Culto e riti


Ogni culto presenta un duplice aspetto, l'uno negativo e l'altro positivo. […]
Gli esseri sacri sono, per definizione, esseri separati. Ciò che li caratterizza è il fatto che tra essi e gli esseri profani c'è una soluzione di continuità: normalmente gli uni sono esterni agli altri. Tutto un insieme di riti ha lo scopo di realizzare questo stato di separazione che è essenziale: avendo la funzione di prevenire le mescolanze egli accostamenti indebiti, di impedire che uno di questi due domini penetri nell'altro, essi non possono imporre che astensioni, cioè atti negativi. Per questo motivo proponiamo di chiamare culto negativo il sistema costituito da questi riti particolari. Essi non prescrivono al fedele di compiere prestazioni effettive, ma si limitano a proibirgli determinati modi di agire; essi prendono dunque tutti la forma dell’interdizione o, come si dice abitualmente in etnografia, di tabù.
(É. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, op. cit, pp. 327-328)

Qualsiasi importanza rivesta il culto negativo, e per quanto produca indirettamente effetti positivi, esso non ha la propria ragion d'essere in sé; esso introduce alla vita religiosa, ma la presuppone più che non la costituisca. Se esso prescrive al fedele di fuggire il mondo profano, è per accostarlo al mondo sacro. L'uomo non ha mai pensato che i suoi doveri verso le forze religiose potessero ridursi a una semplice astensione da ogni rapporto; ed ha invece considerato sempre di avere con esse rapporti positivi e bilaterali, che un insieme di pratiche rituali ha la funzione di regolare e di organizzare. A questo particolare sistema di riti diamo il nome di culto positivo.(Ibidem, p. 357)
Giungiamo così alla base solida sulla quale sono costruiti tutti i culti, e che assicura la loro persistenza da quando esistono le società umane. Quando si vede di che cosa sono fatti i riti e a che cosa sembrano tendere, ci si domanda con stupore come gli uomini abbiano potuto averne l'idea, e soprattutto come vi sono rimasti così fedelmente attaccati. Da dove può essere venuta loro l'illusione che con qualche granello di sabbia gettato al vento, con qualche goccia di sangue sparsa su una roccia o sulla pietra di un altare, era possibile conservare la vita di una specie animale o di un dio? Senza dubbio abbiamo già fatto un passo avanti nella soluzione di questo problema quando, sotto questi movimenti esterni e apparentemente irragionevoli, abbiamo scoperto un meccanismo mentale che dà loro un senso e una portata morale. […]
Per essere autorizzati a considerare l'efficacia attribuita ai riti come qualcosa di diverso dal prodotto di un delirio cronico, di cui l'umanità abusa, si deve stabilire che il culto ha realmente l'effetto di ricreare periodicamente un essere morale da cui noi dipendiamo come esso dipende da noi: ma questo essere esiste, ed è la società.
Infatti, per quanto scarsa sia l'importanza delle cerimonie religiose, esse mettono in moto la collettività; i gruppi si raccolgono per celebrarle. Il loro primo effetto è perciò quello di riavvicinare gli individui, di moltiplicar tra loro i contatti e di renderli più intimi. Per questo stesso motivo, il contenuto delle coscienze muta. Durante i giorni ordinari le preoccupazioni utilitarie e individuali occupano il posto maggiore negli spiriti.
(Ibidem, p. 380)
La società può ravvivare il senso che ha di sé soltanto a condizione di riunirsi. Ma essa non può tenere perpetuamente le sue assise: le esigenze della vita non le permettono di restare indefinitamente allo stato di congregazione; essa si disperde per riunirsi di nuovo, quando ancora ne sente il bisogno. A queste alternanze necessarie corrisponde il regolare avvicendamento di tempi sacri e di tempi profani.
(Ibidem, p. 382)
In questa maniera gli uomini sono giunti ad attribuire virtù creatrici a gesti di per sé vani. L’efficacia morale del rito, che è reale, ha fatto credere alla sua efficacia fisica, che è immaginaria […].
Ci è tanto più facile comprendere questo stato d'animo, in quanto possiamo ancora osservarlo intorno a noi. Soprattutto presso i popoli e negli ambienti più colti, si trovano spesso credenti che, pur avendo dubbi sull'efficacia specifica che il dogma attribuisce a ogni rito considerato separatamente, continuano tuttavia a praticare il culto. Essi non sono certi che i particolari delle osservanze prescritte siano razionalmente giustificabili; ma sentono che sarebbe loro impossibile svincolarsene senza cadere in un disagio morale di fronte al quale retrocedono. Il fatto stesso che la fede abbia perduto in loro le sue radici intellettuali pone così in evidenza le ragioni profonde su cui essa riposa. Ecco perché le critiche facili, a cui un razionalismo semplicistico ha talvolta sottoposto le prescrizioni rituali, lasciano in genere indifferente il fedele: la vera giustificazione delle pratiche religiose non risiede negli scopi apparenti che esse perseguono, bensì nell'azione invisibile che esse esercitano sulle coscienze e nella maniera in cui esse influiscono sul nostro livello mentale. Analogamente, quando i predicatori si propongono di convincere, essi si impegnano molto meno a stabilire direttamente e con prove metodiche la verità di una certa proposizione particolare, o l'utilità dell'una o dell'altra osservanza, che a destare o a risvegliare il sentimento di conforto morale procurato dalla celebrazione regolare del culto. Essi creano così una predisposizione a credere che va oltre le prove, che trascina l'intelligenza a passar sopra all'insufficienza delle ragioni logiche e che la conduce quasi da sé alle proposizioni che le si vuol fare accettare. Questo pregiudizio favorevole, questo slancio a credere, è precisamente ciò che costituisce la fede; ed è la fede che dà valore ai riti per qualsiasi credente, per il Cristiano come per l' Australiano. […]
Avendo questa origine, la fede è in un certo senso “impermeabile all'esperienza”.
