Il metodo sociologico

Il primo passo del sociologo deve quindi essere la definizione delle cose che tratta, per sapere – e per sapere bene – di che cosa deve occuparsi. Questa è la prima e la più indispensabile condizione di ogni prova e di ogni verificazione: una teoria può infatti venir controllata soltanto se si sanno riconoscere i fatti di cui deve rendere conto. […]Da ciò deriva la regola seguente: assumere sempre come oggetto di ricerca soltanto un gruppo di fenomeni precedentemente definiti mediante certi caratteri esterni ad essi comuni, e comprendere nella stessa ricerca tutti quelli che rispondono a questa definizione. […] Procedendo in questa maniera, il sociologo mette piede, fin dal primo passo, nella realtà. Il modo in cui i fatti vengono classificati non dipende da lui, dalla configurazione particolare del suo spirito, bensì dalla natura delle cose. Il segno che li ha fatti mettere in questa o in quella categoria può venir indicato a tutti e riconosciuto da tutti, e le affermazioni di un osservatore possono venire controllate dagli altri. È vero che la nozione così costruita non quadra sempre – ed anzi generalmente non quadra affatto - con la nozione comune. Per esempio, è evidente che per il senso comune le manifestazioni di libero pensiero o le mancanze commesse contro l'etichetta, così regolarmente e severamente punite in molteplici società, non sono considerate reati neppure in rapporto a tali società; e analogamente un clan non è una famiglia nell'accezione usuale del termine. Ma poco importa: infatti non si tratta semplicemente di scoprire un mezzo che ci consenta di ritrovare in modo abbastanza sicuro i fatti ai quali si applicano i termini del linguaggio corrente e le idee che essi traducono. Occorre costruire in modo compiuto concetti nuovi, appropriati ai bisogni della scienza ed espressi mediante una terminologia specifica. (É. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, op. cit., pp. 49-51)

La vita sociale è quindi costituita da libere correnti che sono perpetuamente in via di trasformazione, e che lo sguardo dell’osservatore non riesce a fissare. Perciò non è da questo lato che lo studioso può affrontare l’esame della realtà sociale. Noi sappiamo che essa è suscettibile di cristallizzarsi, senza cessare di essere se stessa: al di fuori degli atti individuali che suscitano, le abitudini collettive si esprimono in forme definite, in regole giuridiche e morali, in detti popolari, in fatti di struttura sociale, ecc. Esistendo in modo permanente e non mutando con le diverse applicazioni che ne vengono fatte, queste forme costituiscono un oggetto fisso, un campione costante che è sempre a portata dell'osservatore e che non lascia alcun margine alle impressioni soggettive o alla osservazioni personali: una regola del diritto è ciò che è, non vi sono due maniere di percepirla. Dato che d’altra parte queste pratiche non sono altro che la vita sociale consolidata, è legittimo - salvo indicazioni in contrario – studiare questa attraverso quelle.

