[…] occorre soprattutto determinare in quale misura la solidarietà che [la divisione del lavoro] produce contribuisca all’integrazione generale della società: soltanto allora sapremo fino a quale punto la divisione del lavoro è necessaria, se cioè costituisce un fattore essenziale della coesione sociale, oppure se, al contrario, non è che una sua condizione accessoria e secondaria. […] Ma la solidarietà sociale
è un fenomeno morale che non si presta di per sé ad
un'osservazione esatta ne tanto meno alla misura. Per procedere a
questa classificazione e a questo confronto occorre dunque sostituire
al fatto interno che ci sfugge il fatto esterno che lo simbolizza,
e studiare il primo attraverso il secondo.
Questo
simbolo visibile è il diritto. Infatti, dove essa esiste, la
solidarietà sociale non rimane, malgrado il suo carattere immateriale,
allo stato di pura potenzialità, ma si manifesta mediante effetti
sensibili. […]
Infatti,
la vita sociale, dovunque essa ha un’esistenza duratura, tende inevitabilmente
ad assumere una forma definita e ad organizzarsi: il diritto non è
altro che questa medesima organizzazione in ciò che ha di più
stabile e di più preciso. La vita generale della società
non può estendersi in nessun campo senza che la vita giuridica
la segua nel medesimo tempo e negli stessi rapporti. Possiamo dunque
essere certi di trovare - riflesse nel diritto - tutte le varietà
essenziali della solidarietà sociale.
(É.
Durkheim, La divisione del lavoro sociale, op. cit, pp. 85-86)
Ora, ogni precetto giuridico
può essere definito una regola di condotta soggetta a sanzione.
D' altra parte, è evidente che le sanzioni mutano secondo
la gravità attribuita ai precetti, il posto che occupano
nella coscienza pubblica e la parte che sostengono nella società.
Conviene quindi classificare le regole giuridiche in base alle differenti
sanzioni che sono ad esse collegate.
Ve
ne sono di due tipi. Le une consistono essenzialmente in un dolore,
o per lo meno in una diminuzione inflitta all'agente; esse hanno
per scopo di colpirlo nella sua fortuna o nel suo onore o nella sua
vita o nella sua libertà -di privarlo di qualcosa di cui gode.
Esse sono dette sanzioni repressive: è questo il caso del diritto
penale. È ben vero che le sanzioni collegate alle regole puramente
morali hanno il medesimo carattere: esse sono però distribuite
in maniera diffusa indistintamente in tutto il mondo, mentre quelle
del diritto penale vengono applicate soltanto tramite un organo definito,
e cioè sono organizzate. Quanto all'altro tipo, esso non implica
necessariamente la sofferenza dell'agente, ma consiste soltanto in
una riparazione, cioè nel ristabilimento dei rapporti turbati
nella loro forma normale: l'atto incriminato può venir ricondotto
di forza al tipo dal quale ha deviato, oppure può venire annullato,
cioè privato totalmente di valore sociale: Dobbiamo dunque
ripartire le regole giuridiche in due grandi tipi, a seconda che esse
abbiano sanzioni repressive organizzate o sanzioni soltanto restitutive.
Il primo comprende l'intero diritto penale; il secondo comprende il
diritto civile, il diritto commerciale, il diritto di procedura, il
diritto amministrativo e costituzionale - prescindendo dalle regole
penali che possono trovarvisi.
Cerchiamo
ora a quale forma di solidarietà sociale corrisponde ognuno
di questi tipi.
(Ibidem,
pp. 90-91)
Il vincolo
di solidarietà sociale al quale corrisponde il diritto repressivo
è quello la cui rottura costituisce il reato; chiamiamo così
ogni atto che, in qualche grado, determina contro il suo autore la
reazione caratteristica denominata pena.
(Ibidem,
p. 93)
[…] il solo
carattere comune a tutti i delitti è che essi consistono –
salvo certe apparenti eccezioni che verranno esaminate più
avanti – di atti universalmente riprovati dai membri di ogni società.
Ci si chiede oggi se questa riprovazione sia razionale, e se non sarebbe
più saggiovedere nel delitto soltanto una malattia o un errore.
Ma non spetta a noi addentrarci in tali discussioni; noi cerchiamo
di determinare ciò che il reato è o è stato,
non ciò che deve essere. La realtà del fatto che abbiamo
appena stabilito è incontestabile: il reato urta cioè
sentimenti che si ritrovano in tutte le coscienze sane del medesimo
tipo sociale. […]
Non
possiamo […] fare un elenco dei sentimenti la cui violazione costituisce
l'atto delittuoso; essi non si distinguono dagli altri se non per
il fatto di essere comuni alla media degli invidi della stessa società.
