La divisione del lavoro (che è anche sociale) e la sua funzione

Benché la divisione del lavoro non sia un fenomeno recente, soltanto alla fine del secolo scorso le società hanno cominciato a prendere coscienza di questa legge che fino a quel momento avevano subito quasi a loro insaputa. Senza dubbio, fin dall’antichità numerosi pensatori si sono accorti della sua importanza; ma il primo che ha cercato di costruirne la teoria è Adam Smith. […]
La divisione del lavoro è oggi un fenomeno generalizzato a un punto tale da colpire gli occhi di tutti. […]
Ma la divisione del lavoro non è un fenomeno specifico del mondo economico; possiamo osservare la sua crescente influenza nelle regioni più diverse della società. Le funzioni politiche, amministrative, giudiziarie si specializzano sempre più, e lo stesso si può dire delle funzioni artistiche e scientifiche. Siamo lontani dal tempo in cui la filosofia costituiva l’unica scienza: essa si è distinta in una molteplicità di discipline speciali, ciascuna delle quali ha il suo oggetto, il suo metodo, il suo spirito. […]
Un fatto di questo genere non può evidentemente prodursi senza incidere profondamente sulla nostra costituzione morale, poiché lo sviluppo dell'uomo si compirà in direzione completamente differente a seconda che ci abbandoneremo a questo movimento o ci opporremo ad esso. […]
Indubbiamente, sembra proprio che l'opinione tenda sempre più a fare della divisione del lavoro una regola imperativa di condotta e ad imporla come un dovere. Senza dubbio coloro che si sottraggono ad essa non sono puniti con una pena precisa, fissata dalla legge; ma vengono biasimati. È passato il tempo in cui ci pareva perfetto l'uomo che, sapendo interessarsi a tutto senza applicarsi esclusivamente a nulla, capace di tutto comprendere e di tutto gustare, trovava il modo di riunire e di condensare in sé ciò che vi era di più raffinato nella civiltà. Oggi questa cultura generale - tanto vantata un tempo - ci fa soltanto l'effetto di una disciplina molle e rilassata. Per lottare contro la natura abbiamo bisogno di facoltà più vigorose e di energie più produttive: vogliamo che l'attività, invece di disperdersi su un'ampia superficie, si concentri acquistando in intensità ciò che perde in estensione. Diffidiamo di quei troppo mobili talenti che si prestano egualmente a tutti gli impieghi, e rifiutano di scegliere un compito specifico e di attenervisi. Ci sentiamo lontani dagli uomini la cui unica preoccupazione e di organizzare e di raffinare tutte le loro facoltà, senza per altro farne un uso definito e senza sacrificarne nessuna, come se ognuno di essi dovesse essere autosufficiente e formare un mondo indipendente. Ci sembra che tale distacco e tale indeterminazione abbiano qualcosa di anti-sociale. Il gentiluomo di un tempo non è più per noi che un dilettante, e noi rifiutiamo al dilettantismo ogni valore morale; vediamo piuttosto la perfezione nell’uomo competente che cerca non già di essere completo ma di produrre, che ha un compito limitato e che si consacra ad esso, che compie il suo servizio e traccia il suo solco. […]
In breve, in uno dei suoi aspetti l'imperativo categorico della coscienza morale sta assumendo la forma seguente: mettiti in condizione di esercitare utilmente una determinata funzione.
Ma, a proposito di questi fatti, possiamo citarne altri che li contraddicono. Se l’opinione pubblica sanziona la regola della divisione del lavoro, non lo fa senza una certa inquietudine ed esitazione.
(É. Durkheim, La divisione del lavoro sociale, op. cit, pp.39-43)

A prima vista, nulla sembra più facile che determinare quale sia la funzione della divisione del lavoro. I suoi effetti non sono forse conosciuti da tutti? In quanto cresce sia la forza produttiva che l’abilità del lavoratore, essa è la condizione necessaria dello sviluppo intellettuale e materiale della società; è la fonte della civiltà.(Ibidem, pp. 73-74)

Da tutti questi esempi risulta che l'effetto più notevole della divisione del lavoro non è il fatto che essa aumenta il rendimento delle funzioni divise, ma che le rende solidali. […]
Individui che altrimenti sarebbero indipendenti sono vincolati reciprocamente: invece di svilupparsi separatamente, essi concertano i loro sforzi; sono solidali e la loro solidarietà non agisce soltanto nei corti istanti in cui vengono scambiati dei servizi, ma si estende ben al di là di essi. […]
D'altra parte, le società che la divisione del lavoro crea non possono non esserne improntate: dal momento che hanno questa specifica origine, esse non possono assomigliare alle società determinate dall'attrazione che sul simile esercita il simile - devono essere costituite in un'altra maniera, riposare su altre basi, fare appello ad altri sentimenti. […]
Siamo così indotti a domandarci se la divisione del lavoro non adempia la stessa funzione in gruppi più estesi, esse, nelle società contemporanee in cui essa ha avuto lo sviluppo che sappiamo, essa non abbia la funzione di integrare il corpo sociale e di assicurarne l’unità. È lecito supporre che i fatti che abbiamo appena osservato si riproducano anche qui, ma con maggiore ampiezza; e che neppure le grandi società politiche possano mantenersi in equilibrio se non grazie alla specializzazione dei compiti; che cioè la divisione del lavoro sia la fonte principale, anche se non l’unica, della solidarietà sociale. Già Comte aveva adottato questo punto di vista. Egli è il primo di tutti i sociologi a noi noti che abbia segnalato la divisione del lavoro come qualcosa di ben diverso da un fenomeno puramente economico. […]
“La continua ripartizione dei differenti lavori umani è dunque ciò che costituisce principalmente la solidarietà sociale, e che diventa la causa elementare dell’estensione e della complicazione crescente dell’organismo sociale” [fra virgolette una frase di Comte riportata da Durkheim nel testo].

(Ibidem, pp. 84-85)