Anomia. Divisione anomica e divisione coercitiva del lavoro

La divisione del lavoro non potrebbe […] essere spinta troppo lontano senza diventare fonte di disintegrazione. […]
Infatti, se da un lato la separazione delle funzioni sociali permette allo spirito di dettaglio un felice sviluppo che sarebbe impossibile in altro modo, essa tende però da un altro lato spontaneamente a soffocare lo spirito di insieme, o per lo meno a ostacolarlo profondamente. […]
La divisione del lavoro eserciterebbe quindi, in virtù della sua natura, un’influenza dissolvitrice, sensibile soprattutto dove le funzioni sono molto specializzate.
(É. Durkheim, La divisione del lavoro sociale, op. cit, p. 351)

Questi diversi esempi sono dunque varietà della medesima specie; in tutti questi casi, se la divisione del lavoro non produce la solidarietà, è perché le relazioni degli organi non sono regolate – perché si trovano in uno stato di anomia.
Ma da dove proviene questo stato?
Dal momento che un corpo di regole è la forma definita che assumono col tempo i rapporti che si stabiliscono spontaneamente tra le funzioni sociali, si può dire a priori che lo stato di anomia è impossibile dovunque gli organi solidali sono sufficientemente ed abbastanza a lungo in contatto. Infatti, essendo contigui, sono facilmente avvertiti in ogni circostanza del bisogno che hanno gli uni degli altri, ed hanno perciò la consapevolezza viva e continua della loro mutua dipendenza. Per la stessa ragione gli scambi tra di essi avvengono facilmente; essendo regolari, sono anche frequenti; si regolarizzano da soli ed il tempo completa a poco a poco l'opera di consolidamento. Infine, dal momento che le minime reazioni possono venir risentite da ogni parte, le regole che così si formano ne recano l'impronta; esse prevedono e stabiliscono nei minimi particolari le condizioni dell' equilibrio. Se invece tra le parti si interpone un mezzo opaco, soltanto le eccitazioni dotate di una certa intensità possono comunicarsi da un organo all'altro. Poiché le relazioni sono rare, non si ripetono abbastanza per determinarsi; si ricomincia ogni volta a procedere a tastoni. […]
A misura che il mercato si estende, appare la grande industria, il cui effetto è la trasformazione delle relazioni dei padroni e degli operai. La maggiore fatica del sistema nervoso, insieme all’influenza contagiosa dei grandi agglomerati, aumenta i bisogni di questi ultimi. Il lavoro della macchina sostituisce la piccola officina. L’operaio viene irreggimentato, staccato per tutta la giornata dalla famiglia; vive sempre più separato da chi lo impiega, e così via. Queste nuove condizioni della vita industriale reclamano evidentemente un’organizzazione nuova; ma dato che queste trasformazioni si sono compiute con un’estrema rapidità, gli interessi in conflitto non hanno ancora avuto il tempo di equilibrarsi. […]
Ciò che precede toglie ogni fondamento ad uno dei più gravi rimproveri che siano stati fatti alla divisione del lavoro.
Essa è stata sovente accusata di diminuire l’individuo riducendolo al ruolo di una macchina. Effettivamente, se egli non sa a che cosa tendono le operazioni che gli sono richieste, se non le collega a nessun fine, non può assolverle che per abitudine. Tutti i giorni egli ripete i medesimi movimenti con monotona regolarità, ma senza interessarsi ad essi e senza comprenderli. Non è più la cellula vivente di un organismo vivente, che vibra in continuazione al contatto delle cellule vicine, che agisce su di esse e risponde a sua volta alla loro azione, che si estende, si contrae, si piega e si trasforma a seconda dei bisogni e delle circostanze; è soltanto un ingranaggio inerte al quale una forza esterna dà l’avvio e che si muove sempre nel medesimo senso e nello stesso modo. Evidentemente, qualunque sia la maniera in cui ci si rappresenta l’ideale morale, non si può restare indifferenti ad un simile avvilimento della natura umana. Se il fine della morale è il perfezionamento individuale, essa non può permettere che si rovini a tal punto l’individuo; e se il suo scopo è invece la società, non può lasciare che la fonte stessa della vita sociale si inaridisca; il male infatti non minaccia soltanto le funzioni economiche, bensì tutte le funzioni sociali, per quanto elevate.
