UNA FINESTRA SULL' UMBRIA
Santi
L’Umbria evoca nella fantasia collettiva l’idea di pace e tranquillità. Una
regione in cui la vita ha ancora una dimensione umana, lontana dai ritmi
frenetici delle regioni fortemente industriali o altamente turistiche. La
natura, la storia e l’arte la fanno da padrone e ne fanno un luogo dell’anima.
In un periodo in cui accanto al benessere materiale si ritorna a cercare con
forza il benessere spirituale, l’Umbria diventa polo d’attrazione per quanti
intraprendono un cammino alla ricerca di sé attraverso la scoperta di luoghi
d’arte e di cultura, luoghi mistici e spirituali e una natura austera e
solenne
Le
principali figure religiose che nel corso dei secoli hanno contribuito a creare
e a diffondere in tutto il mondo l’immagine dell’Umbria come luogo mistico e
meta del turismo religioso, sono state senza dubbio San Francesco, Santa Chiara,
San Benedetto e Santa Rita, San Valentino dei quali si tramanda memoria anche
attraverso i monumenti che sono stati eretti successivamente alla loro morte, a
testimonianza della loro fede e della loro vita religiosa, diventando luoghi di
culto altamente simbolici. Tali luoghi richiamano ogni anno migliaia di
pellegrini che da tutto il mondo raggiungono l’Umbria per respirare
quell’atmosfera di serenità e pace che va ben oltre allo spirito, fino ad essere
promessa per l’umanità
San Francesco d' Assisi
San Francesco d'Assisi nacque ad Assisi nel 1182 ca. e morì nel 1226. Giovanni
Francesco Bernardone, figlio di un ricco mercante di stoffe, istruito in latino,
in francese, e nella lingua e letteratura provenzale, condusse da giovane una
vita spensierata e mondana; partecipò alla guerra tra Assisi e Perugia, e venne
tenuto prigioniero per più di un anno, durante il quale patì per una grave
malattia che lo avrebbe indotto a mutare radicalmente lo stile di vita: tornato
ad Assisi nel 1205, Francesco si dedicò infatti a opere di carità tra i lebbrosi
e cominciò a impegnarsi nel restauro di edifici di culto in rovina, dopo aver
avuto una visione di san Damiano d'Assisi che gli ordinava di restaurare la
chiesa a lui dedicata.
Il padre di Francesco, adirato per i mutamenti
nella personalità del figlio e per le sue cospicue offerte, lo diseredò;
Francesco si spogliò allora dei suoi ricchi abiti dinanzi al vescovo di Assisi,
eletto da Francesco arbitro della loro controversia. Dedicò i tre anni seguenti
alla cura dei poveri e dei lebbrosi nei boschi del monte Subasio. Nella cappella
di Santa Maria degli Angeli, nel 1208, un giorno, durante la Messa, ricevette
l'invito a uscire nel mondo e, secondo il testo del Vangelo di Matteo (10:5-14),
a privarsi di tutto per fare del bene ovunque.
Tornato ad Assisi l'anno stesso, Francesco
iniziò la sua predicazione, raggruppando intorno a sé dodici seguaci che
divennero i primi confratelli del suo ordine (poi denominato primo ordine) ed
elessero Francesco loro superiore, scegliendo la loro prima sede nella chiesetta
della Porziuncola. Nel 1210 l'ordine venne riconosciuto da papa Innocenzo III;
nel 1212 anche Chiara d'Assisi prese l'abito monastico, istituendo il secondo
ordine francescano, detto delle clarisse. Intorno al 1212, dopo aver predicato
in varie regioni italiane, Francesco partì per la Terra Santa, ma un naufragio
lo costrinse a tornare, e altri problemi gli impedirono di diffondere la sua
opera missionaria in Spagna, dove intendeva fare proseliti tra i
mori.
Nel 1219 si recò in Egitto, dove predicò davanti al sultano, senza
però riuscire a convertirlo, poi si recò in Terra Santa, rimanendovi fino al
1220; al suo ritorno, trovò dissenso tra i frati e si dimise dall'incarico di
superiore, dedicandosi a quello che sarebbe stato il terzo ordine dei
francescani, i terziari. Ritiratosi sul monte della Verna nel settembre 1224,
dopo 40 giorni di digiuno e sofferenza affrontati con gioia, ricevette le
stigmate, i segni della crocifissione, sul cui aspetto, tuttavia, le fonti non
concordano.
Francesco venne portato ad Assisi, dove rimase per anni
segnato dalla sofferenza fisica e da una cecità quasi totale, che non indebolì
tuttavia quell'amore per Dio e per la creazione espresso nel Cantico di frate
Sole, probabilmente composto ad Assisi nel 1225; in esso il Sole e la natura
sono lodati come fratelli e sorelle, ed è contenuto l'episodio in cui il santo
predica agli uccelli. Francesco, che è patrono d'Italia, venne canonizzato nel
1228 da papa Gregorio IX. Viene sovente rappresentato nell'iconografia
tradizionale nell'atto di predicare agli animali o con le stigmate.
Santa Chiara d' Assisi
Chiara nasce nel 1194 da una nobile famiglia d'Assisi, figlia di
Favarone di Offreduccio di Bernardino e di Ortolana. La madre, recatasi a
pregare alla vigilia del parto nella Cattedrale di San Rufino, sentì una voce
che le predisse la nascita della bambina con quest eparole :"Donna non temere,
perchè felicemente partorirai una chiara luce che illuminerà il mondo". Per
questo motivo la bambina fu chiamata Chiara e battezzata in quella stessa
chiesa. Si può senza dubbio affermare che una parte predominante della
educazione di questa fanciulla è dovuta alla grande spiritualità che pervadeva
l'ambiente familiare di Chiara ed in particolare la figura della madre che fu
tra quelle dame che ebbero la grande fortuna di raggiungere la Terra Santa al
seguito dei crociati. L'esperienza della completa rinuncia e delle predicazioni
di San Francesco, la fama delle doti che aveva
Chiara per i suoi concittadini, fecero sì che queste due grandi personalità
s'intendessero perfettamente sul modo di fuggire dal mondo comune e donarsi
completamente alla vita contemplativa. La notte dopo la Domenica delle Palme, il
18 marzo 1212, Chiara, accompagnata da Pacifica di Guelfuccio, si recherà di
nascosto alla Porziuncola, dove era attesa da Francesco e dai suoi frati. Qui
Francesco la vestì del saio francescano, le tagliò i capelli consacrandola alla
penitenza e la condusse presso le suore benedettine di San Paolo a Bastia Umbra,
dove il padre inutilmente tentò di persuaderla a far ritorno a casa. Chiara si
rifugiò in seguito, su consiglio di Francesco, nella Chiesetta di San Damiano
che divenne la Casa Madre di tutte le sue consorelle chiamate dapprima "Povere
Dame recluse di San Damiano" e, dopo la morte di Chiara, Clarisse. Qui visse per
quarantadue anni, quasi sempre malata, iniziando alla vita religiosa molte sue
amiche e parenti compresa la madre Ortolana e le sorelle Agnese e Beatrice. Nel
1215 Francesco la nominò badessa e formò una prima regola dell'Ordine che doveva
espandersi per tutta Europa. La grande personalità di Chiara non passò
inosservata agli alti prelati, tanto che il legato pontificio, Cardinale
Ugolino, formulò la prima regola per i successivi monasteri e più tardi le venne
concesso il privilegio della povertà con il quale Chiara rinunciava ad ogni tipo
di possedimento.
