, la storia, l’economia politica, la scienza politica
e quelle forme di filosofia della cultura che s’incaricano di
spiegarle. Si afferma, e io sottoscrivo, che la politica non
si addice in un’aula universitaria. […] Infatti, la presa di
posizione sul piano pratico-politico e l’analisi scientifica
di formazioni politiche e atteggiamenti partitici sono due cose
diverse.
(Ibidem,
pp. 60-61)
Sarei
in grado di provare, con le opere dei nostri storici, che ogni
qualvolta l’uomo tratta la scienza con il proprio giudizio di
valore viene meno la piena comprensione dei fatti. […]
E innanzitutto, se uno è un abile maestro, il suo primo
compito è quello d’insegnare ai suoi allievi a riconoscere
fatti scomodi, così come potrebbero esserlo, intendo
dire, per la sua opinione di parte; e fatti estremamente scomodi
di questo genere esistono per ogni opinione di parte, anche
per la mia. Ritengo che quando il docente universitario costringe
i suoi ascoltatori ad abituarsi a questo, compie qualcosa di
più che una semplice opera intellettuale, ed anzi ardirei
usare addirittura l’espressione “opera morale”, per quanto questa
possa suonare forse un po’ troppo patetica per un fatto ovvio
così banale.
(Ibidem,
pp. 63-64)
È
destino del nostro tempo, con la sua tipica razionalizzazione
ed intellettualizzazione, e soprattutto con il disincantamento
del mondo, che proprio i valori più alti e sublimi si
siano ritirati dalla vita pubblica per rifugiarsi nel regno
ultramondano dell’amore mistico o nella fraternità di
immediati rapporti reciproci. Non è a caso che la nostra
arte più alta sia quella intima, non monumentale, e che
soltanto all’interno dei circoli più ristretti pulsi
da individuo a individuo, nella quiete (in un pianissimo),
quel palpito corrispondente a quello che prima pervadeva le
grandi comunità come un soffio profetico nell’impeto
di un fuoco. Se cerchiamo di ottenere a forza e “inventare”
un senso monumentale dell’arte, ne risulta un così miserabile
aborto come nei molti monumenti degli ultimi vent’anni. Se cerchiamo
di escogitare nuove forme religiose senza una nuova e autentica
profezia, ne risulta nell’intimo della coscienza qualcosa di
simile che ha necessariamente effetti anche peggiori. E la profezia
pronunciata dalla cattedra creerà più che mai
solo sette fanatiche, ma mai una comunità autentica.
A chi non è capace di sopportare virilmente questo destino
del nostro tempo è necessario dire di tornare piuttosto,
in silenzio, senza la consueta pubblicità data alla propria
conversione, ma schiettamente e semplicemente, nelle braccia
largamente e misericordiosamente aperte delle antiche chiese.
Esse non gli fanno alcuna difficoltà. Ma in un modo o
nell’altro egli deve offrire, ciò è inevitabile,
il “sacrificio dell’intelletto”. Non lo rimprovereremo per questo,
se ne è realmente capace. Infatti, un tale sacrificio
dell’intelletto a favore di una dedizione religiosa incondizionata
è comunque moralmente qualcosa di diverso da quella elusione
del semplice dovere di onestà intellettuale, che avviene
quando non si ha il coraggio di rendersi conto chiaramente del
proprio atteggiamento ultimo, ma si alleggerisce questo dovere
rifugiandosi in un debole relativismo. E quella dedizione ricopre
un posto per me anche più alto di quella profezia pronunciata
dalla cattedra, la quale non si rende conto che tra le quattro
pareti di un’aula universitaria nessun’altra virtù ha
valore se non la semplice onestà intellettuale.
(Ibidem,
pp. 77-78)
|