[…] la divisione del lavoro non produce queste conseguenze in virtù di una necessità derivante dalla sua stessa natura, ma soltanto in circostanze eccezionali ed anormali. […]
Gli economisti non avrebbero lasciato nell’ombra questo carattere essenziale della divisione del lavoro e, di conseguenza, non l’avrebbero esposta a questo rimprovero immeritato, se non l’avessero ridotta a un mezzo per aumentare il rendimento delle forze sociali, se avessero visto che è anzitutto una fonte di solidarietà.
(Ibidem, pp. 360-364)
Tuttavia non basta che vi siano regole, poiché talvolta proprio le regole sono la causa del male. È ciò che accade nella guerra delle classi. L’istituzione delle classi o delle caste costituisce un modo di organizzazione della divisione del lavoro, e si tratta di un’organizzazione rigorosamente regolata; tuttavia, è sovente fonte di dissensi. Le classi inferiori, non essendo o non essendo più soddisfatte della parte che il costume o la legge attribuisce loro, aspirano alle funzioni che sono loro interdette, cercando di spodestare coloro che le esercitano: da ciò hanno origine guerre intestine derivanti dalla maniera in cui il lavoro è distribuito. […]
Affinché la divisione del lavoro produca la solidarietà non basta quindi che ognuno abbia la propria attività; occorre anche che tale attività gli convenga.
[…] se l'istituzione delle classi o delle caste dà origine talvolta a dolorosi dissensi invece di produrre la solidarietà, ciò accade perché la distribuzione delle funzioni sulla quale riposa, non corrisponde, o meglio non corrisponde più, alla distribuzione dei talenti naturali.
Occorre che, in seguito ai mutamenti sopravvenuti nella società, gli uni siano diventati atti alle funzioni che prima eccedevano le loro forze, mentre gli altri perdevano parte della loro superiorità primitiva. Quando i plebei si misero a disputare ai patrizi l' onore delle funzioni religiose e amministrative, non lo fecero soltanto per imitarli, ma anche perché erano diventati più intelligenti, più ricchi, più numerosi, e perché i loro gusti e le loro ambizioni si erano modificati in conformità. Per effetto di queste trasformazioni, l' accordo tra le attitudini degli individui e il genere di attività loro assegnato risulta rotto in un' intera regione della società: soltanto la costrizione, più o meno violenta e più o meno diretta, li vincola alle loro funzioni; e pertanto non è più possibile che una solidarietà imperfetta e perturbata. Questo risultato non è dunque una conseguenza necessaria della divisione del lavoro: esso non si verifica che in circostanze del tutto particolari, vale a dire quando essa costituisce l'effetto di una costrizione esteriore. La situazione è completamente diversa quando si stabilisce in virtù di una spontaneità puramente interna, senza che nulla intervenga per intralciare le iniziative degli individui. […]
La divisione coercitiva del lavoro è quindi il secondo tipo morboso che riconosciamo. Ma non bisogna ingannarsi sul senso del termine: ciò che costituisce la costrizione non è ogni tipo di regolamentazione, dal momento che al contrario la divisione del lavoro - lo abbiamo appena visto – non può fare a meno delle regolamentazioni. […]
La costrizione non comincia che quando la regolamentazione, non corrispondendo più alla vera natura delle cose, e non avendo quindi più la sua base nei costumi, non si regge più che con la forza. […]
In breve, il lavoro si divide spontaneamente soltanto se la società è costituita in modo da permettere alla ineguaglianze sociali di esprimere esattamente le ineguaglianze naturali. Perciò occorre, ed è sufficiente, che queste ultime non siano né rincarate né deprezzate da cause esteriori. La perfetta spontaneità non è quindi altro che una conseguenza ed un’altra forma di questo fatto – cioè dell’assoluta eguaglianza delle condizioni esterne della lotta. […]
D’altra parte dato che i progressi della divisione del lavoro implicano al contrario una sempre crescente disuguaglianza, l’eguaglianza di cui la coscienza pubblica afferma in tal modo la necessità non può essere se non quella di cui parliamo – vale a dire l’eguaglianza delle condizioni esterne della lotta.

(Ibidem, pp. 365-369)