“Il lavoro e la vita domestica”, in A. Giddens, Fondamenti di sociologia, il Mulino, Bologna, 2000, XI Capitolo.
Giddens in questo capitolo si propone di chiarire quale sia il significato del lavoro nella nostra vita, cioè quale sia la sua natura nelle società moderne e quali siano i principali cambiamenti che interessano la vita economica. Per fare questo procede selezionando alcuni degli aspetti e delle dimensioni che egli ritiene più rilevanti in riferimento al fenomeno lavorativo. Il capitolo affronta, nell’ordine,
i seguenti TEMI: Nel passare in rassegna tali temi
Giddens privilegia un taglio descrittivo-concettuale, in cui i riferimenti
teorici sono frequentemente integrati da dati statistici. In primo luogo, occorre sottolineare come il lavoro rivesta un’importanza che va oltre la semplice sfera economica, poiché esso mette in gioco aspetti che riguardano l’identità, la riconoscibilità sociale, la condizione psicologica, la relazionalità. Secondo Giddens vi sono 6 caratteristiche
particolarmente rilevanti del lavoro retribuito:
Esso,
infatti, è più ampio di quello di ‘lavoro retribuito’:
le categorie di ‘occupato’ e ‘disoccupato’
non esauriscono una realtà che comprende anche la cosiddetta
“economia informale”
Entro
l’economia informale si possono collocare evidentemente le transazioni
economiche ‘in nero’, ma anche forme di attività in proprio
(il ‘fai da te’) e di scambio
Tale
sistema ha al proprio centro l’elemento tecnologico ed anche gli attuali
sviluppi sono fortemente correlati al cambiamento della tecnologia
Il secondo
dei temi affrontati da Giddens coglie uno degli aspetti centrali
e distintivi della vita economica nella modernità: la
divisione del lavoro.
Rispetto
alla società tradizionali,
dove a) frequentemente il lavoratore prendeva parte direttamente all’intero
processo di produzione, b) i mestieri artigianali erano poche decine
e pochissimi erano le attività specializzate (mercanti, soldati,
sacerdoti ricorda Giddens), c) la maggior parte della popolazione
era autosufficiente e si procurava il cibo ed i prodotti di uso quotidiano
attraverso il proprio lavoro, con la famiglia
che era unità di produzione e consumo, la società
moderna ha specializzato le mansioni, i ruoli ed i processi lavorativi,
aumentando enormemente l’interdipendenza economica tra i diversi individui.
Uno dei
filoni di studio della divisione
del lavoro
Giddens
ricostruisce a grandi linee il percorso che ha portato il lavoro sino
alla modernità ‘matura’.
Nel 1776
l’economista A. Smith descrisse, all’interno della sua celeberrima
opera La ricchezza della nazioni, l’enorme aumento nel tasso
di produttività ottenuto all’interno di una fabbrica di spilli
attraverso la divisione del lavoro in mansioni specializzate.
Alla fine
del XIX secolo un ingegnere statunitense, F.W. Taylor, formalizzò
la filosofia della divisione e specializzazione del lavoro elaborando
quello che egli stesso definì ‘management scientifico’, altrimenti
noto come ‘organizzazione
scientifica del lavoro’, in cui ogni singolo processo lavorativo veniva
scomposto ed ottimizzato in termini di tempistica e di efficienza.
Il cosiddetto taylorismo si diffuse ampiamente in molti Paesi occidentali,
ma incontrò diverse resistenze ad Oriente, differenziandosi
in particolare dal modello
di organizzazione aziendale giapponese
La ‘lezione’
di Taylor fu applicata entro la produzione di massa, quindi per la
vendita di prodotti in mercati di massa, da H. Ford, il cui sistema
basato su macchine e strumenti specializzati per la produzione di
automobili (e sulla costruzione innovativa di una catena di montaggio
mobile), sperimentato nel 1913 per la famosa Ford modello T, ebbe
un tale successo di efficienza e di vendite da portare alla definizione
di fordismo.
