Tesi 7 
 IL NODO DEL POTERE

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Un'economia democraticamente pianificata presuppone e richiede la conquista del potere politico da parte delle classi subalterne. Rimuovere la questione del potere, aggirare la questione della sua conquista e della rottura rivoluzionaria dello Stato borghese, significa rimuovere, al di là delle parole, la prospettiva socialista e l'idea stessa di rivoluzione. In questo senso il PRC è chiamato a superare il richiamo gandhiano alla "non violenza" come proprio riferimento culturale.

Nell'ultimo decennio diverse tendenze politico-culturali "neoriformistiche" hanno teso a teorizzare il superamento degli Stati nazionali e del loro potere come corollario del "nuovo capitalismo". Ne è scaturita l'esplicita cancellazione del tema stesso del potere politico e della sua conquista (v. Revelli), in nome del recupero più o meno aggiornato di antiche suggestioni "cooperativistiche", quale leva di "un'altra società possibile". In realtà queste teorie non solo non sviluppano il marxismo ma regrediscono a un premarxismo ingenuo, talora subalterno nelle traduzioni pratiche alle stesse politiche liberiste (v. il ruolo del Terzo settore come frequente surrogato del servizio pubblico e luogo di concentrazione di manodopera flessibile).

Invece natura e crisi del capitalismo contemporaneo e dell'imperialismo ripropongono più che mai il tema dello Stato e del potere come nodo strategico decisivo. Contro l'ipocrisia ideologica del liberismo, gli Stati nazionali e i governi borghesi che li gestiscono sono e restano un supporto decisivo del profitto: sia nella promozione attiva delle politiche di flessibilità, privatizzazione, compressione salariale e di spesa sociale; sia nell'espansione abnorme del sostegno finanziario diretto al capitale in crisi come si evince oggi sempre più scopertamente dal nuovo corso della politica economica americana. Ma soprattutto la ripresa del militarismo e le politiche di restrizioni antidemocratiche e di repressione diretta sul versante interno dell'ordine pubblico -connesse alla crisi di consenso sociale- ripropongono oggi più che mai il cuore autentico e profondo della natura dello Stato borghese: quello di "un corpo d'uomini in armi" (Engels) detentore del monopolio della violenza: contro i popoli oppressi del mondo e contro le classi subalterne nelle stesse metropoli imperialistiche. L'esperienza della repressione di Genova ne è un manifesto vissuto. Come lo sono le politiche di terrore dispiegate dall'imperialismo, in tempi di guerra come "di pace".

Nessun nuovo ordine sociale, nessun socialismo, potrà affermarsi all'ombra dell'apparato dominante dello Stato borghese. Né è pensabile che quell'apparato possa essere strumento delle classi subalterne nella transizione ad una società di liberi e di eguali. Al contrario la rottura dell'apparato statale e il suo rovesciamento rappresentano la condizione necessaria di un processo di liberazione sociale. In questo senso la rottura dell'apparato statale borghese è il principio fondante della concezione stessa della rivoluzione. E viceversa l'evocazione della categoria della rivoluzione fuori dal richiamo strategico alla rottura rivoluzionaria con lo Stato si riduce ad una "frase scarlatta" priva di ogni contenuto reale.

Il PRC è dunque chiamato a superare il richiamo gandhiano alla "non violenza" come principio culturale di riferimento. In primo luogo questo riferimento, coerentemente assunto, costituirebbe un atto di rottura con la storia stessa della lotta di classe come leva universale del progresso: ed in particolare con due secoli di lotta del movimento operaio e dei popoli oppressi contro il capitalismo e l'imperialismo. L'esercizio della forza delle classi subalterne ha costituito e costituisce nella storia del mondo un ricorso spesso insostituibile per difendere o conquistare libertà democratiche elementari, diritti sindacali, conquiste sociali, autodeterminazioni nazionali. Equiparare la violenza delle classi dominanti e la violenza delle classi subalterne in nome di un indistinto rifiuto della "violenza" in generale, significherebbe attestarsi su un pacifismo metafisico. Ma soprattutto la metafisica della "non violenza" costituisce un fattore di rottura con la prospettiva stessa della rivoluzione. L'apparato dello Stato borghese si è sempre contrapposto e si contrapporrà sempre con tutti i mezzi disponibili, alla prospettiva di emancipazione delle classi subalterne. E questo tanto più nell'epoca dell'imperialismo, del rilancio del militarismo, del diffuso rafforzamento delle tendenze repressive (v. Genova). Per questo il problema della forza resta inscritto, in tutta la sua complessità, nell'orizzonte strategico della rivoluzione. Pensare di eluderlo attraverso il richiamo filosofico alla "non violenza" significherebbe riproporre vecchie illusioni riformistiche che grandi masse e i comunisti stessi hanno già pagato a caro prezzo: come nel Cile del 1973. Forte naturalmente è la denuncia delle teorie e pratiche del terrorismo, così come, su un piano diverso, di culture e pratiche violentiste di tipo nichilistico-distruttivo (Black Block). Ma questa denuncia va mossa non da un'angolazione pacifista, tantomeno da un'identificazione nello Stato o nella sua azione repressiva, bensì da un'angolazione rivoluzionaria: da una politica protesa a costruire nelle lotte di classe la consapevolezza profonda della necessità strategica della rivoluzione come processo di massa, e proprio per questo irriducibilmente avversa a forme d'azione che invece rafforzano lo Stato, danneggiano i movimenti, distorcono l'identità stessa della prospettiva rivoluzionaria nella percezione della maggioranza dei lavoratori e dei giovani.