(Ibidem,
pp. 96-97)
Tuttavia
non basta, per definire il reato, affermare che esso consiste in un’offesa
ai sentimenti collettivi: infatti alcuni di essi possono venire offesi
senza che per questo si possa parlare di reato. […]
I
sentimenti collettivi ai quali corrisponde il reato devono dunque
presentare proprietà distintive che le differenziano dagli
altri; cioè devono avere una certa intensità media.
Non soltanto essi sono impressi in tutte le coscienze, ma vi sono
impressi fortemente. Non si tratta di velleità esitanti e superficiali,
ma di emozioni e di tendenze fortemente radicate in noi. Ciò
che lo prova è l’estrema lentezza con la quale evolve il diritto
penale: non soltanto esso si modifica più difficilmente dei
costumi, ma è la parte del diritto positivo più refrattaria
al mutamento. […]
La
fissità del diritto penale dimostra la forza di resistenza
dei sentimenti collettivi ai quali corrisponde. […]
Siamo
ora in grado di concludere.
L’insieme
delle credenze e dei sentimenti comuni alla media dei membri della
stessa società forma un sistema determinato che ha una vita
propria; possiamo chiamarlo coscienza collettiva o comune. Senza dubbio,
essa non ha per substrato un organo unico; essa è, per definizione,
diffusa in tutta l’estensione della società, ma non per questo
manca dei caratteri specifici che ne fanno una realtà distinta.
Infatti essa è indipendente dalle condizioni particolari nelle
quali gli individui si trovano; questi passano, e quella resta. Ed
è la medesima a Nord e a Sud, nelle grandi e nelle piccole
città, nelle diverse professioni; così pure essa non
muta ad ogni generazione, ma al contrario vincola le une alle altre
le generazioni successive. È dunque altra cosa dalle coscienze
particolari, per quanto non si realizzi che negli individui; è
il tipo psichico della società, dotato di proprietà,
di condizioni di esistenza e di un modo di sviluppo che gli sono propri,
così come lo sono i tipi individuali, benché in maniera
diversa. Essa ha quindi, a questo titolo, il diritto di essere designata
con un termine specifico. […]
Possiamo
dunque dire, riassumendo l’analisi che precede, che un atto è
criminale quando offende gli stati forti e definiti della coscienza
collettiva. […]
In
altri termini, non bisogna dire che un atto urta la coscienza comune
perché è criminale, ma che è criminale perché
urta la coscienza comune. Non lo biasimiamo perché è
un reato, ma è un reato perché lo biasimiamo.
(Ibidem,
pp. 99-103)
La
pena è dunque restata per noi ciò che era per i nostri
padri: essa è sempre un atto di vendetta, dal momento che è
espiazione. Quello che vendichiamo, quello che il criminale espia,
è l’oltraggio fatto alla morale. […]
Ma
da dove deriva questa reazione? Dall’individuo o dalla società?
Tutti
sanno che è la società a punire; ma potrebbe darsi che
non lo facesse a nome proprio. Ciò che rende indubitabile il
carattere sociale della pena è il fatto che - una volta pronunciata
- non può essere condonata che dal governo, in nome della società.
Se essa costituisse una soddisfazione accordata ai privati, costoro
avrebbero sempre la potestà di condonarla: non possiamo immaginare
un privilegio imposto e al quale il beneficiario non possa rinunciare.
Se la società dispone essa sola della repressione, ciò
significa che il reato la colpisce quando colpisce gli individui;
ed è l'attentato alla società che viene represso dalla
pena.
(Ibidem,
pp. 109-111)
La
pena consiste dunque essenzialmente in una reazione passionale, di
intensità graduale, che la società esercita mediante
un corpo costituito su quelli dei suoi membri che hanno violato certe
regole di condotta.
(Ibidem,
p. 116)
Vediamo
[…] quale specie di solidarietà il diritto penale simbolizza.