Il taylorismo
ed il fordismo insieme sembravano poter rappresentare per lungo tempo
il futuro della produzione industriale, ma Giddens sottolinea come
una certa rigidità di tale sistema di fronte a modifiche del
prodotto, la facilità di copiatura della produzione e, quindi,
il vantaggio considerevole di chi può avere manodopera a basso
costo, la costosità dell’allestimento di una catena di produzione
meccanizzata lo rendono ottimale solo per alcuni settori.
In più
occorre aggiungere che negli ultimi decenni si è assistito
ad un sempre più marcato spostamento da un mercato di massa
standardizzato verso una produzione flessibile, ‘personalizzata’,
mutevole nell’arco di tempi piuttosto brevi, ‘su misura’ in relazione
sia all’ammontare di richieste sia al tipo di richieste, spostamento
di orizzonte che può sintetizzarsi attraverso espressioni come
produzione ‘just-in-time’.
L’introduzione
e la diffusione della progettazione computerizzata ha fortemente favorito
il passaggio alla produzione flessibile, consentendo di creare su
vasta scala prodotti progettati per clienti particolari. A tal riguardo
Giddens ricorda come S. Davis abbia parlato della nascita di una ‘individualizzazione
di massa’, sintetizzando efficacemente un fenomeno in cui si abbinano
modifiche promosse dall’innovazione
tecnologica e modifiche nella domanda di prodotti.
La produzione
flessibile ha avuto origine, prima dello sviluppo della progettazione
computerizzata, in Giappone, dove molto si è puntato, come
si è visto in precedenza, sulle competenze dei lavoratori e
su un’organizzazione più
agile.
Al di là
della competitività dei sistemi produttivi sul piano dell’efficienza
e delle vendite, Giddens mette in evidenza un altro, importante aspetto
del fenomeno lavorativo: la motivazione al lavoro o, in un’accezione
più ampia e generale, la
qualità del lavoro
Giddens
ricorda come fordismo e taylorismo siano stati definiti ‘sistemi a
basso affidamento’, in cui “le mansioni vengono stabilite dalla direzione
e adattate alle macchine. Le persone che effettuano il lavoro sono
strettamente sorvegliate e dotate di poca autonomia d’azione” (p.
278). Un ‘sistema ad alto affidamento’ “è quello in cui gli
individui sono lasciati abbastanza liberi di controllare l’andamento,
e anche il contenuto, del lavoro, all’interno di alcune linee guida
prestabilite” (p. 278).
Le alternative
all’organizzazione del lavoro
a basso affidamento, in cui elevati sono tanto l’insoddisfazione e
l’assenteismo dei lavoratori quanto il conflitto, sperimentate a partire
dagli anni ’70, hanno puntato sull’automazione (si pensi ai robot,
che certamente in un futuro prossimo avranno sempre più spazio
nella produzione) e sulla produzione di gruppo, in cui i lavoratori
collaborano e si incontrano per studiare e risolvere problemi della
produzione.
Giddens
giunge quindi al terzo tema individuato tra
i più interessanti: il conflitto industriale, inteso come forma
specifica del più ampio conflitto sociale legata al rapporto
tra operai e datori di lavoro
Dopo
episodi e modalità di lotta premoderne quali rivolte e ribellioni
per il cibo o contro le tasse eccessivamente elevate (che si trascinarono
fino alla fine dell’Ottocento), nel XIX secolo il conflitto industriale
cominciò a definirsi in maniera sempre più peculiare:
dapprima attraverso forme semi-organizzate, poi con la formazione
di un vero e proprio movimento di tipo sindacale.