La fermezza di carattere, la dolcezza del suo animo, il modo di
governare la sua comunità con la massima carità e avvedutezza, le procurarono la
stima dei Papi che vollero persino recarsi a visitarla. La morte di Francesco e le notizie che alcuni monasteri
accettavano possessi e rendite amareggiarono e allarmarono Chiara che sempre più
malata volle salvare fino all'ultimo la povertà per il suo convento componendo
una Regola simile a quella dei Frati Minori, approvata dal Cardinale Rainaldo
(poi papa Alessandro IV) nel 1252 e alla vigilia della sua morte da Innocenzo
IV, recatosi a San Damiano per portarle la benedizione e consegnarle la bolla
papale che confermava la sua regola; il giorno dopo, 11 agosto 1253, Chiara
muore, officiata dal Papa che volle cantare per lei non l'ufficio dei morti, ma
quello festivo delle vergini. Il suo corpo venne sepolto a San Giorgio ed in
seguito trasferito nella chiesa che porta il suo nome. Nonostante l'intenzione
di Innocenzo IV fosse quella di canonizzarla subito dopo la morte, si giunse
alla bolla di canonizzazione nell'autunno del 1255, dopo averne seguito tutte le
formalità, per mezzo di Alessandro IV.
San Benedetto da Norcia
Benedetto
nacque a Norcia (Perugia) intorno al 480. Compì i suoi studi letterari a Roma,
dove rischiò di farsi coinvolgere dalla corrotta gioventù romana e per questo
motivo si trasferì con la sua nutrice a Enfide (l'odierna Affile).
Quì
compì il suo primo miracolo aggiustando un vaglio in legno. Intorno al 500 si
ritirò in una grotta (1)
nei pressi di Subiaco dove inizio la vita eremitica. Un monaco di nome Romano
gli portava il necessario per vivere.
Fu
presto seguito da numerosi discepoli per i quali fondò nella Valle dell'Aniene
numerosi monasteri.
Un
prete di nome Fiorenzo, invidioso di Benedetto, ne attentò la vita, scampatone,
Benedetto si trasferì a Montecassino dove fondò la celebre abbazia.
Poco
più di un mese prima della morte Benedetto incontrò la sorella Scolastica
con la quale ebbe un famoso colloquio.
Si
spense il 21 marzo 547. Il corpo è custodito insieme a quello della sorella a
Montecassino.
Il
24 orrobre 1964 papa Papa Paolo VI lo proclamò "Patrono d'Europa".
La
sua Regola riassume la tradizione monastica orientale adattandola con saggezza e
discrezione al mondo latino, aprendo così una via nuova alla civiltà europea
dopo il declino di quella romana.
In
questa scuola di servizio del Signore hanno un ruolo determinante la lettura
meditata della Parola di Dio e la lode liturgica, alternata con i ritmi del
lavoro in un clima di carità fraterna e di servizio reciproco.
Nel
solco di San Benedetto sorsero nel continente europeo e nelle isole, centri di
preghiera, di cultura, di promozione umana e di ospitalità per i poveri e i
pellegrini.
La
sua memoria, a causa della Quaresima, è stata trasferita dalla data tradizionale
del 21 marzo, ritenuto il giorno della sua morte, all'11 luglio, giorno in cui
fin dall'alto Medioevo in alcuni luoghi si faceva un particolare ricordo del
santo.
Santa Scolastica da Norcia
Difficile è trovare una connotazione storico-reale che inquadri
in maniera veritiera la figura di Santa Scolastica. Negli ultimi decenni la
critica letteraria religiosa si è trovata più volte nella condizione di negare
l'esistenza di questa Santa, che non compare, se non per brevi tratti, il più
delle volte da intrpretare, in nessuna fonte storicamente accertata. Soltanto
nell'opera di Gregorio Magno, in particolare nel libro III dei
Dialoghi, si fa menzione di tale mistica esistenza. Al di là di ciò,
molti ritengono che l'introduzione di una gemella del già Santo Benedetto, non
sia stata altro che un espediente letterario utilizzato dall'autore per dare un
intento didascalico e divulgativo al proprio scritto. C'è anche da sottolineare,
tra l'altro, che Gregorio Magno è stato più volte accusato di costruire le
proprie opere in funzione di una rivisitazione della letteratura religiosa e
pagana dell'epoca, colma, in quegli anni, di spunti narrativi su sante sorelle e
santi fratelli monaci. Santa Scolastica rappresentava un'icona talmente forte da
renderne difficile la smentita e, anzi, la sua presenza rappresentava un intento
religioso importantissimo, quale quello di mostrare lo spirito religioso
cristiano e divulgare, in tal modo, un nuovo e più consono modus operandi.
A questo elemento, sicuramente di non poco conto, si affianca
l'etimologia del nome stesso della Santa: “scolastico” era colui che aveva
frequentato la “Schola”, quindi, in ragione di ciò, lo si riteneva una persona
sicuramente di spessore, istruita, proprietaria di una certa cultura.
Similarmente il nome attribuito alla Santa di Norcia poteva indicare, in termini
interpretativi, una personificazione simbolica di virtù, purezza e fede da
affiancare alla figura imponente di un fratello santificato.