Tutti sanno che c’è una coesione sociale la cui causa risiede
in una certa conformità di tutte le coscienze particolari a
un tipo comune, la quale non è altro che il tipo psichico della
società. In tali condizioni, infatti, non soltanto tutti i
membri del gruppo sono attratti individualmente gli uni verso gli
altri perché si somigliano, ma sono anche riferiti alla condizione
dell'esistenza del tipo collettivo, vale a dire alla società
che formano mediante la loro riunione. Non soltanto i cittadini si
amano e si ricercano tra loro, piuttosto che ricercare la compagnia
di estranei, ma amano anche la patria. La vogliono, così come
vogliono se stessi, e ritengono che sia nel loro interesse che essa
duri e prosperi, perché senza di essa il funzionamento di tutta
una parte della loro vita psichica sarebbe reso difficile. Inversamente,
è nell'interesse della società che tutti presentino
queste fondamentali somiglianze che costituiscono la condizione della
sua coesione. Vi sono in noi due coscienze: l’una contiene soltanto
stati personali propri di ciascuno di noi e che ci caratterizzano,
mentre gli stati che l'altra comprende sono comuni alla società
intera. La prima non rappresenta che la nostra personalità
individuale e la costituisce; la seconda rappresenta il tipo collettivo
e di conseguenza la società, senza la quale non esisterebbe.
Quando la nostra condotta è determinata da un elemento di quest'ultima,
non agiamo in vista del nostro interesse personale, ma miriamo a fini
collettivi. Le due coscienze, per quanto distinte, sono reciprocamente
vincolate, poiché in fondo sono tutt'uno, dato che entrambe
hanno il medesimo ed unico substrato organico. Esse sono dunque solidali.
Da ciò risulta una solidarietà sui generis che,
nata da certe somiglianze, collega direttamente l'individuo alla società;
nel prossimo capitolo potremo meglio mostrare perché proponiamo
di chiamarla meccanica. Questa solidarietà non consiste soltanto
nell'attaccamento generale e indeterminato dell'individuo al gruppo,
ma rende anche armoniche le singole parti dei movimenti. Infatti,
dato che i corpi collettivi in movimento si trovano ad essere ovunque
i medesimi, essi producono anche dovunque gli stessi effetti. Ogni
volta che entrano in gioco, le volontà si muovono spontaneamente
e in perfetto accordo nel medesimo senso. Questa è la solidarietà
che il diritto repressivo esprime, per lo meno in ciò che ha
di vitale. Gli atti che esso proibisce e qualifica come reati sono
di due tipi: o manifestano direttamente una dissomiglianza troppo
violenta rispetto all'agente che li compie e al tipo collettivo, o
offendono l'organo della coscienza comune. In entrambi i casi la forza
colpita dal reato che lo reprime è sempre la stessa: essa è
il prodotto delle più essenziali uniformità sociali,
e ha per effetto il mantenimento della coesione sociale che risulta
da tali uniformità.
(Ibidem,
pp. 123-124)
La
pena non serve – o non serve che secondariamente – a correggere il
colpevole o a intimidire i suoi possibili imitatori; da questo duplice
punto di vista è giustamente dubbia, e in ogni caso mediocre.
La sua vera funzione è di mantenere intatta la coesione sociale,
conservando alla coscienza comune tutta la sua vitalità. Categoricamente
così negata, la coscienza comune perderebbe necessariamente
parte della sua energia se una reazione emozionale della comunità
non intervenisse per compensare tale perdita: il rilassamento della
solidarietà sociale sarebbe l’inevitabile risultato.
(Ibidem,
p. 126)
La
natura stessa della sanzione restitutiva è sufficiente per
mostrare che la solidarietà sociale alla quale corrisponde
questo diritto è di tutt' altra specie. Ciò che distingue
questa sanzione è il fatto che non comporta un'espiazione,
ma si riduce ad una semplice riparazione. Nessuna sofferenza proporzionale
al misfatto viene inflitta a colui che ha violato il diritto o che
lo misconosce: egli viene semplicemente condannato a sottomettersi
ad esso. Se il fatto è gia stato compiuto, il giudice ripristina
quello che avrebbe dovuto essere lo status quo: parla in termini
di diritto, non di pena. I danni-interessi non hanno carattere penale,
ma sono soltanto un mezzo che permette di ritornare al passato per
poi ripristinarlo - nei limiti del possibile - nella sua forma normale.
[…]
le regole a sanzione restitutiva o non fanno assolutamente parte della
coscienza collettiva o rappresentano stati deboli di essa. Il diritto
repressivo corrisponde al cuore, al centro della coscienza comune;
le regole puramente morali ne costituiscono una parte già meno
centrale; il diritto restitutivo, infine, ha origine in regioni del
tutto eccentriche per estendersi al di là di tale coscienza.
[…] Questo carattere è d'altronde reso manifesto dalla maniera
in cui il diritto restitutivo funziona. Mentre il diritto repressivo
tende a restare diffuso nella società, il diritto restitutivo
si crea degli organi sempre più specifici: tribunali consolari,
consigli di probiviri, ed ogni specie di tribunali amministrativi.