Le
reazioni furono spesso dure e drastiche, come a cavallo tra Settecento
e Ottocento, quando in Gran Bretagna furono approvate normative
che vietavano esplicitamente le riunioni tra operai organizzati
e le dimostrazioni popolari. L’abolizione di tali divieti si ebbe
circa 20 anni dopo e, nel corso del XIX secolo si registrò
il graduale costituirsi del sindacalismo, consolidatosi tra la
fine dello stesso secolo e l’inizio del successivo, trasformandosi
in un movimento di massa.
Ancora
agli inizi del XX secolo lo sciopero
In
ottica europea e occidentale, il sindacato mostra storie e
caratteristiche fortemente dipendenti dai vari contesti nazionali
e dalle vicende ad essi interne.
Perché
esistono i sindacati? “A parere di alcuni, i sindacati sarebbero
di fatto una variante delle corporazioni medievali […] riproposta
nel contesto dell’industria moderna. Questa interpretazione
potrebbe aiutarci a capire perché i sindacati sono
spesso emersi inizialmente tra gli operai di mestiere, ma
non chiarisce il costante conflitto industriale. Una spiegazione
più soddisfacente deve tener presente il fatto che
i sindacati si sono sviluppati per proteggere gli interessi
materiali dei lavoratori all’interno di contesti industriali
che li uniscono, creando solidarietà, ma in cui essi
dispongono di un potere formale assai scarso”, Giddens,
p. 283.
Appare
piuttosto evidente come alcune difficoltà di rappresentatività
e di legittimazione in cui si muovono attualmente i sindacati
siano da attribuirsi alla frammentazione
del mercato del lavoro
I
sindacati nel corso della seconda metà del XX
secolo sono cresciuti, si sono consolidati e burocratizzati,
divenendo interlocutori autorevoli delle politiche nazionali.
In
questo processo di radicamento vi sono stati passaggi
critici: Giddens ricorda come la crescita di funzionari
a tempo pieno può aver dato origine a gruppi
dirigenti sindacali distanti dalla realtà quotidiana
del lavoro e diversità di opinioni rispetto
ai lavoratori, inoltre generalmente i sindacati non
annoverano tra gli iscritti un’elevata percentuale
di donne.
Oltre
alla problematica richiamata più sopra, sono
suggerite almeno tre questioni che minacciano la
forza delle organizzazioni sindacali: la recessione
economica mondiale, associata ad alti livelli di
disoccupazione (si indebolisce il potere negoziale);
la perdita di dinamismo ed importanza delle vecchie
industrie manifatturiere (tradizionali roccaforti
sindacali); l’apertura internazionale dei mercati
del lavoro verso le aree dell’Estremo Oriente, dove
il costo del lavoro - in particolare i salari -
è sovente assai più basso rispetto
ai Paesi occidentali.
Tendenzialmente
si nota un indebolimento dei sindacati in periodi
di sofferenza occupazionale.
Il
tasso di sindacalizzazione appare in discesa
in tutti i Paesi industrializzati, anche se
il suo andamento varia da Paese a Paese.
La
definizione di sciopero, precedentemente fornita
in termini assai generali, sconta un’arbitrarietà
abbastanza elevata, per cui diventa importante
sapere a quale definizione si fa riferimento
quando si presentano dei dati.
I
principali indicatori utilizzati per ‘misurare’
gli scioperi su base annua sono: il numero
(o frequenza); la percentuale di
lavoratori coinvolta (partecipazione);
il numero di giornate di lavoro perse per
gli scioperi (volume).
Giddens
sottolinea come lo sciopero sia una delle
forme, certamente la più nota,
del conflitto industriale (ci sono anche
le serrate, le limitazioni della produzione,
gli scontri in sede negoziale, l’elevato
turnover della manodopera, l’assenteismo,
il disturbo dell’attività produttiva)
Nella tabella, ricavata da G. Della Rocca, Il sindacato, in G.P. Cella, T. Treu (a cura di), Le nuove relazioni industriali, il Mulino, Bologna, 1998, si veda la sindacalizzazione dell’Italia negli ultimi 50 anni. |
Il
quarto tema affrontato
da Giddens è quello del rapporto
tra donne
e lavoro
Si
rinvia al Capitolo “Stratificazione
e struttura di classe”, in particolare
al Par. 4 “Genere e stratificazione”,
sottolineando come ci si trovi di
fronte ad una delle numerose interrelazioni
entro la conoscenza sociologica, che
solo per comodità analitico-espositive
viene articolata in capitoli entro
i manuali didattici.
