La svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose. Il lavoro non produce soltanto merci; produce se stesso e l'operaio come una merce, e proprio nella stessa proporzione in cui produce in generale le merci. Questo fatto non esprime
altro che questo: l'oggetto , che il lavoro produce, il prodotto del
lavoro, si contrappone ad esso come un essere estraneo, come
una potenza indipendente da colui che lo produce. Il prodotto
del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto,
è diventato una cosa, è l’oggettivazione del
lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione.
Questa realizzazione del lavoro appare nello stadio dell'economia
privata come un annullamento dell'operaio, l’oggettivazione
appare come perdita e asservimento dell'oggetto, l'appropriazione
come estraniazione, come alienazione. […]
Tutte queste conseguenze
sono implicite nella determinazione che l'operaio si viene a trovare
rispetto al prodotto del suo lavoro come rispetto ad un oggetto
estraneo.
Infatti, partendo
da questo presupposto è chiaro che: quanto più l'operaio
si consuma nel lavoro, tanto più potente diventa il mondo estraneo,
oggettivo, che gli si crea dinanzi, tanto più povero diventa
egli stesso, e tanto meno il suo mondo interno gli appartiene. Lo
stesso accade nella religione. Quante più cose l'uomo trasferisce
in Dio, tanto meno egli ne ritiene in se stesso. L'operaio ripone
la sua vita nell'oggetto; ma d'ora in poi la sua vita non appartiene
più a lui, ma all'oggetto. Quanto più grande è
dunque questa attività, tanto più l'operaio è
privo di oggetto. Quello che è il prodotto del suo lavoro,
non è egli stesso. Quanto più grande è dunque
questo prodotto, tanto più piccolo è egli stesso. L'alienazione
dell'operaio nel suo prodotto significa non solo che il suo lavoro
diventa un oggetto, qualcosa che esiste all'esterno, ma che
esso esiste fuori di lui, indipendente da lui, a lui estraneo,
e diventa di fronte a lui una potenza per se stante; significa che
la vita che egli ha dato all'oggetto, gli si contrappone ostile ed
estranea. […]
(K. Marx, Manoscritti economico-filosofici
del 1844, a cura di N. Bobbio, Einaudi, Torino, 1968, pp. 71-72; pur
se redatta nel 1844, l’opera fu originalmente pubblicata solo nel
1932)
Sinora abbiamo considerato
l'estraniazione, l'alienazione dell'operaio da un solo lato, cioè
abbiamo considerato il suo rapporto coi prodotti del suo lavoro.
Ma l'estraniazione si mostra non soltanto nel risultato, ma anche
nell'atto della produzione, entro la stessa attività
produttiva. Come potrebbe l'operaio rendersi estraneo nel prodotto
della sua attività, se egli non si estraniasse da se stesso
nell'atto della produzione? Il prodotto non è altro che il
“resume” dell'attività, della produzione. Quindi, se prodotto
del lavoro è l'alienazione, la produzione stessa deve essere
alienazione attiva, alienazione dell'attività, l'attività
della alienazione. Nell'estraniazione dell'oggetto del lavoro si riassume
la estraniazione, l'alienazione che si opera nella stessa attività
del lavoro.
E ora, in che cosa
consiste l'alienazione del lavoro? Consiste prima di tutto nel fatto
che il lavoro è esterno all'operaio, cioè non
appartiene al suo essere, e quindi nel suo lavoro egli non si afferma,
ma si nega, si sente non soddisfatto, ma infelice, non sviluppa una
libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo e distrugge
il suo spirito. Perciò l'operaio solo fuori del lavoro si sente
presso di sé; e si sente fuori di sé nel lavoro. È
a casa propria se non lavora; e se lavora non è a casa propria.
Il suo lavoro quindi non è volontario, ma costretto, è
un lavoro forzato. Non è quindi il soddisfacimento di
un bisogno, ma soltanto un mezzo per soddisfare bisogni estranei.
La sua estraneità si rivela chiaramente nel fatto che non appena
vien meno la coazione fisica o qualsiasi altra coazione, il lavoro
viene fuggito come la peste. Il lavoro esterno, il lavoro in cui l'uomo
si aliena, è un lavoro di sacrificio di se stessi, di mortificazione.
Infine l'esteriorità del lavoro per l'operaio appare in ciò
che il lavoro non è suo proprio, ma è di un altro. Non
gli appartiene, ed egli, nel lavoro, non appartiene a se stesso, ma
ad un altro. […]
Ne viene quindi come
conseguenza che l'uomo (l'operaio) si sente libero soltanto nelle
sue funzioni animali, come il mangiare, il bere, il procreare, e tutt'al
più ancora l'abitare una casa e il vestirsi; e invece si sente
nulla più che una bestia nelle sue funzioni umane. Ciò
che è animale diventa umano, e ciò che è umano
diventa animale.