Perfino nella sua parte più generale - vale a dire nel diritto
civile - esso entra in esercizio soltanto mediante funzionari particolari:
magistrati, avvocati e così via - atti a tale compito in virtù
di una cultura del tutto specifica.
Ma
queste regole, pur essendo più o meno al di fuori della coscienza
collettiva, non per questo interessano soltanto i privati. Se così
fosse, il diritto restitutivo non avrebbe nulla in comune con la solidarietà
sociale, poiché i rapporti che regola vincolerebbero reciprocamente
gli individui senza collegarli alla società; si tratterebbe
di semplici avvenimenti della vita privata, simili per esempio alle
relazioni di amicizia. Ma la società è ben lungi dall'essere
assente da questo campo della vita giuridica. È ben vero che,
di solito, essa non interviene direttamente e spontaneamente: deve
venire sollecitata dagli interessati. Ma, anche se provocato, il suo
intervento è pur sempre l'ingranaggio essenziale del meccanismo,
poiché soltanto essa lo fa funzionare. La società legifera
mediante l'organo dei suoi rappresentanti. […]
Poiché
le regole a sanzione restituiva sono estranee alla coscienza comune,
i rapporti che esse determinano non concernono indistintamente tutti;
ciò significa che si stabiliscono immediatamente non tra l’individuo
e la società, ma tra certe parti ristrette e specifiche della
società che essi vincolano reciprocamente. Ma d’altra parte
la società, visto che non è assente, deve necessariamente
essere più o meno direttamente interessata alle sanzioni restitutive,
e risentirne i contraccolpi.
(Ibidem,
pp. 129-132)
Non
meno accentuati sono i rapporti della divisione del lavoro , con il
diritto contrattuale.
Il
contratto è infatti l'espressione giuridica per eccellenza
della cooperazione. Vi sono - è vero - i contratti di beneficenza
in cui soltanto una delle parti è vincolata. Se do ad un altro
qualcosa senza condizioni, se mi incarico gratuitamente di un deposito
o di un mandato, ne risultano per me obbligazioni ben precise e determinate;
eppure non si può parlare di concorso nel vero senso della
parola, poiché è impegnata soltanto una delle parti.
Tuttavia, la cooperazione non è assente dal fenomeno: soltanto,
essa è gratuita o unilaterale. Che cos'è infatti, per
esempio, la donazione, se non uno scambio senza obbligazioni reciproche?
I contratti di questo tipo non sono dunque altro che variazioni dei
contratti veramente cooperativi. […]
Ma
tale reciprocità non è possibile se non dove c’è
cooperazione, e la cooperazione a sua volta è inscindibile
dalla divisione del lavoro. Cooperare significa infatti condividere
un compito comune. Se quest’ultimo è suddiviso in compiti qualitativamente
affini, per quanto reciprocamente indispensabili, si può parlare
di divisione del lavoro semplice o di primo grado. Se la loro natura
è differente, siamo di fronte ad una divisione del lavoro composta,
cioè alla specializzazione nel vero senso della parola.
Quest’ultima
forma di cooperazione è d’altronde quella che generalmente
il contratto esprime.
(Ibidem,
pp. 139-140)
Riassumendo,
i rapporti regolati dal diritto cooperativo a sanzione restitutiva
e la solidarietà che essi esprimono risultano dalla divisione
del lavoro sociale […]
riconosceremo soltanto due tipi di solidarietà positiva, distinti
in base ai seguenti caratteri.
La
prima vincola direttamente l'individuo alla società senza intermediari;
nella seconda, invece, l'individuo dipende dalla società perché
dipende dalle parti che la compongono.
2)
La società non è considerata nei due casi dal medesimo
punto di vista. Nel primo caso, ciò che è indicato da
questo nome è un insieme più o meno organizzato di credenze
e di sentimenti comuni a tutti i membri del gruppo : si tratta cioè
del tipo collettivo.
Invece,
la società con la quale siamo solidali nel secondo caso è
un sistema di funzioni differenti e specifiche, unite da rapporti
definiti. Queste due società d'altra parte fanno tutt'uno:
sono le due facce della stessa ed unica realtà, che però
esigono di essere distinte.
3)
Dalla seconda differenza ne deriva un'altra, che ci servirà
per caratterizzare e denominare i due tipi di solidarietà.