Negli
ultimi decenni il mercato del lavoro
occidentale, caratterizzato tradizionalmente
da un’ampia maggioranza di lavoratori
maschi, ha visto un aumento progressivo
della presenza femminile all’interno
della forza lavoro.
Giddens
fa notare come nelle società
pre-industriali vi fosse una stretta
corrispondenza e vicinanza tra
attività produttive ed
attività domestiche entro
la famiglia, che assumeva nella
grande maggioranza dei casi i
connotati di ‘azienda’, essendo
forte il suo carattere di aggregato
con valenza produttivo-economica.
Al suo interno i diversi membri
erano impegnati nel lavoro, con
un ruolo
sovente di rilievo per le donne,
mentre gli uomini mantenevano
il monopolio su politica e guerra.
L’urbanizzazione
e l’industrializzazione furono
i processi che cambiarono profondamente
questo stato di cose, in primis
separando il luogo di lavoro
dalla casa.
Nella
prima parte dell’Ottocento
molti imprenditori assumevano
interi nuclei familiari, ma
poi questa pratica scomparve
e si la separazione tra luogo
di lavoro e casa si istituzionalizzò,
portando le donne a diventare
le custodi dei ‘valori domestici’,
tra lavoro di cura, assistenza
e gestione della casa.
Per
la maggior parte del XX
secolo i livelli occupazionali
femminili si mantennero
tendenzialmente bassi, in
maniera tutto sommato indipendente
dalla condizione di classe
|
La
casa, cessando di essere
luogo di lavoro ‘ufficiale’,
divenne quindi luogo di
lavoro domestico e di
consumo, piuttosto che
di produzione.
Lo
sviluppo tecnologico
diffuso attraverso prodotti
di massa come gli elettrodomestici
e, prima ancora, l’installazione
di impianti di acqua
calda e di impianti
elettrici tolse parte
della fatica ad un lavoro
casalingo che era assai
duro.
|
Nonostante
l’innovazione
tecnologica, l’emancipazione
femminile da una serie
di ruoli e consuetudini
consolidatisi nel sistema
culturale e la maggior
partecipazione al mercato
del lavoro, ancora oggi
il tempo medio dedicato
da una donna alle attività
casalinghe in molti
Paesi occidentali si
è mantenuto piuttosto
elevato.
Giddens
ricorda, ad esempio,
come sia aumentato
il tempo dedicato
alla cura dei bambini,
agli acquisti e alla
preparazione dei pasti.
Sempre
in tema di rapporto
tra donne e lavoro,
viene poi sottolineato
come sia rilevante
il significato del
lavoro casalingo
non retribuito per
l’economia, visto
che esso fornisce
(gratuitamente)
un’ampia serie di
servizi che vanno
a sostegno di gran
parte della popolazione
attiva
Giddens sottolinea come l’aumentata presenza delle donne nel mercato del lavoro sia da leggere in buona parte in chiave di copertura di posti di lavoro scarsamente retribuiti e tendenzialmente routinari, posti che magari un tempo erano di buon prestigio (si pensi all’attività impiegatizia) e che oggi, grazie alla meccanizzazione del lavoro d’ufficio, sono meno appetibili. Anche
se lo scarto si
è ridotto
negli ultimi anni,
la retribuzione
media femminile
è alquanto
inferiore a quella
maschile, anche
all’interno della
stessa categoria
occupazionale.
