[…] possiamo dire che ogni fatto morale consiste in una regola di condotta implicante una sanzione. Questa
definizione non differisce d'altra parte da quella generalmente ammessa:
ne è soltanto una traduzione più precisa e più
scientifica. Siamo d'accordo, infatti, nel dire che ciò che
distingue le regole morali è la loro obbligatorietà:
ma come possiamo riconoscere la presenza di questo carattere? Interrogando
forse la nostra coscienza e constatando, grazie ad una intuizione
diretta, che effettivamente sentiamo questo obbligo? Ma noi sappiamo
che le coscienze non si assomigliano neppure in seno alla stessa società.
Alcune sono più delicate, altre più rozze, altre sono
perfino affette da una specie di inversione del senso morale. A quale
ci converrà rivolgerci? A quella dell'uomo colto, del lavoratore
dei campi, del delinquente? Evidentemente intendiamo parlare soltanto
della coscienza normale, di quella che nelle società è
la più generale. Dato che però è impossibile
vedere direttamente ciò che in essa accade, per sapere in quale
modo le regole della condotta vi sono rappresentate, dobbiamo riferirci
a qualche fatto esterno che rifletta questo stato interno; e nulla
può servire a questo scopo meglio della sanzione. È
impossibile infatti che i membri di una società riconoscano
una regola di condotta come obbligatoria, senza agire contro ogni
atto che la viola; questa reazione è talmente necessaria che
ogni coscienza sana la prova idealmente al solo pensiero di tale atto.
Se dunque definiamo la regola morale mediante la sanzione ad essa
collegata, ciò non vuol dire che consideriamo il sentimento
di obbligazione come un prodotto della sanzione. Al contrario, quest’ultima
può servire a simbolizzarlo perché deriva da esso; e
dato che questo simbolo ha il grande vantaggio di essere oggettivo,
accessibile all'osservazione e perfino alla misura, è un buon
metodo preferirlo alla cosa che esso rappresenta.
(É.
Durkheim, La divisione del lavoro sociale, Edizioni di Comunità,
Milano, 1962, pp. 57-58; opera originalmente pubblicata nel 1893)
Quali sono i caratteri distintivi del fatto morale?[…] le regole morali sono investite di un’autorità specifica, in virtù della quale vengono obbedite perché comandano. […] L’obbligazione
morale costituisce dunque uno dei primi caratteri della regola morale.
[…]
L’obbligazione
o il dovere esprimono […] soltanto uno degli aspetti - e un aspetto
astratto – di ciò che è morale. Una certa desiderabilità
è un altro carattere, non meno essenziale del primo. […]
L’essere
sacro è in un certo senso l’essere vietato, che non si osa
violare, ma è anche l’essere buono, amato, ricercato.
(É.
Durkheim, Sociologia e filosofia, op. cit, pp. 165-166)
Dal momento che le sanzioni non risultano analiticamente dall’atto al quale sono collegate, ciò significa probabilmente che non vengo punito o biasimato perché ho compiuto questo o quell'atto: quella che dà origine alla sanzione non è la natura intrinseca del mio atto. La sanzione non deriva dal fatto che si tratta di questo o quell'atto, bensì dal fatto che l’atto non è conforme alla regola che lo prescrive. Ed infatti il medesimo atto, compiuto con gli stessi movimenti e avente gli stessi risultati materiali, sarà biasimato o meno a seconda che esista o meno una regola che lo proibisce. Perciò l’esistenza di questa regola ed il rapporto in cui l'atto sta con essa determinano la sanzione: l’omicidio, bollato d'infamia in tempi normali, non lo è più in tempo di guerra, perché allora nessun precetto lo vieta. Un atto oggi biasimato presso un popolo europeo, pur essendo intrinsecamente lo stesso, non era biasimato in Grecia, perché in Grecia non violava nessuna regola prestabilita. Siamo così giunti ad
una nozione più profonda della sanzione: la sanzione è
una conseguenza dell'atto che non risulta dal contenuto dell'atto,
bensì dal fatto che l'atto non è conforme ad una regola
prestabilita. Proprio perché c'è già una regola,
stabilita anteriormente, l’atto - essendo un atto di ribellione
contro tale regola -provoca una sanzione. Fin
qui abbiamo seguito assai fedelmente Kant. Ma se la sua analisi dell'atto
morale è parzialmente esatta, essa è però insufficiente
e incompleta, poiché ci mostra soltanto un aspetto della realtà
morale.
Non
possiamo infatti compiere un atto che non ci dice nulla, unicamente
perché ci è stato comandato. Perseguire uno scopo che
ci lascia indifferenti, che non ci sembra buono, che non concerne
la nostra sensibilità, è cosa psicologicamente impossibile.
Occorre perciò che, a parte il suo carattere vincolante, lo
scopo morale sia desiderato e desiderabile: questa desiderabilità
è il secondo carattere di ogni atto morale.
La
desiderabilità propria della vita morale partecipa però
del carattere precedente, cioè del carattere di obbligazione;
essa non assomiglia alla desiderabilità degli oggetti verso
i quali si orientano i nostri desideri ordinari. Noi desideriamo l'atto
comandato dalla regola in un modo particolare: il nostro slancio e
la nostra aspirazione ad esso sono sempre accompagnati da una certa
pena, da uno sforzo. Anche quando compiamo l'atto morale con ardore
entusiastico, sentiamo che usciamo da noi stessi, che ci dominiamo,
che ci eleviamo al di sopra del nostro essere naturale - e ciò
è sempre accompagnato da una certa tensione, da una certa costrizione
esercitata su se stessi.
(Ibidem,
pp. 172-174)
La
morale comincia dunque dove comincia la vita in gruppo, perché
soltanto nel gruppo la dedizione e il disinteresse hanno senso. Parlo
della vita in gruppo in generale: ci sono indubbiamente gruppi differenti
- famiglia, corporazione, polis, patria, aggruppamenti internazionali;
tra questi gruppi si potrebbe stabilire una gerarchia e si troverebbero
allora gradi corrispondenti nelle diverse forme dell'attività
morale, a seconda che essa abbia come oggetto una società più
angusta o più vasta, più elementare o più complessa,
più particolare o più comprensiva. Ma è inutile
entrare in queste questioni; basta segnalare a quale punto sembra
iniziare il dominio della vita morale, senza introdurvi per il momento
una differenziazione. Esso ha inizio da quando esiste l’attaccamento
a un gruppo, per quanto ristretto.
(Ibidem, pp. 180-181) |