La
prima forma non può essere forte che nella misura in cui le
idee e le tendenze comuni a tutti i membri della società oltrepassano
in numero e in intensità le idee e le tendenze che appartengono
personalmente a ciascuno di essi. Quanto più considerevole
è tale eccedenza, tanto più energica è la solidarietà.
Ma l'elemento costitutivo della nostra personalità è
ciò che ciascuno di noi ha di proprio e di caratteristico -
ciò che lo distingue dagli altri. Questa solidarietà
può dunque aumentare soltanto in ragione inversa alla personalità.
In ognuna delle nostre coscienze vi sono - abbiamo detto - due coscienze:
l'una, comune a noi e a tutto il gruppo al quale apparteniamo, non
si identifica quindi con noi stessi, ma è la società
in quanto vive ed agisce in noi; l'altra non rappresenta invece che
noi in ciò che abbiamo di personale e di distinto, in ciò
che fa di noi un individuo. La solidarietà che deriva dalle
somiglianze è al suo maximum quando la coscienza collettiva
ricopre esattamente la nostra coscienza totale, e coincide punto per
punto con essa: ma in quel momento la nostra individualità
è scomparsa. Essa può nascere soltanto se la comunità
lascia in noi un certo margine. Siamo qui in presenza di due forze
contrarie - l'una centripeta e l'altra centrifuga - che non possono
aumentare contemporaneamente: non possiamo svilupparci nello stesso
tempo in due direzioni così opposte. Se abbiamo una viva inclinazione
per il pensiero e l'azione personale, non possiamo essere fortemente
inclini a pensare e ad agire come gli altri. Se il nostro ideale è
di farci una fisionomia che sia soltanto nostra, non possiamo desiderare
di assomigliare a tutti. Inoltre, nel momento in cui la solidarietà
esercita la sua azione, la nostra personalità scompare, per
così dire, per definizione; infatti non siamo più noi
stessi, ma l’essere collettivo.
Le
molecole sociali non sarebbero coerenti che in questo modo, e non
potrebbero agire in perfetto accordo che nella misura in cui fossero
prive di movimenti propri - come accade per le molecole dei corpi
inorganici. Perciò proponiamo di chiamare meccanica la solidarietà
di questa specie. […]
La coscienza
individuale, considerata da questo punto di vista, non è che
un semplice annesso del tipo collettivo, del quale essa segue tutti
i movimenti, come l'oggetto posseduto segue i movimenti che il proprietario
gli imprime. Nelle società in cui questa solidarietà
è molto sviluppata, l'individuo non appartiene a se stesso
[…]; esso è letteralmente una cosa di cui la società
dispone. […]
Completamente
diverso è il caso della solidarietà prodotta dalla divisione
del lavoro. Mentre la precedente implica una somiglianza tra gli individui,
questa presuppone la loro differenza. La prima è possibile
soltanto nella misura in cui la personalità individuale è
assorbita dalla personalità collettiva; la seconda è
possibile soltanto se ognuno ha un proprio campo di azione, e di conseguenza
una personalità. La coscienza collettiva deve quindi lasciare
scoperta una parte della coscienza individuale, affinché in
essa si stabiliscano le funzioni specifiche che essa non può
regolare; e più questa regione è estesa, più
forte è la coesione che risulta da tale solidarietà.
Infatti, da un lato, quanto più diviso è il lavoro,
tanto più strettamente l'individuo dipende dalla società,
e dall'altro, quanto più specializzata è l'attività
dell'individuo, tanto più essa è personale. […]
Questa solidarietà
assomiglia a quella che osserviamo negli animali superiori. Ogni loro
organo ha infatti la sua fisionomia specifica e la sua autonomia;
tuttavia l’unità dell’organismo è tanto maggiore quanto
più accentuata è l’individuazione delle parti. A causa
di questa analogia proponiamo di chiamare organica la solidarietà
dovuta alla divisione del lavoro. […]
Se i due
tipi di solidarietà che abbiamo appena distinto hanno l’espressione
giuridica alla quale abbiamo accennato, la preponderanza del diritto
repressivo sul diritto cooperativo deve essere maggiore quando il
tipo collettivo è più pronunciato e la divisione del
lavoro è più rudimentale; inversamente, a misura che
i tipi individuali si sviluppano e che i compiti vengono a specializzarsi,
la proporzione tra l’estensione dei due diritti deve tendere a invertirsi.
(Ibidem,
pp. 142-147)
La
vera ragione dello sviluppo delle regole repressive è quindi
il fatto che in quel momento dell’evoluzione la coscienza collettiva
era estesa e forte, mentre il lavoro non era ancora diviso.
(Ibidem, p. 159) |