Religione e società

Per scoprire in che cosa consiste questo oggetto occorre quindi far subire ad esse un'elaborazione analoga a quella che ha sostituito alla rappresentazione sensibile del mondo una rappresentazione scientifica e concettuale.
Questo è precisamente ciò che abbiamo tentato di fare: abbiamo così visto che questa realtà, che le mitologie si sono rappresentate in tante forme diverse, ma che è la causa oggettiva, universale e eterna delle sensazioni sui generis di cui è fatta l'esperienza religiosa, è la società. […]
Così si spiega il posto preponderante del culto nelle religioni di qualsiasi specie. Infatti la società può far sentire la sua influenza soltanto se costituisce un atto, ed essa costituisce un atto soltanto se gli individui che la compongono si trovano riuniti ed agiscono in comune. Attraverso l'azione comune essa prende coscienza di sé e si determina; essa è anzitutto una cooperazione attiva. Anche le idee e i sentimenti collettivi sono possibili soltanto in virtù di movimenti esteriori che li simboleggiano - così come si è già stabilito. L'azione domina dunque la vita religiosa per il solo fatto che la società ne è l'origine.
A tutti i motivi addotti per giustificare questa concezione ne può essere aggiunto un altro che emerge da quest'opera intera. Abbiamo stabilito nel corso dell'analisi che le categorie fondamentali del pensiero, e di conseguenza la scienza, hanno origini religiose; ed abbiamo visto che lo stesso vale per la magia e quindi per le diverse tecniche che ne sono derivate. D'altra parte è noto da molto tempo che, fino a un momento relativamente avanzato dell'evoluzione, le regole della morale e del diritto non si distinguevano dalle prescrizioni rituali. Si può quindi dire, riassumendo, che quasi tutte le grandi istituzioni sociali sono sorte dalla religione
. E perché gli aspetti principali della vita collettiva abbiano cominciato come aspetti particolari della vita religiosa, evidentemente occorre che la vita religiosa fosse la forma eminente, e quasi un’espressione abbreviata di tutta la vita collettiva. Se la religione
ha generato tutto ciò che c’è di essenziale nella società, è perché l’idea della società è l’anima della religione
. Le forze religiose sono quindi forze umane, forze morali.
(É. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, op. cit, pp. 458-459)

Anziché essere dovuto a qualche potere innato dell'individuo, l'ideale collettivo espresso dalla religione
è stato piuttosto idealizzato dall'individuo in base alle esigenze della vita collettiva. Assimilando gli ideali elaborati dalla società egli è diventato capace di concepire l'ideale: la società, trascinandolo nella sua sfera d'azione, ha fatto sorgere in lui il bisogno di elevarsi al di sopra del mondo dell'esperienza, e in pari tempo gli ha fornito i mezzi di concepirne un altro. Essa ha infatti costruito questo mondo nuovo costruendo se stessa, poiché essa ne costituisce l'oggetto. Perciò, sia nell'individuo che nel gruppo la facoltà di idealizzare non ha nulla di misterioso. Essa non è una specie di lusso di cui l'uomo potrebbe fare a meno, ma è una condizione della sua esistenza. L'uomo non sarebbe un essere sociale, cioè non sarebbe un uomo, se non l'avesse acquisita.(Ibidem, p. 463)
L'esistenza di culti individuali non implica dunque nulla, che contraddica o che dia fastidio ad una spiegazione sociologica della religione
; perché le forze religiose a cui essi si rivolgono non sono che forme individualizzate delle forze collettive. Perciò, per quanto la religione sembri appartenere interamente al foro interiore dell’individuo, la fonte viva alla quale essa si alimenta risiede ancora nella società. Noi possiamo valutare adesso quanto valga quell'individualismo radicale che vorrebbe fare della religione una cosa puramente individuale: esso disconosce le condizioni fondamentali della vita religiosa. Se è rimasto finora allo stadio di aspirazioni teoriche mai realizzate, è perché esso è irrealizzabile. Nel silenzio della meditazione interiore si può elaborare una filosofia, non già una fede. Infatti una fede è anzitutto calore, vita, entusiasmo, esaltazione di tutta l'attività mentale, trasporto dell'individuo al di sopra di se stesso. E come egli potrebbe, senza uscire da sé, aumentare le energie che possiede? Come potrebbe oltrepassarsi con le sue sole forze? La sola fonte di calore a cui possiamo riscaldarci moralmente è quella che forma la società dei nostri simili; le sole forze morali con cui possiamo sorreggere ed accrescere le nostre sono quelle che ci provengono dagli altri.
