Il suicidio anomico

La società non è soltanto una cosa che attrae a sé con ineguale intensità i sentimenti e le attività degli individui, ma è anche un potere che li regola. Esiste un rapporto tra la maniera con cui si esercita questa azione regolatrice e il tasso sociale dei suicidi. […]
È noto che le crisi economiche hanno un’influenza aggravante sulla tendenza suicida.
(É. Durkheim, Il suicidio, op. cit, p. 293)

Se […] le crisi industriali o finanziarie aumentano i suicidi non è perché impoveriscono, giacché la crisi di prosperità hanno lo stesso risultato, ma perché sono crisi, cioè delle perturbazioni dell’ordine collettivo. Ogni rottura di equilibrio anche generatrice di grande agiatezza e di un rialzo della vitalità generale, spinge alla morte volontaria. Ogni qualvolta si verifichino gravi rimaneggiamenti sociali, siano essi dovuti a un improvviso movimento di sviluppo o ad un inatteso cataclisma, l’uomo si uccide più facilmente. Come è possibile? Come può staccare dalla vita ciò che di solito si considera un suo miglioramento? […]

Nell’animale, per lo meno allo stato normale, quest’equilibrio si stabilisce con una spontaneità automatica perché dipende da condizioni puramente materiali. […]
Non è così per l’uomo, perché la maggior parte dei suoi bisogni non sono dipendenti dal corpo, o non lo sono nello stesso grado. […]
Come stabilire, dunque, la quantità di benessere,di comodità, di lusso che un essere umano può legittimamente ricercare ? Non nella costituzione organica, né in quella psicologica dell’uomo si trova alcunché che possa segnare un termine a simili tendenze. Il funzionamento della vita individuale non esige che si fermino in un punto piuttosto che in un altro, e lo dimostra il fatto che non hanno cessato di svilupparsi dall'inizio della storia, che soddisfazioni sempre più complete sono state loro apportate e che, non per questo, la salute media sia andata indebolendosi. Ma soprattutto, come stabilire il modo con cui debbono variare a seconda delle condizioni, delle professioni, dell'importanza relativa dei servizi e cosi via ? Non v'è società in cui siano ugualmente soddisfatti-nei vari gradi della gerarchia sociale. Benché nei suoi tratti essenziali, sia sensibilmente la stessa in tutti i cittadini, non è la natura umana ad assegnare ai bisogni quel limite variabile che sarebbe necessario. Essi sono dunque illimitati in quanto dipendono dall'individuo solo. Di per sè, fatta astrazione da ogni potere estrinseco che la regoli, la nostra sensibilità è un abisso senza fondo che nulla può colmare.
Ma allora, se non interviene nulla da fuori a contenerla, non può essere di per sé che fonte di sofferenza. I desideri illimitati sono per definizione insaziabili e non è senza ragione che l'insaziabilità è considerata un segno di morbosità. Se nulla li limita, superano sempre e all'infinito i mezzi di cui dispongono, e nulla vale a placarli. Una sete inestinguibile è un supplizio eternamente rinnovato.
(Ibidem, pp. 299-301)
Mai gli uomini consentirebbero a limitare i propri desideri se si credessero autorizzati a superare il limite loro assegnato. Ma per le ragioni suddette non possono dettarsi da soli questa legge di giustizia. Dovranno perciò riceverla da una autorità che rispettano e alla quale si inchinano spontaneamente. Soltanto la società, sia direttamente e nel suo insieme, sia mediante uno dei suoi organi è capace di svolgere questa funzione moderatrice, soltanto essa è quel potere morale superiore di cui l'individuo accetta l'autorità. Soltanto essa ha l'autorità necessaria a conferire il diritto e a segnare alle passioni il limite oltre il quale non devono andare.
(Ibidem, p. 303)
È caratteristica dell’uomo essere soggetto a un freno non fisico, ma morale, cioè sociale. Egli non riceve la sua legge da un ambiente materiale che s’impone brutalmente, ma da una coscienza superiore alla sua e di cui sente la superiorità. Proprio perché la maggiore e migliore parte della sua vita trascende il corpo, egli sfugge al giogo del corpo per subire quello della società.
Senonché, quando la società è scossa, sia per una crisi dolorosa sia per improvvise, sebbene felici, trasformazioni, essa è provvisoriamente incapace di esercitare questa azione. Da qui provengono queste repentine ascese della curva dei suicidi di cui abbiamo già stabilito l’esistenza. […]
Lo stato di non regolamento o di anomia si rafforza dunque perché le passioni sono meno disciplinate proprio quando sono più bisognose di una forte disciplina.
(Ibidem, pp. 306-308)
L'anomia è nelle società moderne un fattore regolare e specifico di suicidio, la fonte precipua cui si alimenta il contingente annuo. Ci troviamo così in presenza di un'altra specie di suicidio che va distinta dagli altri. Esso ne differisce perché dipende non dalla maniera di essere legati alla società degli individui, ma dal modo con cui essa li disciplina. Il suicidio egoistico viene dal fatto che l'uomo non scorge più ragione alcuna di stare in vita; il suicidio altruistico dal fatto che questa ragione appare fuori della vita medesima; il terzo tipo di suicidio, di cui abbiamo ora constatato l'esistenza, deriva dal fatto che l'attività degli uomini è sregolata ed essi ne soffrono. Per la sua origine, daremo a quest'ultima specie il nome di suicidio anomico.