Resta il fatto che è venuta a mancare una testimonianza
concreta dell'esistenza di Santa Scolastica, poiché, a parte la menzione fatta
da Gregorio Magno, tutti i susseguenti riferimenti a ciò possono essere derivati
dai già citati Dialoghi.
La vita
In un contesto così difficoltoso, fatto di supposizioni e
teorie, manca una traccia biografica concreta dal quale trarre, in qualche modo,
i punti principali della vita di Santa Scolastica. Di certo, come già è stato
detto, non c'è che la profonda eredità religiosa rintracciabile nelle preghiere
a lei rivolte e nelle sue raffigurazioni iconografiche giunte fino a noi.
Ovviamente il mistero che aleggia intorno alla sua figura ne rende difficile
qualsiasi considerazione: se fosse realmente la gemella di San Benedetto o se
fosse solo sua sorella, la data della sua nascita, la sua residenza e la sua
attività a Norcia, il percorso religioso reale che intraprese sulle tracce del
fratello. Se si dà fondamento alla teoria che Scolastica fu davvero l'amatissima
gemella di Benedetto (Ludovico Jacobilli, Santi e beati dell'Umbria) se
ne può stimare la nascita, anche qui non accertata, intorno al 480 d.C. La
letteratura religiosa vuole tramandare l'idea che la famiglia d'origine dei due
Santi fosse di stirpe di indubbia nobiltà, fatta di magistrati e consoli di
spessore nella vita sociale e politica del tempo. Secondo l'anonimo autore della
Vita di Scolastica, i genitori dei due Santi erano in realtà persone
sterili che, per mezzo di una profonda fede e di tante preghiere, avevano avuto
il dono di generare “duo magna sanctae ecclesiae luminaria”. Come per la vita di
San Benedetto, nelle poche ricostruzioni che si sono potute fare di Scolastica
si parla di una fidatissima e amata nutrice, una certa Cirilla di Campi. Da non
tralasciare è anche il fatto che il periodo in cui si considera probabile
l'esistenza di Benedetto e Scolastica fu attraversato da un vivace fervore
religioso, periodo in cui i luoghi di silenzio e di preghiera venivano abitati
con enfasi da solitari personaggi di fede che cominciarono a divenire un
esempio. Della spiritualità di Scolastica non si ha certamente dubbio: secondo
una molteplicità di autori la Santa vestì l'abito monacale già in tenera età,
rappresentando sempre un'incarnazione del messaggio di umiltà, virtù e fedeltà
che intendeva diffondere.
Dallo scritto di Gregorio Magno si evince che Scolastica, molto
probabilmente, non seguì il fratello a Subiaco quando questo sentì il bisogno di
allontanarsi dalla corruzione di Roma e da ogni forma di legale affettivo con il
mondo. Con molta probabilità Scolastica rimase a Norcia, più specificatamente in
quella che è stata definita Rocca Sassaria, una proprietà della famiglia materna
dei Reguardati in cui visse con altre compagne fino al trasferimento a Cassino.
E' teoria di alcuni che Scolastica raggiunse Benedetto a
Cassino tra il 530 e il 550 d.C, ma rimane comunque oscuro, al di là di ogni
supposizione, se in questo nuovo luogo vivesse sola o in comunità con altre
compagne come si ritiene che avesse già vissuto a Norcia. Nei Dialoghi
di Gregorio Magno si parla di un'assiduità di incontri tra i due fratelli,
testimoniando che, forse, i due non potevano trovarsi troppo lontani, anche se,
moralmente, non potevano dividere la stessa abitazione essendo stati, nelle
nuove vesti, un monaco e una monaca tenuti ad un comportamento incorruttibile.
Sempre nei Dialoghi Gregorio ci dà una connotazione di quello che
dovrebbe essere stato l'ultimo di questi volutissimi incontri tra Benedetto e
Scolastica: presumibilmente dovrebbe essere stato il giovedì precedente la prima
domenica di Quaresima; cenarono insieme ad altri discepoli del Santo, pregarono
e colloquiarono finchè il buio della notte non scese ad oscurare ogni cosa.
Scolastica chiese al fratello di rimanere con lei per non interrompere
l'atmosfera che si era creata parlando di argomenti a loro così cari ma
Benedetto, fedele alla sua Regola, si rifiutò per tornare alla sua
cella. Lo sconforto che assalì Scolastica la spinse a pregare il Signore perchè
esaudisse quel suo tanto intenso desiderio di stare con il fratello: al suo
pianto, secondo il racconto, dal cielo cominciò a scendere una pioggia tanto
fitta da impedire ai frati di tornare al loro monastero. Riuscirono a dividersi
soltanto il mattino seguente. Tre giorni dopo Benedetto, pregando dalla sua
cella, rivolse gli occhi al cielo e vide una colomba bianca che volava libera
nell'azzurro. Non ne ebbe la certezza ma era sicuro che la colomba altri non era
che la sorella morta, giunta fino a lui in forma di uccello per regalargli
l'ultimo saluto e per testimoniargli ancora una volta la grandezza della
divinità celeste. Riunitosi con gli altri confratelli comunicò la visione che
aveva avuto e, insieme a loro, seppellì Scolastica in un sepolcro che aveva
preparato per sé.
Santa Rita da Cascia
Fra le tante stranezze o fatti strepitosi che accompagnano la vita
dei santi, prima e dopo la morte, ce n'è uno in particolare che riguarda s. Rita
da Cascia, una delle sante più venerate in Italia e nel mondo cattolico, ed è
che essa è stata beatificata ben 180 anni dopo la sua morte e addirittura
proclamata santa a 453 anni dalla morte.
Quindi una santa che ha avuto un
cammino ufficiale per la sua canonizzazione molto lento (si pensi che
sant’Antonio di Padova fu proclamato santo un anno dopo la morte), ma nonostante
ciò s. Rita è stata ed è una delle più venerate ed invocate figure della santità
cattolica, per i prodigi operati e per la sua umanissima vicenda
terrena.
Rita ha il titolo di “santa dei casi impossibili”, cioè di quei casi
clinici o di vita, per cui non ci sono più speranze e che con la sua
intercessione, tante volte miracolosamente si sono risolti.
Nacque intorno al
1381 a Roccaporena, un villaggio montano a 710 metri s. m. nel Comune di Cascia,
in provincia di Perugia; i suoi genitori Antonio Lottius e Amata Ferri erano già
in età matura quando si sposarono e solo dopo dodici anni di vane attese, nacque
Rita, accolta come un dono della Provvidenza.