Ciò comporta
anche un rischio
più elevato
di povertà
per le donne,
rischio particolarmente
forte tra quante
hanno famiglia
a carico e, in
particolare, nella
fase infantile
dei figli. Giddens
sottolinea come
la condizione
femminile, dal
punto di vista
del rapporto col
mondo del lavoro,
si presenti come
un circolo vizioso
in cui le non
pari opportunità
alimentano condizioni
di precarietà
e fragilità.
L’ingresso
in attività
e mansioni che
sono appannaggio
degli uomini
è avvenuto,
ma con casi
ancora abbastanza
isolati e partendo
da posizioni
piuttosto basse.
Ciò
che appare evidente
è che
il sistema socio-culturale
risulta ancora
‘ostile’, o
perlomeno non
adeguato, per
quelle donne
che raggiungono
una collocazione
lavorativa ed
un successo
economico sinora
riservati ai
maschi. In particolare,
come emerge
da alcune ricerche,
la possibilità
della maternità
finisce per
condizionare
l’accesso al
lavoro e/o a
particolari
livelli lavorativi,
venendo rappresentata
come elemento
di ostacolo
da imprenditori
e dirigenti.
La differenza
nell’atteggiamento
verso donne
lavoratrici
sembra essere
rapportata,
più che
ad eventuali
difficoltà
nello svolgere
un lavoro, sulla
responsabilità
nella cura dei
figli, che viene
comunemente
attribuita in
misura prevalente
alle madri,
andando a pregiudicare
il raggiungimento
di pari
opportunità
La
Svezia appare
come il Paese
occidentale
più avanzato
per quanto riguarda
l’uguaglianza
tra i sessi,
con un sistema
di sussidi statali
e di servizi
che supportano
la maternità
e la cura dei
figli e con
un tasso
di attività
femminile elevato.
Nonostante questo
anche in Svezia
la percentuale
tra le donne
di impieghi
part-time, che
offrono minori
opportunità
di carriera,
benefici sociali
e trattamenti
pensionistici,
è notevolmente
superiore a
quella maschile.
Il
quinto
tema riguarda
una delle questioni
più dibattute
e delle sfide
più pressanti
degli ultimi
anni: la disoccupazione
Nella
Tabella tratta
da N. Smelser,
Manuale di
sociologia,
il Mulino-Prentice
Hall, Bologna,
1995, p. 496,
con fonte R.
Golinelli -
edizione italiana
de A.B. Abel,
B.S. Bernanke,
Macroeconomia,
il Mulino, Bologna,
1994 (curata
da Golinelli
medesimo), si
veda il tasso
di disoccupazione
italiano tra
il 1925 e il
1992.
|
Nel
corso del
Novecento
i tassi di
disoccupazione
hanno avuto
diverse oscillazioni,
con un picco
negli anni
’30 nei Paesi
occidentali.
Dopo
la seconda
guerra mondiale
le idee di
J.M. Keynes,
economista,
ebbero vasta
diffusione
e raccolsero
ampio credito,
in tal modo
prevalse una
politica economica
in cui lo
Stato era
protagonista,
in particolare
attraverso
l’incremento
della domanda
di lavoro
e la creazione
di nuovi posti
di lavoro.
Nei
tre decenni
che seguirono
la guerra
vi fu una
tendenziale
crescita economica,
con i governi
tesi a raggiungere
la piena occupazione
in tutti i
Paesi occidentali.
Successivamente,
tuttavia,
la crescita
rallentò,
i tassi di
disoccupazione
ricominciarono
a salire e
il cosiddetto
‘keynesismo’
venne fortemente
ridotto, quando
non abbandonato.
Ritornando
a quanto affermato
in merito
alla definizione
di lavoro,
occorre sottolineare
come anche
per il concetto
di disoccupazione
ci si trovi
di fronte
ad ambiguità
e possibili
fraintendimenti.
Giddens
ricorda che
essere disoccupati
“significa
‘essere senza
lavoro’. Ma
‘lavoro’ qui
sta per ‘lavoro
retribuito’
e ‘lavoro
nel contesto
di un’occupazione
riconosciuta’”
(p. 297).