(Ibidem, pp. 392-393)
È un fatto noto che i giochi e le forme principali dell'arte sembrano essere sorte dalla religione, e che esse hanno conservato a lungo un carattere religioso. Si vede quali ne sono le ragioni: il culto, pur mirando direttamente ad altri scopi, è stato nello stesso tempo per gli uomini una specie di ricreazione. A questa funzione la religione non ha assolto per caso, in virtù di una fortunata coincidenza, ma per una necessità della sua natura. Infatti, per quanto il pensiero religioso sia - come si è stabilito - tutt'altro che un sistema di finzioni, le realtà alle quali esso corrisponde arrivano però ad esprimersi religiosamente soltanto se sono trasfigurate dall'immaginazione. Tra la società, così come essa è oggettivamente, e le cose sacre che la rappresentano simbolicamente la distanza è considerevole. È stato necessario che le impressioni realmente provate dagli uomini, e che hanno fornito la materia prima a questa costruzione, siano state interpretate, elaborate e trasformate fino a diventare irriconoscibili. Il mondo delle cose religiose è dunque, e soltanto nella sua forma esteriore, un mondo parzialmente immaginario, che per questo motivo si presta più facilmente alle libere creazioni dello spirito. D'altra parte, dato che le forze intellettuali che servono a produrlo sono intense e tumultuose, non è sufficiente ad esaurirle il solo compito che consiste nell'esprimere l'irreale attraverso simboli convenienti. Resta generalmente disponibile un sovrappiù che cerca di impegnarsi in opere supplementari, superflue e di lusso, cioè in opere d'arte. Ciò avviene per le pratiche come per le credenze. Lo stato di effervescenza in cui si trovano i fedeli riuniti, si traduce necessariamente al di fuori in movimenti esuberanti, i quali non si lasciano facilmente assoggettare a scopi rigorosamente definiti. Essi avvengono in parte senza scopo, si svolgono per il solo piacere di svolgersi, si compiacciono di ogni specie di giochi. Del resto, nella misura in cui gli esseri a cui il culto è rivolto sono immaginari, essi sono incapaci di contenere e di regolare questa esuberanza; occorre la pressione di realtà tangibili e resistenti per costringere l'attività a adattamenti esatti ed economici. Perciò ci si espone a fraintendimenti quando, per spiegare i riti, si crede di dover assegnare ad ogni gesto uno scopo preciso ed una ragion d’essere determinata. Ve ne sono alcuni che non servono a nulla; essi dipendono semplicemente dal bisogno di agire, di muoversi e di gesticolare che provano i fedeli. Si vedono questi saltare, girare, danzare, gridare, cantare, senza che sia sempre possibile dare un senso a questa agitazione.
Perciò la religione non sarebbe se stessa se non facesse posto alle libere combinazioni del pensiero e dell'attività, al gioco, all'arte, a tutto ciò che ricrea lo spirito affaticato dalla soggezione del lavoro quotidiano: le stesse cause che l’hanno creata determinano questa necessità. L' arte non è soltanto un ornamento esteriore di cui il culto si adornerebbe per dissimulare ciò che può avere di troppo austero e di troppo rude: il culto ha qualcosa di estetico di per sé. […] c' è una poesia inerente a ogni religione.
(Ibidem, pp. 416-417)
Tutto ci riconduce quindi alla stessa idea: i riti sono anzitutto i mezzi con cui il gruppo sociale si riafferma periodicamente.
(Ibidem, p. 423)
Pur essendo differenti tra loro per la natura dei gesti che implicano, i diversi riti positivi passati in rassegna hanno un carattere comune: essi sono compiuti tutti in uno stato di fiducia, di allegria ed anzi di entusiasmo. Benché l'attesa di un avvenimento futuro e contingente non sia priva di qualche incertezza, è tuttavia normale che la pioggia cada quando è giunta la stagione, e che le specie animali e vegetali si riproducano regolarmente. Un'esperienza ripetuta tante volte ha dimostrato che, in linea di principio, i riti producono l'effetto da essi sperato e che costituisce la loro ragion d'essere. Li si celebra con sicurezza, godendo in anticipo dell'avvenimento felice che essi preparano e annunciano. I movimenti che si eseguono partecipano di questo stato d' animo: essi sono certamente improntati alla gravità che sempre una solennità religiosa presuppone, ma questa gravità non esclude né il brio né la gioia.