La vita di Rita fu intessuta di
fatti prodigiosi, che la tradizione, più che le poche notizie certe che
possediamo, ci hanno tramandato; ma come in tutte le leggende c’è alla base
senz’altro un fondo di verità.
Si racconta quindi che la madre molto devota,
ebbe la visione di un angelo che le annunciava la tardiva gravidanza, che
avrebbero ricevuto una figlia e che avrebbero dovuto chiamarla Rita; in ciò c’è
una similitudine con s. Giovanni Battista, anch’egli nato da genitori anziani e
con il nome suggerito da una visione.
Poiché a Roccaporena mancava una chiesa
con fonte battesimale, la piccola Rita venne battezzata nella chiesa di S. Maria
della Plebe a Cascia e alla sua infanzia è legato un fatto prodigioso; dopo
qualche mese, i genitori, presero a portare la neonata con loro durante il
lavoro nei campi, riponendola in un cestello di vimini poco distante.
E un
giorno mentre la piccola riposava all’ombra di un albero, mentre i genitori
stavano un po’ più lontani, uno sciame di api le circondò la testa senza
pungerla, anzi alcune di esse entrarono nella boccuccia aperta depositandovi del
miele. Nel frattempo un contadino che si era ferito con la falce ad una mano,
lasciò il lavoro per correre a Cascia per farsi medicare; passando davanti al
cestello e visto la scena, prese a cacciare via le api e qui avvenne la seconda
fase del prodigio, man mano che scuoteva le braccia per farle andare via, la
ferita si rimarginò completamente. L’uomo gridò al miracolo e con lui tutti gli
abitanti di Roccaporena, che seppero del prodigio.
Rita crebbe
nell’ubbidienza ai genitori, i quali a loro volta inculcarono nella figlia tanto
attesa, i più vivi sentimenti religiosi; visse un’infanzia e un’adolescenza nel
tranquillo borgo di Roccaporena, dove la sua famiglia aveva una posizione
comunque benestante e con un certo prestigio legale, perché a quanto sembra ai
membri della casata Lottius, veniva attribuita la carica di ‘pacieri’ nelle
controversie civili e penali del borgo.
Già dai primi anni dell’adolescenza
Rita manifestò apertamente la sua vocazione ad una vita religiosa, infatti ogni
volta che le era possibile, si ritirava nel piccolo oratorio, fatto costruire in
casa con il consenso dei genitori, oppure correva al monastero di Santa Maria
Maddalena nella vicina Cascia, dove forse era suora una sua
parente.
Frequentava anche la chiesa di S. Agostino, scegliendo come suoi
protettori i santi che lì si veneravano, oltre s. Agostino, s. Giovanni Battista
e Nicola da Tolentino, canonizzato poi nel 1446. Aveva tredici anni quando i
genitori, forse obbligati a farlo, la promisero in matrimonio a Fernando
Mancini, un giovane del borgo, conosciuto per il suo carattere forte, impetuoso,
perfino secondo alcuni studiosi, brutale e violento.
Rita non ne fu
entusiasta, perché altre erano le sue aspirazioni, ma in quell’epoca il
matrimonio non era tanto stabilito dalla scelta dei fidanzati, quando dagli
interessi delle famiglie, pertanto ella dovette cedere alle insistenze dei
genitori e andò sposa a quel giovane ufficiale che comandava la guarnigione di
Collegiacone, del quale “fu vittima e moglie”, come fu poi detto.
Da lui
sopportò con pazienza ogni maltrattamento, senza mai lamentarsi, chiedendogli
con ubbidienza perfino il permesso di andare in chiesa. Con la nascita di due
gemelli e la sua perseveranza di rispondere con la dolcezza alla violenza,
riuscì a trasformare con il tempo il carattere del marito e renderlo più docile;
fu un cambiamento che fece gioire tutta Roccaporena, che per anni ne aveva
dovuto subire le angherie.
I figli Giangiacomo Antonio e Paolo Maria,
crebbero educati da Rita Lottius secondo i principi che le erano stati inculcati
dai suoi genitori, ma essi purtroppo assimilarono anche gli ideali e regole
della comunità casciana, che fra l’altro riteneva legittima la vendetta.
E
venne dopo qualche anno, in un periodo non precisato, che a Rita morirono i due
anziani genitori e poi il marito fu ucciso in un’imboscata una sera mentre
tornava a casa da Cascia; fu opera senz’altro di qualcuno che non gli aveva
perdonato le precedenti violenze subite.
Ai figli ormai quindicenni, cercò di
nascondere la morte violenta del padre, ma da quel drammatico giorno, visse con
il timore della perdita anche dei figli, perché aveva saputo che gli uccisori
del marito, erano decisi ad eliminare gli appartenenti al cognome Mancini; nello
stesso tempo i suoi cognati erano decisi a vendicare l’uccisione di Fernando
Mancini e quindi anche i figli sarebbero stati coinvolti nella faida di vendette
che ne sarebbe seguita.
Narra la leggenda che Rita per sottrarli a questa
sorte, abbia pregato Cristo di non permettere che le anime dei suoi figli si
perdessero, ma piuttosto di toglierli dal mondo, “Io te li dono. Fà di loro
secondo la tua volontà”. Comunque un anno dopo i due fratelli si ammalarono e
morirono, fra il dolore cocente della madre.
A questo punto inserisco una
riflessione personale, in alcune regioni, esistono realtà
di malavita organizzata, ma in alcuni paesi anche faide familiari, proprio come
al tempo di s. Rita, che periodicamente lasciano sul terreno morti di ambo le
parti. Solo che oggi abbiamo sempre più spesso donne che nell’attività
malavitosa, si sostituiscono agli uomini uccisi, imprigionati o fuggitivi;
oppure ad istigare altri familiari o componenti delle bande a vendicarsi, quindi
abbiamo donne di mafia, di camorra, di ‘ndrangheta, di faide familiari,
ecc.
Al contrario di s. Rita che pur di spezzare l’incipiente faida creatasi,
chiese a Dio di riprendersi i figli, purché non si macchiassero a loro volta
della vendetta e dell’omicidio.
S. Rita è un modello di donna adatto per i
tempi duri. I suoi furono giorni di un secolo tragico per le lotte fratricide,
le pestilenze, le carestie, con gli eserciti di ventura che invadevano di
continuo l’Italia e anche se nella bella Valnerina questi eserciti non
passarono, nondimeno la fame era presente.