Appare chiaro
che rimangono
fuori le forme
di lavoro
non ufficiale,
altrimenti
detto ‘informale’,
non registrato:
persone definite
disoccupate
potrebbero
pertanto svolgere
questi tipi
di lavori.
Due
misure ulteriori
e complementari,
secondo alcuni
economisti,
possono meglio
cogliere il
fenomeno della
disoccupazione:
si tratta
del ‘lavoratore
scoraggiato’
(chi vorrebbe
un lavoro
ma, persa
la speranza
di trovarlo,
ha smesso
di cercarlo
attivamente)
e del ‘lavoratore
a tempo parziale
involontario’
(chi, pur
desiderandolo,
non ha un
lavoro a tempo
pieno).
Giddens
ricorda l’importanza
di indicatori
e concetti
|
Dalla
tabella qui
sopra si coglie
l’articolazione
del tasso di
disoccupazione
per età
e genere in
Italia, nel
1998. Volendo
azzardare una
sintesi estrema,
si può
affermare che
- in Italia
– la disoccupazione
è prevalentemente
giovanile, femminile
e meridionale.
Il
sesto
(ed ultimo)
tema affrontato
da Giddens riguarda
un interrogativo
che, in tempi
di globalizzazione
e di accelerato
sviluppo tecnologico,
tocca uno dei
nervi scoperti
delle società
contemporanee:
quale sarà
il futuro del
lavoro?
Ritorna
con prepotenza
il concetto, ambiguo
ed ormai abusato,
di ‘flessibilità’:
come si è
già potuto
in parte sottolineare
entro tale concetto
si può
trovare sia un
lavoratore con
molteplici capacità
e credenziali
professionali
(il ‘lavoratore-portafoglio’)
che può
muoversi da un
lavoro all’altro
senza ripetersi,
sia un lavoratore
indebolito dalla
precarietà
e, quindi, da
un forte depotenziamento
della progettualità
lavorativa e sociale.
Anche se alcune ricerche sembrano mostrare una preferenza della maggior parte delle aziende e dei manager ad assicurarsi un personale stabile, magari impegnandosi a metterlo in formazione più di una volta, le grandi trasformazioni del lavoro sono caratterizzate da processi di reversibilità, ristrutturazione, tempo determinato, ecc. Il
vasto ed anche
appassionato
dibattito sviluppatosi
intorno al destino
del lavoro così
come esso è
giunto sino
a noi, istituzione
centrale del
XX secolo, ha
portato alcuni
a parlare di
declino dell’importanza
del lavoro.
L’argomentazione
da essi sviluppata
si basa sull’idea
che l’identificazione
tra lavoro ed
occupazione
retribuita sia
limitativa:
se il non possesso
di un’occupazione
retribuita cessasse
di essere inteso
come mancanza
di lavoro, una
possibilità
potrebbe darsi
- secondo questi
studiosi – nel
considerare
come ‘lavoratori
indipendenti’
coloro che attualmente
sono definiti
come disoccupati,
distribuendo
sussidi
a quanti ne
hanno bisogno
per realizzare
i propri progetti Una
tendenza complessivamente
riscontrabile,
pur tra eccezioni
e squilibri
geografico-economici,
è che
la
quantità
di tempo dedicata
al lavoro retribuito,
grazie soprattutto
allo sviluppo
tecnologico,
continua a diminuire
e ciò
potrebbe portare
ad una forte
modificazione
di fasi, sequenze,
tempi, interazioni,
scambi tra vita
e lavoro. La
varietà
delle forme
e della durata
del lavoro potrebbe
portare sempre
più persone
a pianificare
la propria vita
con ‘andate’
e ‘ritorni’
tra dimensione
socio-culturale
e dimensione
lavorativa.