Perciò, quando il sociologo si accinge ad esplorare un qualsiasi ordine di fatti sociali, egli deve sforzarsi di considerarli dal lato in cui si presentano isolati dalle loro manifestazioni individuali. In base a questo principio abbiamo studiato la solidarietà sociale, le sue diverse forme e la loro evoluzione attraverso il sistema delle regole giuridiche che le esprimono. Analogamente, cercando di distinguere e di classificare i differenti tipi familiari in base alle descrizioni letterarie dei viaggiatori, e talvolta degli storici, ci si espone al rischio di confondere le specie più diverse e di accostare i tipi più lontani; prendendo invece come base della classificazione la costituzione giuridica della famiglia, e in particolare il diritto successorio, si avrà un criterio oggettivo che - senza essere infallibile - preverrà molti errori. Se si vuole classificare i differenti tipi di reato, ci si sforzerà di ricostruire i modi di vivere e le usanze professionali in uso nei differenti domini del reato, e si giungerà a riconoscere tanti tipi criminologici quante sono le forme differenti che presenta questa organizzazione; oppure, per attingere i costumi e le credenze popolari ci si rivolgerà ai proverbi e ai detti che le esprimono.
(Ibidem, pp. 56-57)
Riassumendo, i caratteri di questo metodo risultano i seguenti. In primo luogo, esso è indipendente da ogni filosofia: Essendo nata dalle grandi dottrine filosofiche, la sociologia ha conservato l’abitudine di appoggiarsi a qualche sistema, al quale si trova così connessa: per questo motivo essa è stata successivamente positivistica, evoluzionistica, spiritualistica, mentre deve accontentarsi di essere semplicemente la sociologia. […]
Non spetta alla sociologia prender partito tra le grandi ipotesi che dividono i metafisici; non è suo compito affermare né la libertà né il determinismo. Essa richiede soltanto che le venga accordato che il principio di causalità si applica ai fenomeni sociali […].
Ma se la natura del vincolo causale escluda completamente la contingenza non è con ciò una questione risolta. […]
(Ibidem, p. 129)
In secondo luogo, il nostro metodo è oggettivo. Esso è interamente dominato dall’idea che i fatti sociali sono cose e devono essere trattati come tali. […]
Ma se consideriamo i fatti sociali come cose, esse sono pur sempre per noi cose sociali. Il terzo tratto caratteristico del nostro metodo consiste appunto nel fatto di essere esclusivamente sociologico. Spesso è sembrato che i fenomeni sociologici, a causa della loro estrema complessità, fossero refrattari alla scienza oppure che potessero entrarvi soltanto se ridotti alle loro condizioni elementari, psichiche o organiche, cioè se spogliati della loro natura. Al contrario, noi ci siamo proposti di stabilire che è possibile trattarli scientificamente senza privarli di nessuno dei loro caratteri specifici. Anzi, ci siamo anche rifiutati di ricondurre l’immaterialità sui generis che li caratterizza a quella – che pure è già complessa – dei fenomeni psicologici […]. Abbiamo mostrato che un fatto sociale può venir spiegato soltanto da un altro fatto sociale; e contemporaneamente abbiamo mostrato come questo tipo di spiegazione sia possibile, segnalando nell’ambiente sociale interno il motore principale dell’evoluzione collettiva.
(Ibidem, pp. 131-132)
Non bisogna quindi - come fa Spencer -presentare la vita sociale come una semplice risultante delle nature individuali, poiché, al contrario, sono piuttosto queste che derivano da quella. I fatti sociali non sono il semplice sviluppo dei fatti psichici; ma i secondi non sono in gran parte che il prolungamento dei primi all'interno delle coscienza. Questa proposizione è importantissima, poiché il punto di vista contrario espone continuamente il sociologo al pericolo di scambiare le cause per gli effetti e viceversa. Per esempio se, come è sovente accaduto, si vede nell'organizzazione della famiglia l'espressione logicamente necessaria di sentimenti umani inerenti ad ogni coscienza, si inverte l'ordine reale dei fatti; al contrario, è proprio l'organizzazione sociale dei rapporti di parentela che ha determinato i sentimenti rispettivi dei genitori e dei figli. Essi sarebbero stati completamente diversi se la struttura sociale fosse stata differente; prova ne sia il fatto che l'amore paterno è ignoto in molte società. Potremmo citare parecchi altri esempi dello stesso errore. È indubbiamente una verità evidente che non c'è nulla nella vita sociale che non sia anche nelle coscienze individuali; però, quasi tutto quello che si trova in queste ultime proviene dalla società. La maggior parte dei nostri stati di coscienza non si sarebbero prodotti in esseri isolati, e si sarebbero prodotti in modo completamente diverso in esseri aggruppati in un'altra maniera. Essi derivano quindi non già dalla natura psicologica dell'uomo in generale, ma dal modo in cui gli uomini una volta associati agiscono gli uni sugli altri, a seconda che siano più o meno numerosi e più o meno vicini. Prodotti della vita in gruppo, soltanto la natura del gruppo può spiegarli. Beninteso, essi non sarebbero possibili se le costituzioni individuali non fossero atte a riceverli: ma queste ne sono soltanto le condizione remota, e non le cause determinanti. […]
La società non trova già fatte nelle coscienze le basi sulle quali riposa: se le fa da sola.

(Ibidem, pp. 342-343)