Poi la violenza delle faide locali
aggredì l’esistenza di Rita Lottius, distruggendo quello che si era costruito;
ma lei non si abbatté, non passò il resto dei suoi giorni a piangere, ma ebbe il
coraggio di lottare, per fermare la vendetta e scegliere la pace. Venne
circondata subito di una buona fama, la gente di Roccaporena la cercava come
popolare giudice di pace, in quel covo di vipere che erano i Comuni medioevali.
Esempio fulgido di un ruolo determinante ed attivo della donna, nel campo
sociale, della pace, della giustizia.
Ormai libera da vincoli familiari, si
rivolse alle Suore Agostiniane del monastero di S. Maria Maddalena di Cascia per
essere accolta fra loro; ma fu respinta per tre volte, nonostante le sue
suppliche. I motivi non sono chiari, ma sembra che le Suore temessero di essere
coinvolte nella faida tra famiglie del luogo e solo dopo una riappacificazione,
avvenuta pubblicamente fra i fratelli del marito ed i suoi uccisori, essa venne
accettata nel monastero.
Per la tradizione, l’ingresso avvenne per un fatto
miracoloso, si narra che una notte, Rita come al solito, si era recata a pregare
sullo “Scoglio” (specie di sperone di montagna che s’innalza per un centinaio di
metri al disopra del villaggio di Roccaporena), qui ebbe la visione dei suoi tre
santi protettori già citati, che la trasportarono a Cascia, introducendola nel
monastero, si cita l’anno 1407; quando le suore la videro in orazione nel loro
coro, nonostante tutte le porte chiuse, convinte dal prodigio e dal suo sorriso,
l’accolsero fra loro.
Quando avvenne ciò Rita era intorno ai trent’anni e
benché fosse illetterata, fu ammessa fra le monache coriste, cioè quelle suore
che sapendo leggere potevano recitare l’Ufficio divino, ma evidentemente per
Rita fu fatta un’eccezione, sostituendo l’ufficio divino con altre
orazioni.
La nuova suora s’inserì nella comunità conducendo una vita di
esemplare santità, praticando carità e pietà e tante penitenze, che in breve
suscitò l’ammirazione delle consorelle. Devotissima alla Passione di Cristo,
desiderò di condividerne i dolori e questo costituì il tema principale delle sue
meditazioni e preghiere.
Gesù l’esaudì e un giorno nel 1432, mentre era in
contemplazione davanti al Crocifisso, sentì una spina della corona del Cristo
conficcarsi nella fronte, producendole una profonda piaga, che poi divenne
purulenta e putrescente, costringendola ad una continua segregazione.
La
ferita scomparve soltanto in occasione di un suo pellegrinaggio a Roma, fatto
per perorare la causa di canonizzazione di s. Nicola da Tolentino, sospesa dal
secolo precedente; ciò le permise di circolare fra la gente.
Si era talmente
immedesimata nella Croce, che visse nella sofferenza gli ultimi quindici anni,
logorata dalle fatiche, dalle sofferenze, ma anche dai digiuni e dall’uso dei
flagelli, che erano tanti e di varie specie; negli ultimi quattro anni si cibava
così poco, che forse la Comunione eucaristica era il suo unico sostentamento e
fu costretta a restare coricata sul suo giaciglio.
E in questa fase finale
della sua vita, avvenne un altro prodigio, essendo immobile a letto, ricevé la
visita di una parente, che nel congedarsi le chiese se desiderava qualcosa della
sua casa di Roccaporena e Rita rispose che le sarebbe piaciuto avere una rosa
dall’orto, ma la parente obiettò che si era in pieno inverno e quindi ciò non
era possibile, ma Rita insisté.
Tornata a Roccaporena la parente si recò
nell’orticello e in mezzo ad un rosaio, vide una bella rosa sbocciata, stupita
la colse e la portò da Rita a Cascia, la quale ringraziando la consegnò alle
meravigliate consorelle.
Così la santa vedova, madre, suora, divenne la santa
della ‘Spina’ e la santa della ‘Rosa’; nel giorno della sua festa questi fiori
vengono benedetti e distribuiti ai fedeli.
Il 22 maggio 1447 Rita si spense,
mentre le campane da sole suonavano a festa, annunciando la sua ‘nascita’ al
cielo. Si narra che il giorno dei funerali, quando ormai si era sparsa la voce
dei miracoli attorno al suo corpo, comparvero delle api nere, che si annidarono
nelle mura del convento e ancora oggi sono lì, sono api che non hanno un
alveare, non fanno miele e da cinque secoli si riproducono fra quelle
mura.
Per singolare privilegio il suo corpo non fu mai sepolto, in qualche
modo trattato secondo le tecniche di allora, fu deposto in una cassa di
cipresso, poi andata persa in un successivo incendio, mentre il corpo
miracolosamente ne uscì indenne e riposto in un artistico sarcofago ligneo,
opera di Cesco Barbari, un falegname di Cascia, devoto risanato per
intercessione della santa.
Sul sarcofago sono vari dipinti di Antonio da
Norcia (1457), sul coperchio è dipinta la santa in abito agostiniano, stesa nel
sonno della morte su un drappo stellato; il sarcofago è oggi conservato nella
nuova basilica costruita nel 1937-1947; anche il corpo riposa incorrotto in
un’urna trasparente, esposto alla venerazione degli innumerevoli fedeli, nella
cappella della santa nella Basilica-Santuario di S. Rita a Cascia.
Accanto
al cuscino è dipinta una lunga iscrizione metrica che accenna alla vita della
“Gemma dell’Umbria”, al suo amore per la Croce e agli altri episodi della sua
vita di monaca santa; l’epitaffio è in antico umbro ed è di grande interesse
quindi per conoscere il profilo spirituale di S. Rita.
Bisogna dire che il
corpo rimasto prodigiosamente incorrotto e a differenza di quello di altri
santi, non si è incartapecorito, appare come una persona morta da poco e non
presenta sulla fronte la famosa piaga della spina, che si rimarginò
inspiegabilmente dopo la morte.
Tutto ciò è documentato dalle relazioni
mediche effettuate durante il processo per la beatificazione, avvenuta nel 1627
con papa Urbano VIII; il culto proseguì ininterrotto per la santa chiamata “la
Rosa di Roccaporena”; il 24 maggio 1900 papa Leone XIII la canonizzò
solennemente.