(Ibidem, p. 465)
Nella religione c'è quindi qualcosa di eterno, destinato a sopravvivere a tutti i simboli particolari di cui il pensiero religioso si è successivamente circondato. Non può esserci società che non senta il bisogno di conservare e rinsaldare, a intervalli regolari, i sentimenti collettivi e le idee collettive che costituiscono la sua unità e la sua personalità. Ma questo rinnovamento morale può essere ottenuto soltanto per mezzo di riunioni, di assemblee, di congregazioni, in cui gli individui strettamente riuniti tra loro riaffermino in comune i loro comuni sentimenti; da ciò derivano cerimonie che - per il loro oggetto, per i risultati che producono, per i procedimenti impiegati - non differiscono in natura dalle cerimonie propriamente religiose. Quale differenza essenziale c'è tra un'assemblea di Cristiani che celebrano le principali date della vita di Cristo, o di Ebrei che festeggiano l'uscita dall'Egitto o la promulgazione del decalogo, e una riunione di cittadini che commemora l'istituzione di una nuova carta morale o qualche grande avvenimento della vita nazionale?
Se oggi troviamo qualche ostacolo a rappresentarci in che cosa potranno consistere queste feste e queste cerimonie dell'avvenire, è perché attraversiamo una fase di transizione e di mediocrità morale. Le grandi cose del passato, quelle che entusiasmavano i nostri padri, non risvegliano più in noi lo stesso ardore, sia perché sono entrate nell'uso comune al punto che non ne siamo più coscienti, sia perché non rispondono più alle nostre attuali aspirazioni; e tuttavia non si è prodotto ancora nulla che le sostituisca. Non possiamo più appassionarci per i principi in nome dei quali il Cristianesimo raccomandava ai padroni di trattare umanamente gli schiavi; e d'altra parte l'idea che esso propone dell'eguaglianza e della fratellanza umana ci sembra lasciare troppo spazio a ingiuste diseguaglianze. La sua pietà per gli uomini ci sembra troppo platonica: ne vorremmo un'altra più efficace; ma non vediamo ancora chiaramente ciò che essa deve essere, ne come potrà realizzarsi di fatto. In una parola, gli antichi dèi invecchiano o muoiono, ma non ne sono ancora nati altri. Ciò ha reso vano il tentativo di Comte di organizzare una religione in base a vecchi ricordi storici, artificialmente risvegliati: un culto vivo può scaturire soltanto dalla vita stessa, e non già da un passato morto. Ma questo stato di incertezza e di agitazione confusa non potrà durare eternamente. Verrà un giorno in cui le nostre società conosceranno ancora momenti di effervescenza creativa da cui sorgeranno nuovi ideali, da cui scaturiranno nuove formule che serviranno per un certo tempo di guida all'umanità; e una volta vissute queste ore, gli uomini proveranno spontaneamente il bisogno di riviverle ogni tanto nel pensiero, cioè di conservarne il ricordo per mezzo di feste che ne ravvivino regolarmente i frutti. Abbiamo veduto come la Rivoluzione abbia istituito un intero ciclo di feste per mantenere in uno stato di perpetua giovinezza i principi a cui essa si ispirava. Se l'istituzione decadde presto, ciò avvenne perché la fede rivoluzionaria durò poco, perché le delusioni o lo scoraggiamento succedettero rapidamente al primo momento di entusiasmo. Ma benché l'opera sia fallita, essa ci permette di rappresentarci ciò che avrebbe potuto essere in altre condizioni; e tutto lascia pensare che essa verrà presto o tardi ripresa. Non vi sono Vangeli immortali, e non c'è ragione di credere che l'umanità sia ormai incapace di concepirne di nuovi. Come saranno i simboli in cui si esprimerà la nuova fede, se essi assomiglieranno o meno a quelli del passato, se saranno più adeguati alla realtà che dovranno tradurre, è un problema che supera le facoltà umane di precisione, e che d'altronde non concerne la sostanza delle cose.
Ma le feste, i riti, in una parola il culto, non costituiscono tutta la religione. Questa non è soltanto un sistema di pratiche; è anche un sistema di idee che ha lo scopo di esprimere il mondo […].