Non che questo suicidio e quello egoistico siano privi di rapporto di parentela. Ambedue sono frutto di una società non sufficientemente presente all'individuo, senonché la sfera di assenza non è la medesima nei due casi. Nel suicidio egoistico essa fa difetto nell'attività propriamente collettiva, lasciandola sprovvista di oggetto e di significato. Nel suicidio anomico, essa difetta alle passioni individuali, lasciandole senza freno regolatore. Nonostante la loro affinità, questi due tipi risultano essere indipendenti l'uno dall'altro. Possiamo infatti ricondurre alla società quanto v’è in noi di sociale e non sapere, lo stesso, frenare i nostri desideri; senza essere egoisti possiamo vivere in stato di anomia e viceversa. Talché non è negli stessi ambienti sociali che i due tipi di suicidio reclutano la maggior parte della clientela, uno ha per campo d’elezione le carriere intellettuali, il mondo del pensiero, l’altro il mondo industriale o commerciale. […] L’anomia economica non è tuttavia l’unica a generare il suicidio.
(Ibidem, pp. 313-314)
L’anomia, infatti, sta nel fatto che in certi punti della società mancano le forze collettive, cioè i gruppi costituiti per regolare la vita sociale. È quindi una risultante di quello stato di disgregazione da cui proviene anche la corrente egoistica. Senonché la medesima causa provoca effetti differenti a seconda del punto di incidenza e a seconda che agisca su funzioni attive e pratiche o su funzioni rappresentative. Essa esaspera e rende febbrili le prime, disorienta e sconcerta le seconde. Il rimedio perciò lo stesso in ambo i casi. Infatti, si è constatato che il ruolo principale delle corporazioni sarebbe, nel futuro come per il passato, di regolare le funzioni sociale e, in special modo, quelle economiche e di trarle dallo stato di non organizzazione in cui attualmente si trovano.
(Ibidem, pp. 450-451)
Si è spesso osservato che lo Stato è invadente quanto impotente. Esso fa uno sforzo morboso per estendersi a tutte quelle cose che gli sfuggono e che può afferrare solo violentandole. Donde lo spreco di forze che gli si rimprovera e che è, in effetti, senza rapporto coi risultati ottenuti. D’altra parte, i singoli non sono soggetti ad altra azione collettiva all’infuori della sua, che è l’unica collettività organizzata. Solo suo tramite essi sentono la società e la dipendenza in cui si trovano nei suoi confronti. Ma lo Stato è lontano da loro né può avere su di loro se non una lontana azione intermittente e discontinua. Ecco perché essi non lo sentono presente né con la continuità né con l'energia dovute. Per la maggior parte della loro esistenza essi non trovano attorno a sé nulla che possa trarli fuori da se stessi e imporre un freno. Ed è inevitabile che in tali condizioni essi sprofondino nell'egoismo o nella sregolatezza. L'uomo non può interessarsi a fini superiori e assoggettarsi a una disciplina se non scorge niente sopra di sé cui essere solidale. Liberarlo da ogni pressione sociale significa abbandonarlo a se stesso e demoralizzarlo. Queste sono le caratteristiche della nostra situazione morale. Mentre lo Stato si gonfia e ipertrofizza per giungere senza riuscirci a conglomerare fortemente gli individui, questi, privi di legami fra loro, rovinano gli uni sugli altri come molecole liquide senza incontrare nessun centro di forze che li trattenga, li fissi e li organizzi. […]
L'unico decentramento che permetta di moltiplicare i centri della vita comune senza spezzare l’unità nazionale è quello che chiameremo decentramento professionale. Ognuno di questi nuclei, come focolare di un’attività speciale e ristretta, sarebbe inseparabile dall'altro e l'individuo potrebbe quindi parteciparvi senza peraltro essere meno solidale al tutto. La vita sociale non può suddividersi rimanendo unitaria se non quando ogni suddivisione rappresenti una funzione. È quel che hanno compreso quegli scrittori e uomini politici sempre più numerosi a che vorrebbero fare del gruppo professionale la base dell'organizzazione politica, e cioè suddividere il collegio elettorale non già in circoscrizioni ma in corporazioni. Ma per fare questo occorre intanto creare le corporazioni. Le quali debbono essere altra cosa che non una raccolta d'individui che non avendo niente in comune tra loro si incontrano soltanto il giorno delle votazioni. La corporazione assolverà al compito destinatole unicamente se non rimarrà un'entità convenzionale e diventerà una istituzione ben definita, una persona collettiva con tradizioni e costumi propri, diritti e doveri propri, una sua unità. La difficoltà non sta nel decidere per legge che i rappresentanti siano nominati dalle professioni e quanti ce ne saranno per ognuna, bensì nel fare in modo che ogni corporazione diventi una individualità morale, altrimenti non faremo altro che aggiungere una cornice esterna e fittizia a quelle già esistenti e che vorremmo sostituire.
(Ibidem, pp. 457-459)