Al suo nome vennero intitolate tante iniziative assistenziali,
monasteri, chiese in tutto il mondo; è sorta anche una pia unione denominata
“Opera di S. Rita” preposta al culto della santa, alla sua conoscenza, ai
continui pellegrinaggi e fra le tante sue realizzazioni effettuate, la cappella
della sua casa, la cappella del “Sacro Scoglio” dove pregava, il santuario di
Roccaporena, l’Orfanotrofio, la Casa del Pellegrino.
Il cuore del culto
comunque resta il Santuario ed il monastero di Cascia, che con Assisi, Norcia,
Cortona, costituiscono le culle della grande santità umbra.
San Valentino Vescovo di Terni
Sulla vita di San Valentino, protettore degli innamorati, si hanno notizie che spesso si mescolano e confondono con la leggenda. Le fonti non aiutano a comporre un quadro unitario sulla figura di questo santo, stando infatti a due importanti fonti agiografiche sembra che si possano annoverare ben due San Valentino: il primo, commemorato nel Martirologio Romano, martire di Roma e il secondo, commemorato nel Martirologio Geronimiano, martire di Terni. Essendo le due
agiografie molto simili, è probabile, così come molti
sostengono, che sia esistito un solo martire Valentino. È
verosimile,
infatti, che il martire dì Roma non sia mai esistito e che sia nato dalla falsa interpretazione contenuta nel Catalogo Liberiano che riporta notizia, nella biografia di papa Giulio I, della costruzione di una basilica al secondo miglio della via
Flaminia dedicata a Valentino. Il Valentino citato nella fonte altri
non sarebbe se non il benefattore che offrì al papa il
sostegno economico per l'edificazione della basilica e questi, in segno
di riconoscimento, gli dedicò la chiesa. Solo nei secoli successivi, così come accadde per molte altre persone che edificarono chiese, il "benefattore" Valentino fu venerato come santo.
San Valentino vescovo di Terni, fu arrestato per ordine del prefetto Placido mentre era a Roma, rifiutatosi di sacrificare agli idoli, fu decapitato e sepolto al LXIII miglio della via Flaminia, nei pressi di Terni. Sul suo sepolcro fu poi edificata una basilica.
L'attuale
basilica fu iniziata, sui resti di quelle precedenti, nel 1606; tre
anni dopo fu officiata e nel 1618 vi fu riportato il corpo del santo.
La più antica testimonianza che abbiamo di San Valentino si trova nel Martirologio Geronimiano compilato probabilmente tra il 460 e il 544. In questo prezioso documento già compare l'anniversario della morte di San Valentino a Terni: il 14 febbraio.
Questo fatto, considerando che il Geronimiano fu compilato su calendari preesistenti, ci dimostra come la festa di San Valentino era già registrata nel calendario e probabilmente anche in martirologi "locali".
Dalla Passio Sancti Valentini, compilata in Roma nel Vi o più probabilmente nel V sec., traiamo molte notizie intorno alla via di San Valentino e, pur chiedendoci dove sia il limite che separa la storia dalla leggenda, non possiamo non ritenere attendibili molte di tali notizie.
La Passia racconta che San Valentino, "Interamnensis episcopus", "civis
Interamnis urbis", divenuto famoso per la santità della sua
vita, per la sua grande carità ed umiltà, per l'indefesso
suo apostolato, per i molti miracoli che compiva, venne invitato a Roma da un certo Cratone, oratore greco e latino, perché
gli guarisse il figlio Cheremone, infermo da tre anni. Guarito il
govane, lo convertì al cristianesimo insieme a tutta la sua
famiglia ed ai greci studiosi di lettere latine Procolo, Efebo, Apollonio e ad Abondio, figlio del prefetto della città; imprigionato, venne, di notte, decapitato in Roma per ordine del prefetto Furius Placidus.
Il suo corpo fu devotamente trasportato a Terni e sepolto nel suburbano presso la città, dai discepoli Procolo, Efebo e Apollonio, i quali anch'essi vennero decapitati per ordine del console Leonzio e sepolti da Abondio vicino a San Valentino; in questo luogo sorse poi un grande cimitero cristiano.
Non
apparendo nella Passio il nome dell'imperatore sotto il quale San
Valentino subì il martirio, non si può con certezza
datare l'anno della sua morte, che è stata variamente attribuita
al 270, sotto l'imperatore Claudio II il Gotico, o al 273;
quest'ultima data sembra però essere la più attendibile,
in quanto in tale anno appare quale prefetto della città un
Furius Placidus, essendo imperatore Aureliano.
Nella Passione di San Feliciano, vescovo di Forum Flaminii, si legge che San Valentino sarebbe stato ordinato vescovo di Terni nel 197 col permesso di Papa Vittore, dallo stesso San Feliciano; San Giovenale, vescovo di Narni, come risulta dalla sua vita, avrebbe eretto un oratorio nella sua città, in onore di san Valentino.
San Valentino divenne poi, nel 1643, Patrono di Terni, dove è venerato il 14 febbraio.
San Ponziano da Spoleto
San Ponziano protettore dai terremoti è il patrono della città di
Spoleto.
Secondo la tradizione era un giovane di Spoleto che subì il martirio
tra il 156 ed il 165.
Fu sepolto poco fuori della città, sulla sua tomba fu
poi eretta una basilica ed un monastero.
Il vescovo belga Baldrigo ottenne
nel 968 un braccio del Santo che portò a Utrecht, ove fu invocato come
patrono.
San Ponziano è invocato in occasione dei terremoti poiché la prima
delle terribili scosse di terremoto che per circa 20 anni a partire dal 1703
funestarono l'Umbria meridionale, si ebbe la sera della sua festa ed a Spoleto
non ci furono vittime. Secondo la tradizione una scossa di terremoto avrebbe
accompagnato anche la sua decapitazione, e gli venne riferita una profezia:
"Spoleto tremerà, ma non cadrà".
La chiesa di San Ponziano si trova appunto
appena fuori città. Fu eretta in età romanica in onore del giovane spoletino
protettore della città, qui sepolto forse nel 175
Beato Angelo da Gualdo Tadino
Angelo nasce verso il 1270 a Casale , una piccola frazione in mezzo alle campagne gualdesi,
da Ventura e Chiara, umili contadini. Rimane molto presto orfano di padre e
quindi la madre è costretta a lavorare molto per mandare avanti il piccolo
nucleo familiare. Il giovane ragazzo già di animo dolce e altruista si preoccupa
dei ragazzi più poveri di lui per i quali rinuncia al suo pane per sfamarli.