[…] abbiamo constatato che le realtà a cui si applica la speculazione religiosa sono le stesse che saranno più tardi oggetto della riflessione degli scienziati: la natura, l'uomo e la società. Il mistero che sembra avvolgerle è del tutto superficiale, e si dissolve ad un'osservazione più profonda: basta allontanare il velo di cui l'immaginazione mitologica le ha ricoperte perché esse appaiano quali sono. La religione si sforza di tradurre queste realtà in un linguaggio intelligibile che non differisce per natura da quello usato dalla scienza; dall'una come dall'altra parte si tratta di collegare le cose le une alle altre, di stabilire tra loro relazioni interne, di classificarle e di sistematizzarle. Abbiamo anzi visto che le nozioni essenziali della logica scientifica sono di origine religiosa. Senza dubbio, per poterle utilizzare la scienza le sottopone a una nuova elaborazione; le libera da ogni specie di elemento estraneo; in generale introduce in tutti i suoi passi uno spirito critico che la religione ignora; si circonda di precauzioni per “evitare la precipitazione e la prevenzione”, per tenere lontane le passioni, i pregiudizi e tutte le influenze soggettive. Ma questi perfezionamenti metodologici non bastano a differenziarla dalla religione. Da questo punto di vista l'una e l'altra perseguono lo stesso scopo; il pensiero scientifico non è che una forma più perfetta del pensiero religioso. Sembra dunque naturale che questo scompaia progressivamente davanti al primo, nella misura in cui esso diventa più adatto ad assolvere il suo compito.
Ed è fuori di dubbio, infatti, che questo regresso si sia prodotto nel corso della storia. Nata dalla religione, la scienza tende a sostituirsi ad essa per tutto quanto concerne le funzioni conoscitive e intellettuali. […]
Ma il mondo della vita religiosa e morale resta ancora precluso. La grande maggioranza degli uomini continua a credere che esso rappresenta un ordine di cose in cui lo spirito può penetrare soltanto attraverso vie molto particolari. Da ciò derivano le vive resistenze che si incontrano ogni volta che si cerca di considerare scientificamente i fenomeni religiosi e morali. Ad onta delle opposizioni, questi tentativi si ripetono e questa stessa persistenza permette di prevedere che quest'ultima barriera finirà per cedere e che la scienza si stabilirà da signora anche in questa zona riservata.
Ecco in che cosa consiste il conflitto tra la scienza e la religione. Spesso se ne ha un'idea inesatta, e si dice che la scienza nega la religione in linea di principio. Ma la religione esiste; è un sistema di fatti dati; in una parola, è una realtà. Come la scienza potrebbe negare la realtà? Inoltre, in quanto la religione è azione, in quanto è un mezzo di far vivere gli uomini, la scienza non potrebbe prenderne il posto perché, se essa esprime la vita, però non la crea; essa può ben cercare di spiegare la fede, ma per questo stesso motivo la presuppone. Non c'è dunque conflitto che in un punto limitato. Delle due funzioni a cui la religione adempiva in origine ce n'è una, ma una sola, che tende sempre più a sfuggirle: è la funzione speculativa. Ciò che la scienza contesta alla religione non è il diritto di essere, ma è il diritto di dogmatizzare sulla natura delle cose, è la specie di competenza particolare che essa si attribuiva per conoscere l'uomo e il mondo. […]
Tuttavia essa sembra destinata a trasformarsi piuttosto che a scomparire.
(Ibidem, pp. 467-470)
Riassumendo, la società non è affatto l'essere illogico o alogico, incoerente e fantastico, come ci si compiace troppo spesso di considerarla. Al contrario, la coscienza collettiva è la forma più alta della vita psichica, poiché è una coscienza di coscienze. Collocata al di fuori e al di sopra delle contingenze individuali e locali, essa considera le cose nel loro aspetto permanente e essenziale e lo fissa in nozioni comunicabili. Vedendo dall'alto, essa vede lontano; ad ogni istante di tempo essa abbraccia tutta la realtà conosciuta; perciò essa sola può fornire allo spirito schemi che si applichino alla totalità degli esseri e permettano di pensarli. […]
Perciò, anziché esserci tra la scienza da un lato e la morale e la religione dall'altro quella specie di antinomia che si è tanto spesso ammessa, questi diversi modi dell'attività umana derivano in realtà da un'unica fonte. Ciò era stato ben compreso da Kant, il quale aveva perciò determinato la ragione speculativa e la ragione pratica come due aspetti differenti della medesima facoltà. Ciò che, secondo lui, costituisce la loro unità, è il fatto che esse sono entrambe orientate verso l'universale. Pensare razionalmente vuol dire pensare secondo leggi che si impongono all'universalità degli esseri ragionevoli; agire moralmente vuol dire condursi secondo massime che possono essere estese senza contraddizioni a tutte le volontà. In altri termini, la scienza e la morale implicano che l'individuo è capace di elevarsi al di sopra del proprio punto di vista e di vivere una vita impersonale. Non c'è dubbio, infatti, che questo è un carattere comune a tutte le forme superiori del pensiero e dell'azione.
(Ibidem, pp. 484-485)