Giddens
suggerisce come
molte persone
sembrino apprezzare,
ad esempio,
“proprio la
possibilità,
offerta dal
part-time, di
combinare il
lavoro retribuito
con altre attività
e di condurre
una vita più
varia” (p. 302).
Il
sociologo francese
A. Gorz ritiene
che occorra
‘liberarsi dal
lavoro’, una
volta accertato
che il processo
di trasformazione
in corso mostra
come il lavoro
retribuito e
il lavoro a
tempo pieno
siano in diminuzione
e siano destinati
a diminuire
ulteriormente,
sotto la spinta
delle ‘microtecnologie’.
Liberarsi
dal lavoro,
secondo Gorz,
è importante
soprattutto
dove l’attività
lavorativa segue
schemi tayloristici
o risulta oppressiva
e monotona.
Gorz
ritiene che
già esista,
accanto alla
quota in calo
di lavoratori
stabili, una
“non-classe
di non-lavoratori”
Questa
trasformazione,
nelle previsioni
dell’autore
francese, potrebbe
portare ad un
rifiuto della
filosofia ‘produttivistica’
occidentale,
a favore di
una varietà
di stili di
vita che si
porrà
al di fuori
della sfera
del lavoro permanente
retribuito.
Giddens
raccoglie lo
spunto di Gorz
di provare a
vedere la disoccupazione
in una luce
non necessariamente
negativa, ma
“come occasione
di perseguire
i propri interessi
e sviluppare
i propri talenti”.
Tuttavia chiude
con una sintesi
decisamente
concreta: “il
lavoro retribuito
rimane per molti
la fonte principale
delle risorse
materiali necessarie
a condurre una
vita variata”
(p. 303). Ed
anche dignitosa.
Esercizi
di verifica
del percorso
di comprensione
e studio
1) Quali sono le sei caratteristiche del lavoro retribuito che Giddens ritiene particolarmente rilevanti? suggerimento 2)
In quale modo
si può
dare una definizione
soddisfacente
di lavoro? suggerimento
3)
Qual è
una definizione
sintetica di
‘economia informale’?
suggerimento
4)
Quali sono le
due caratteristiche
distintive del
sistema economico
moderno? In
cosa consistono?
suggerimento
5)
Quali sono i
principali passaggi
- e i principali
riferimenti
teorici - che
hanno contraddistinto
la maturazione
del lavoro dalla
prime forme
di
specializzazione alla produzione industriale moderna? suggerimento 6)
In cosa consistono
i sistemi a
basso e ad alto
affidamento?
suggerimento
7)
In quale modo
si può
argomentare
in termini introduttivamente
sul concetto
di ‘produzione
flessibile’?
suggerimento
8)
Quali spiegazioni
si possono dare
della nascita
e del consolidamento
dei sindacati?suggerimento
9)
Quali sono le
lacune e le
sfide che caratterizzano
la condizione
attuale del
sindacalismo?
suggerimento
10)
Quali sono le
forme di conflitto
industriale?
suggerimento
11)
Quali sono i
principali indicatori
riguardanti
gli scioperi?
suggerimento
12)
Quali sono le
principali differenze
tra società
pre-industriali
e società
industriali
che hanno a
che fare con
il rapporto
tra donne e
lavoro? suggerimento
13)
Quali aspetti
emergono nel
processo di
ampliamento
della presenza
femminile all’interno
del mercato
del lavoro?
suggerimento
14)
Quale riflessione
si può
fare sul concetto
di disoccupazione?
suggerimento
15)
Qual è
stato l’andamento
della disoccupazione
e delle politiche
del lavoro nei
Paesi occidentali
durante il XX
secolo? suggerimento
16)
Quali considerazioni
si possono fare
intorno al concetto
di ‘lavoratore
flessibile’?
suggerimento
17)
Quali considerazioni
si possono fare
intorno al concetto
di ‘declino
dell’importanza
del lavoro?
suggerimento
18)
Qual è,
in sintesi,
la posizione
di A. Gorz?
suggerimento
|