La leggenda racconta che un giorno, dopo un acceso diverbio con la madre,
perché il ragazzo sottraeva il pane da casa per darlo ai poveri, Angelo la
maledice ed esce di casa per andare a lavorare nei campi. La sera, di ritorno
dai campi, sente le campane della chiesa suonare a morto, corre in casa e trova
la madre che giace morta sul letto. Questo episodio cambia la vita del giovane
Angelo, sopraffatto dal rimorso, sentendosi responsabile di ciò che era capitato
alla madre, decide di partire come pellegrino verso il monastero di
San Giacomo, in Spagna. Di ritorno
dal lungo viaggio decide di farsi monaco nella vicina Abbazia di San
Benedetto a Gualdo Tadino, dove resterà per qualche tempo. Presto però sente
l'esigenza di vivere in stretto contatto con Dio ed ottiene il permesso di
condurre una vita eremitica presso l'eremo
detto di Capodacqua dove resterà fino alla morte. Il 15 gennaio 1324,
mentre le campane dell’abbazia di San Benedetto suonavano da sole, Angelo venne
trovato morto. Si racconta che al passaggio della salma di Angelo, lungo la
strada che conduceva al convento di San Benedetto, le siepi di biancospino e i
campi di lino fiorirono miracolosamente.
Beata Angela da Foligno
Angela nacque nel il 1248 in una famiglia benestante di Foligno, si sposò in giovane età e trascorse una vita
"selvaggia, adultera e sacrilega" . Dopo una giovinezza della
quale non conosciamo praticamente nessun particolare, Angela si convertì tramite
una confessione al cappellano del vescovo in una data che gli studiosi collocano
all'incirca verso il 1285. Dopo la morte del marito, dei figli e della madre,
entrò nel Terz'ordine Francescano nel 1291(altra data ipotetica), vivendo
sull'esempio di Francesco d'Assisi in penitenza e nella
radicale imitazione di
Per verificare le sue esperienze mistiche iniziò a confidarsi con un frate A.
(che la tradizione riconosce in un suo parente, frate Arnaldo). Egli stese un
Memoriale, da sottoporre ad esperti tra cui il cardinale Giacomo Colonna, che
l'approvò prima del 1297. Questa "autobiografia spirituale" mostra i trenta
passi che l'anima compie raggiungendo l'intima comunione con Dio, attraverso la meditazione dei misteri di Cristo, l'Eucaristia, tentazioni e
penitenze.
Angela da Foligno morì il 4 gennaio 1309 (come è scritto in uno dei diversi
codici manoscritti del "Liber" e venne da sempre venerata con il titolo di Beata
e Magistra Theologorum (Maestra dei Teologi). Il suo corpo riposa nella
Chiesa di San Francesco e Santuario della Beata Angela a Foligno.
San
Costanzo Vescovo di Perugia
San Costanzo fu il primo vescovo di Perugia, martirizzato al tempo dell'imperatore Marco Aurelio. Durante la
IV persecuzione dell'Impero Romano nei confronti della Chiesa,
Costanzo morì il 29 gennaio a
Foligno per mano di alcuni soldati
mentre si recava al cospetto di Marco Aurelio, che in quei giorni si trovava a
Spoleto. Fu condotto davanti al
console Lucio e barbaramente flagellato, indi immerso nell'acqua bollente, da
dove uscì miracolosamente illeso. Ricondotto in carcere, convertì i suoi custodi
e fu fatto fuggire. Rifugiatosi a casa di Anastasio, cristiano, fu con questo di
nuovo arrestato e decapitato nella città di Foligno.
Alla intercessione di san Costanzo furono attribuiti due miracoli: una donna
affetta da completa cecità si fece portare ai piedi del santo per ricevere la
benedizione e implorare aiuto. Dopo la sua benedizione, si dice che la donna
riacquistò completamente la vista. Il secondo miracolo riguarda un nobile
perugino di nome Crescenzio, sofferente da molti anni di inguaribile paralisi
alle estremità inferiori. Anch'egli sospinto da viva fede, andò da Costanzo e,
avuta la benedizione, subito fu risanato. Nel 311 venne costruita la chiesa a lui dedicata, a Perugia, e
si cominciò a venerare pubblicamente san Costanzo.
La leggenda vuole che ogni anno, durante la festa di San Costanzo, le ragazze
nubili vadano nella chiesa di San Costanzo per chiedere se si sposeranno entro
l'anno: guardando il gioco di luci riflesse sull'immagine del santo, se si avrà
l'impressione che san Costanzo ha fatto l'occhiolino, significa che le
nozze ci saranno, altrimenti, per consolazione, il fidanzato regalerà alla
ragazza il tipico dolce, il "Torcolo di San Costanzo".
Santa Chiara di Montefalco
Nasce da Damiano e Iacopa in una zona vicina al "Castellare" in prossimità
della chiesa di San Giovanni Battista (concessa nel 1275 dal Comune agli agostiniani e da questi ricostruita e
dedicata a sant'Agostino) a Montefalco, una piccola
cittadina umbra che domina la valle spoletana. Chiara ha una sorella e un
fratello maggiori, Giovanna e Francesco. Giovanna fonda, con l'aiuto economico
del padre, il reclusorio di san Leonardo, di cui diventa la prima
rettrice; le donne lì si ritirano vivendo rinchiuse e pregando, ispirandosi alla
regola (ancora non pienamente riconosciuta al tempo) di Francesco d'Assisi.
La piccola Chiara resta segnata dal modello che la famiglia le propone e,
all'età di sei anni, entra nel "reclusorio" di Giovanna intitolato a San
Leonardo, dove trascorre i successivi sette anni.
