Tesi 2 
CRISI CAPITALISTICA E "GLOBALIZZAZIONE"

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Le tesi emergenti negli anni Novanta circa la nascita di "un nuovo capitalismo" capace di superare le sue antiche contraddizioni, sono state smentite dalla realtà. La crisi economica capitalistica ripropone più che mai l'attualità della lettura marxista della "globalizzazione" fuori da ogni "apologia" del capitale.

Negli anni Novanta -sullo sfondo del crollo dell'URSS, dell'arretramento del movimento operaio, della prosperità economica USA, di una vasta innovazione tecnologica- è venuta affermandosi una rappresentazione dominante della realtà del mondo come "globalizzazione", spesso intendendo con questo termine l'emergere di un "nuovo capitalismo", strutturalmente diverso dal capitalismo "tradizionale" e per questo capace di superare le proprie vecchie contraddizioni. Nella versione liberista il mito della globalizzazione è stato impugnato come annuncio di una nuova era di prosperità. Nella versione opposta di tanta parte del pensiero critico alternativo come l'avvento di una nuova dominazione totalizzante. Nell'un caso come nell'altro il nuovo capitalismo è stato presentato come l'alba di un nuovo regno e come riprova del fallimento o dell'invecchiamento della lettura marxista.

Queste rappresentazioni ideologiche hanno per molti aspetti capovolto la realtà delle cose: e la realtà ha finito col confutarle.

L'economia capitalistica internazionale vive da un quarto di secolo un'onda lunga di crisi, segnata dall'esaurimento storico della spinta propulsiva del secondo dopo-guerra e dal prevalere di una spinta alla stagnazione. La caduta del saggio medio del profitto su scala mondiale ne rappresenta il riflesso.

A partire dall''89-'91, il crollo dell'URSS e i processi di restaurazione capitalistica che si sono affermati nell'insieme dell'Est europeo, assieme alle emergenti tendenze restaurazionistiche che si sono sviluppate in altri Paesi non capitalistici (Cina) hanno configurato certamente un processo di ricomposizione capitalistica dell'unità del mondo. Ma la riconquista compiuta o tendenziale, di tanta parte del pianeta non ha significato il rilancio storico dell'economia capitalistica. L'Est europeo, più che volano di un nuovo sviluppo economico internazionale, rappresenta in larga misura una semicolonia del sottosviluppo: la massiccia concentrazione di miseria sociale e il basso livello di consumi che ne deriva rappresentano un freno all'espansione del mercato capitalistico. Parallelamente la forte riduzione dei margini di manovra dei Paesi dipendenti, conseguente al crollo dell'URSS, ha finito con l'integrarli più direttamente nella stagnazione mondiale: così il sottoconsumo del Terzo mondo sospinto dal calo o dal crollo delle materie prime ha costituito un ulteriore fattore della stagnazione medesima. Complessivamente, nonostante l'espansione del mercato capitalistico, il peso del commercio internazionale nell'economia mondiale è analogo a quello del 1914. Così nonostante i nuovi processi di decentramento internazionale della produzione, le stesse multinazionali concentrano tuttora il grosso del proprio volume di investimenti entro il perimetro degli Stati dominanti e dei propri mercati regionali piuttosto che in un mondo indifferenziato. La globalizzazione economica dunque ha investito essenzialmente non la produzione reale ma l'economia finanziaria, dove ha realmente raggiunto un livello storicamente nuovo: ma proprio l'espansione abnorme del parassitismo finanziario -che conferma oltre le sue stesse previsioni, l'analisi di Lenin dell'imperialismo- riflette la crisi del saggio medio di profitto nella produzione. Come all'inizio del Novecento lungi dall'essere misura della prosperità capitalistica, il parassitismo dei rentier è figlio della crisi di stagnazione e concausa della stessa.

La forte concentrazione di innovazione tecnologica (rivoluzione informatica) e la diffusione di nuove forme di organizzazione del lavoro (il cosiddetto toyotismo) si collocano e si spiegano in questo contesto. Come in altre epoche storiche (si pensi allo sviluppo del fordismo negli anni Venti-Trenta), l'innovazione tecnologica intensa e le nuove sperimentazioni nell'organizzazione produttiva non promanano dal benessere del capitalismo ma dalla sua crisi: come tentativo di rilancio del saggio di profitto attraverso l'incremento di produttività e la configurazione di nuovi mercati trainanti. Ma contrariamente all'ottimismo borghese degli anni Novanta, la rivoluzione informatica e le sue applicazioni tecnologiche, per quanto rilevanti non hanno esercitato la forza di trascinamento economico che potevano avere, in un altro contesto, le ferrovie del secolo scorso o l'automobile degli anni Cinquanta. Non solo non hanno garantito l'uscita dalla stagnazione ma, oltre una certa soglia, hanno concorso paradossalmente ad aggravarla: la crisi profonda della new economy oggi nel cuore del capitalismo americano, è esattamente un'espressione classica di sovrapproduzione i cui effetti recessivi più generali sono direttamente proporzionali all'intensità dello sviluppo economico precedente del settore. La teoria di un "nuovo capitalismo" capace di superare il ciclo economico non poteva trovare smentita più clamorosa.