Si tratta di feste gioiose; però esistono anche feste tristi, che hanno lo scopo di far fronte a una calamità, o semplicemente di ricordarla e deplorarla. […]
Proponiamo di chiamare piaculari le cerimonie di questo genere. […]
Il lutto ci offre un primo ed importante esempio di riti piaculari.
Tuttavia è necessaria una distinzione tra i diversi riti che costituiscono il lutto. Ve ne sono alcuni che consistono in semplici astensioni: è proibito pronunciare il nome del morto e soggiornare nel luogo in cui è avvenuto il decesso; i parenti, specialmente quelli di sesso femminile, debbono astenersi da ogni comunicazione con gli estranei; le occupazioni ordinarie della vita sono sospese come in tempo di festa, e così via. Tutte queste pratiche, che rientrano nel culto negativo, si spiegano come i riti dello stesso genere, e quindi non dobbiamo occuparcene in questa sede. Esse derivano dal fatto che il morto è un essere sacro: perciò tutto quanto è o è stato in rapporto con lui si trova per contagio in uno stato religioso, che esclude ogni contatto con le cose della vita profana.
Ma il lutto non è fatto unicamente di interdizioni da osservare: si esigono anche atti positivi di cui i parenti sono ad un tempo gli agenti e i pazienti.
(Ibidem, pp. 425-426)
Questi riti appartengono a un tipo diverso da quelli studiati in precedenza. Ciò non vuol dire che tra gli uni e gli altri non si possano trovare importanti somiglianze che dovranno essere poste in luce; ma le differenze sono forse più palesi. In luogo di danze gioconde, di canti, di rappresentazioni drammatiche che distraggono e distendono lo spirito, sono i pianti, i gemiti, in una parola le manifestazioni più varie della tristezza angosciata e una specie di mutua pietà, che occupano tutta la scena. […]
Qui la regola è invece l'abbattimento, le grida, i pianti. […]
E come si spiegano dunque? Un primo fatto è costante: il lutto non è l'espressione spontanea di emozioni individuali. […]
Il lutto non è un movimento naturale della sensibilità privata, scossa da una perdita crudele; è un dovere imposto dal gruppo. Ci si lamenta non soltanto perché si è tristi, ma perché si è obbligati a lamentarsi. È un atteggiamento rituale che si deve adottare per rispetto alla consuetudine, ma che è in larga misura indipendente dallo stato effettivo degli individui. Questo obbligo è d'altronde sanzionato da pene mitiche o sociali. Si crede ad esempio che, quando un parente non porta il lutto come conviene, l'anima del morto si metta alle sue calcagna e lo uccida. In altri casi la società non lascia alle forze religiose la cura di punire i negligenti; interviene essa stessa e reprime gli errori rituali. Se un genero non rende al suocero i doveri funebri che gli deve, se non si fa le incisioni prescritte, i suoi suoceri tribali gli riprendono la moglie e la danno ad un altro. Per adeguarsi all'uso ci si sforza talvolta di piangere mediante mezzi artificiali.
Donde viene questo obbligo?
(Ibidem, pp. 432-434)
È […] presumibile che la spiegazione dei riti gioiosi sia suscettibile di venir applicata anche ai riti tristi, a condizione che vi siano trasportati i termini.
Quando un individuo muore, il gruppo familiare al quale appartiene si sente diminuito e, per reagire contro questa diminuzione, si raccoglie. Una disgrazia comune ha gli stessi effetti dell'avvicinarsi di un avvenimento felice: essa ravviva i sentimenti collettivi che inducono quindi gli individui a cercarsi e ad avvicinarsi. Abbiamo anche veduto questo bisogno di concentrazione affermarsi talvolta con una particolare energia: ci si abbraccia, ci si stringe, ci si unisce il più possibile gli uni con gli altri. Ma lo stato affettivo in cui si trova allora il gruppo riflette le circostanze che esso attraversa. Non soltanto i parenti più direttamente colpiti recano all'assemblea il loro dolore personale, ma la società esercita sui suoi membri una pressione morale per indurli a porre i loro sentimenti in armonia con la situazione. Permettere che restino indifferenti al colpo che la colpisce e la diminuisce, sarebbe proclamare che essa non occupa nei loro cuori il posto a cui ha diritto; sarebbe anzi negarla. Una famiglia che tollera che uno dei suoi possa morire senza essere pianto, testimonia con ciò di mancare di unità morale e di coesione: essa abdica; essa rinuncia ad essere. Da parte sua l'individuo, quando è fermamente attaccato alla società di cui fa parte, si sente moralmente tenuto a partecipare alle sue tristezze e alle sue gioie: il disinteresse sarebbe la rottura dei vincoli che lo uniscono alla collettività, la rinuncia a volerla […].
(Ibidem, p. 436)