Cresciuta la comunità, Giovanna e le donne del reclusorio si trasferiscono
sul Colle di Santa Caterina del Bottaccio, non lontano dal luogo più antico, in
un edificio ancora incompleto. Ma il nuovo insediamento, che sottintende la
costruzione di un vero e proprio monastero, non viene accolto pacificamente in
città. Affiancandosi ad altri tre monasteri più antichi, uno francescano, uno
agostiniano e un altro benedettino, il reclusorio di Giovanna viene ritenuto
dannoso per Montefalco, perché si va ad aggiungere alle altre comunità che già
vivevano di elemosina, e quindi si
tenta di convincere le donne a desistere dai loro progetti. Nel 1290 Giovanna chiede al Vescovo di Spoleto di facilitare l'istituzionalizzazione della
comunità, in seguito a cui verrà introdotta la regola di sant'Agostino, la quale, al
contrario di quella francescana, era pienamente riconosciuta. Con il nuovo
monastero della Santa Croce e di Santa Caterina d'Alessandria, vengono a
fondersi i due momenti della storia di queste donne: quello della vocazione
eremitica, rappresentato dall'esperienza del reclusorio, con l'altro della
regola monastica; Giovanna ne diventa badessa, rimanendo l'insediamento sotto la
diretta giurisdizione del Vescovo.
Chiara cresce seguendo le sorti di questo luogo; soltanto in occasione della
grande carestia del 1283, insieme a un'altra
compagna, esce dal reclusorio per la questua, ma dopo otto uscite le viene
impedito di continuare; da questo momento, fino alla morte, rimane isolata in
clausura.
Dopo la morte di Giovanna la sorella, nonostante la giovane età (23 anni), ne
prende il posto. Chiara fu per le sue suore "madre, maestra e direttrice
spirituale". Non lascia scritti eppure, nonostante che la sua vita si dipani
nella stretta osservanza della regola monastica, riesce a mantenere un dialogo
con il mondo fuori dal monastero. Personaggi illustri come i cardinali Giacomo e
Pietro Colonna, Napoleone Orsini, il francescano Ubertino da Casale e tanti
altri si rivolgono a Chiara per consigli in materia spirituale. Le sue parole
sono descritte come "un fuoco, da cui venivano illuminate, consolate ed accese
le menti di tutti coloro che l'ascoltavano". Sapeva dunque parlare non solo alla
gente comune, attirata dalla sua fama taumaturgica, ma anche a personaggi
illustri, che ne ammiravano le virtù oratorie, considerate profetiche, e la sua
intelligenza.
Nel 1307 Bentivegna
da Gubbio, a capo del movimento dello "Spirito di Libertà", separatosi dai
Fratelli
del Libero Spirito, tenta di convincere Chiara ad unirsi al suo movimento
spirituale, ma dopo una serie di discussioni e confronti, Chiara lo rinnega e
infine lo denuncia come eretico alle autorità clericali.
Nel 1303 promuove l'ampliamento del
monastero e la costruzione della chiesa di Santa Croce con l'approvazione del
Vescovo di Spoleto che invia la prima pietra benedetta. È qui che, dopo cinque
anni, nel 1308, Chiara, ormai ammalata, vuole essere trasportata per poi morirvi
e trovarvi sepoltura.
Dopo la sua morte il Comune di Montefalco sentì l'esigenza di certificare
l'esemplarità della vita di Chiara in un documento con le testimonianze di chi
le fu più vicino. Con questo intento il suo corpo venne aperto alla ricerca di
segni prodigiosi che potessero testimoniare quell'esemplarità che aveva espresso
per tutta la vita. Si tramanda, tra i credenti, che nel suo cuore si trovavano
un crociffisso e un flagello, e nella cistifellea tre globi, di eguale misura,
peso e colore, disposti a forma di triangolo, interpretati come il simbolo della
Trinità, il che venne considerato
come il segno cercato.
La chiesa attuale del monastero di santa Chiara da Montefalco (ricostruita
tra il 1615 e il 1643) conserva il corpo della Santa dentro un'urna
d'argento massiccio. Ai lati, entro due nicchie aperte nel 1718, si conservano come reliquie di Chiara i segni
rinvenuti durante l'autopsia. L'oggetto più suggestivo è probabilmente il
busto reliquiario d'argento che la raffigura e contiene i resti del suo
cuore; nell'altra nicchia si trova la croce reliquiario, contenente i tre
globi di uguale grandezza che i devoti credono provenienti dalla cistifellea, e
il crocifisso e il flagello, che secondo i devoti conservava nel cuore.
Con la morte di Giovanni XXII (1334) il processo di canonizzazione di Chiara non ebbe
seguito. Verrà ripreso soltanto nel XIX secolo per iniziativa di Pio IX e sarà proclamata Santa da Leone XIII nel
1881.
Santa Giovanna da Orvieto
Giovanna da Orvieto, nota come Vanna, nata a Cornaiola nel 1264, rimase orfana
in tenerissima età e, mossa da un celeste istinto, si affidò tutta alla custodia
degli Angeli di cui sentiva l'amorosa tutela.
A dieci anni si consacrò a
Gesù e già anelava a una vita di completa dedizione a Lui.
Essa intanto
cresceva bella e graziosa, mentre andava maturando in cuore il disegno di
entrare nel Terz'Ordine di S. Domenico, allora in fiore, e i cui membri
vestivano pubblicamente l'Abito e conducevano vita religiosa, senza però
lasciare le rispettive case.
Accortisi del suo divisamento, i parenti, con i
quali Giovanna viveva, e che l'avevano già promessa a un ricco giovane del
paese, si mostrarono oltre modo sdegnati e cominciarono ad ostacolarla in tutti
i modi.
La giovinetta allora, lasciata Carnaiola, si rifugiò nella vicina
Orvieto, ove altri parenti la ospitarono offrendole una cameretta solitaria e la
libertà di servire Dio. Giovanna, che aveva all'epoca solo 14 anni, poté così
ricevere il bianco Abito dell'Ordine. La sua vita fu una mirabile ascesa nelle
più eroiche vie dell'amore.
Favorita da altissima contemplazione s'internava
con tanta tenerezza nei misteri della Passione di Gesù, da meritarne la dolorosa
partecipazione. Negli ultimi dieci anni della sua vita, tutti i venerdì, entrata
in estasi, sembrava un crocifisso vivente, e le ossa le si dislogavano con tanto
fragore, come se si frantumassero.
Ai suoi concittadini fu specchio e
maestra di vita cristiana. Dopo la morte, avvenuta il 23 luglio 1306 a Orvieto,
dalla ferita del costato, scaturì vivo sangue e Dio la onorò con molti miracoli.
Papa Benedetto XIV l'11 settembre 1754 ha confermato il culto..
Le
spoglie mortali sono state conservate per secoli sotto uno degli altari della
stupenda chiesa di San Domenico nel centro storico di Orvieto, e sono tornate a
Carnaiola solo nell'estate del 2000, in occasione del Grande Giubileo.
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