Certamente mangiare,
bere e procreare sono anche funzioni schiettamente umane. Ma in quell'astrazione,
che le separa dalla restante cerchia dell'attività umana e
le fa diventare scopi ultimi ed unici, sono funzioni animali.
Abbiamo considerato l'atto dell'estraniazione
dell'attività pratica dell'uomo, cioè il lavoro, da
due lati. 1) Il rapporto dell'operaio col prodotto del lavoro considerato
come oggetto estraneo e oppressivo. Questo rapporto è ad un
tempo il rapporto col mondo esterno sensibile, con gli oggetti della
natura, inteso come un mondo estraneo che gli sta di fronte in modo
ostile. 2) Il rapporto del lavoro con l'atto della produzione entro
il lavoro. Questo rapporto è il rapporto dell'operaio
con la sua propria attività come attività estranea che
non gli appartiene, l'attività come passività, la forza
come impotenza, la procreazione come svirilimento, l'energia fisica
e spirituale propria dell'operaio, la sua vita personale -
e infatti che [altro] è la vita se non attività? - come
un'attività rivolta contro di lui, da lui indipendente, e che
non gli appartiene. L' estraniazione di sé, come, prima,
l'estraniazione della cosa.
(Ibidem, pp. 74-76)
L'animale è immediatamente una cosa
sola con la sua attività vitale. Non si distingue da essa.
È quella stessa. L'uomo fa della sua attività vitale
l'oggetto stesso della sua volontà e della sua coscienza. Ha
un'attività vitale cosciente. Non c'è una sfera determinata
in cui l'uomo immediatamente si confonda. L 'attività vitale
cosciente dell'uomo distingue l'uomo immediatamente dall'attività
vitale dell'animale. […]
Certamente anche l'animale
produce. Si fabbrica un nido, delle abitazioni, come fanno le api,
i castori, le formiche, ecc. Solo che l'animale produce unicamente
ciò che gli occorre immediatamente per sé o per i suoi
nati; produce in modo unilaterale, mentre l'uomo produce in modo universale;
produce solo sotto l'impero del bisogno fisico immediato, mentre l'uomo
produce anche libero dal bisogno fisico, e produce veramente soltanto
quando è libero da esso; l'animale riproduce soltanto se stesso,
mentre l'uomo riproduce l'intera natura; il prodotto dell'animale
appartiene immediatamente al suo corpo fisico, mentre l'uomo si pone
liberamente di fronte al suo prodotto. L'animale costruisce soltanto
secondo la misura e il bisogno della specie, a cui appartiene, mentre
l'uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e sa ovunque predisporre
la misura inerente a quel determinato oggetto; quindi l'uomo costruisce
anche secondo le leggi della bellezza.
Proprio soltanto nella
trasformazione del mondo oggettivo l'uomo si mostra quindi realmente
come un essere appartenente ad una specie. Questa produzione
è la sua vita attiva come essere appartenente ad una specie.
Mediante essa la natura appare come la sua opera e la sua realtà.
L'oggetto del lavoro è quindi l'oggettivazione della vita
dell'uomo come essere appartenente ad una specie, in quanto egli
si raddoppia, non soltanto come nella coscienza, intellettualmente,
ma anche attivamente, realmente, e si guarda quindi in un mondo da
esso creato. Perciò il lavoro estraniato strappando all'uomo
l'oggetto della sua produzione, gli strappa la sua vita di essere
appartenente ad una specie, la sua oggettività reale
specifica e muta il suo primato dinanzi agli animali nello svantaggio
consistente nel fatto che il suo corpo inorganico, la natura, gli
viene sottratta. […]
Il lavoro alienato
fa dunque:
3) dell'essere
dell'uomo, come essere appartenente ad una specie, tanto della
natura quanto della sua specifica capacità spirituale, un essere
a lui estraneo, un mezzo della sua esistenza individuale.
Esso rende all'uomo estraneo il suo proprio corpo, tanto la natura
esterna, quanto il suo essere spirituale, il suo essere umano.
4) Una conseguenza
immediata del fatto che l'uomo è reso estraneo al prodotto
del suo lavoro, della sua attività vitale, al suo essere generico,
è l'estraniazione dell'uomo dall'uomo. Se l'uomo si
contrappone a se stesso, l'altro uomo si contrappone a lui.
Quello che vale del rapporto dell'uomo col suo lavoro, col prodotto
del suo lavoro e con se stesso, vale del rapporto dell'uomo con l'altro
uomo, ed altresì col lavoro e con l'oggetto del lavoro dell'altro
uomo.
(Ibidem, pp. 78-80)
|