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In un'epoca tanto mutata, l'innovazione è una necessità vitale. Soprattutto per una forza, come il Prc, che punta su una radicale rifondazione della politica, fondata sulla priorità dei contenuti, il rapporto con i movimenti, la crescita dei soggetti sociali, rispetto alla tradizionale centralità delle alleanze e dei ruoli istituzionali. In questo senso, la rottura con il governo Prodi è stata una tappa del percorso della rifondazione.
Se le analisi fin qui svolte hanno un fondamento, siamo dunque
all'interno di un ciclo tanto nuovo e complesso, che non è possibile
affrontarlo soltanto con strumenti tradizionali e con il patrimonio
teorico fin qui accumulato. L'innovazione è una necessità primaria,
nel metodo e nei contenuti. Per noi, essa, all'opposto delle mode
"nuoviste" di questi anni, resta legata ad un'ispirazione
rigorosamente anticapitalistica e di classe. Ma, allo stesso tempo,
essa deve affrontare, senza confini precostituiti, la verifica delle
ipotesi politiche e dei paradigmi generali. In sostanza: innovare
significa uscire risolutamente da ogni atteggiamento di difesa e di
resistenza, valori tutt'ora essenziali ma insufficienti, da soli,
allo sviluppo di una forza di alternativa.
Rifondazione
comunista, del resto, ha superato il guado dei dieci anni di vita
politica anche e soprattutto perché non è stata la guardiana di un
passato quand'anche glorioso, ma una forza in costante tensione
innovativa, sia pure con limiti grandi e risultati parziali. Questa
tensione si è espressa su due terreni, tra di loro strettamente
correlati: da un lato, il primato dei contenuti sugli schieramenti;
dall'altro lato, una pratica politica che ha costantemente
privilegiato la centralità della "questione sociale". In un senso
preciso, la battaglia di Rifondazione comunista, in questi dieci
anni, è stata un contributo attivo alla vitalità della politica,
contro la separatezza crescente tra il "cittadino astratto" e gli
uomini e le donne reali. Ne sono esempi significativi l'assunzione
di obiettivi, normalmente classificati come "sindacali", prospettati
invece - nel loro intreccio con la contraddizione di genere, con l'ambientalismo e il pacifismo - nella loro funzione sociale e
politica generale e perfino di civiltà: esemplari, da questo punto
di vista, le rivendicazioni per la riduzione d'orario, il salario,
le pensioni, il "salario sociale".
Sul terreno politico e
istituzionale, nacque in questa logica di non separazione tra
"questione sociale" e "questione democratica" il primo conflitto con
la sinistra moderata, quando, nel '95, Rifondazione comunista si
rifiutò di appoggiare il governo Dini. Qui, ancora, si colloca la
scelta più rilevante di questi anni: la rottura del '98 con il
governo Prodi, e l'opposizione ai successivi centrosinistra di D'Alema e Amato. Non è stato il risultato di un'antica (o mai
sopita) propensione di fuga dalle "responsabilità"
politico-istituzionali, e neppure il frutto, semplicemente, di una
coerenza politica e politico-morale: ma una tappa del percorso della
rifondazione comunista. Uno strappo, cioè, rispetto allo schema
consolidato, a sinistra, secondo il quale un compromesso, pur
insoddisfacente, è comunque sempre preferibile alla rottura, se e
quando la rottura non prefiguri un equilibrio politico "più
avanzato". E una risposta, sia pure in nuce, alla necessità di
ricostruire una politica non separata dalle soggettività e dai
bisogni sociali, come impongono i processi attuali di
globalizzazione, di espansione onnivora dell'economico, di drastica
riduzione dei poteri effettivi dei governi nazionali.
In questa
chiave, l'innovazione può e deve esercitarsi sulla concezione (e
sulla pratica) che ha influenzato in profondità la sinistra
italiana, tanto da risultare egemone nei gruppi dirigenti del Pci,
del Psi e di parte della "nuova sinistra" degli anni '70: la
politica istituzionale come sfera privilegiata e sovraordinatrice
della politica stessa, come momento costitutivo dell'identità dei
soggetti sociali e delle classi subalterne, come "inveramento" della
funzione stessa del Partito.
Non sono in discussione, sia
chiaro, né la necessità né l'utilità della battaglia democratica
nelle istituzioni, nelle assemblee elettive, in generale nella sfera
della rappresentanza. Né si tratta di coltivare astratte e sbagliate
propensioni extraparlamentari. Si tratta di operare uno spostamento
del fuoco della centralità politica dal livello dello Stato, delle
istituzioni e delle forze organizzate alla dinamica delle forze
sociali, di movimento e delle lotte di massa, in coerenza con i
mutamenti della società, dei nuovi bisogni di massa, e fuori dai
vincoli di eredità pur importanti, come quella togliattiana.
In
molte fasi della storia italiana, antiche e perfino recenti,
l'iniziativa istituzionale ha mantenuto una connessione positiva con
i processi sociali, strappando risultati significativi, spostando in
avanti i rapporti di forza, agendo come momento effettivo di
ricomposizione sociale e culturale. Ma oggi questa connessione
organica è spezzata, così come si è spezzato il rapporto automatico
tra collocazione sociale subalterna e scelta a sinistra. Così come
non agisce più, nella realtà, un'onda lineare di progresso,
emancipazione, formazione della coscienza. Oggi, la politica
prevalente è ridotta o ad ancella dei poteri e degli interessi
forti, o a mediazione autoreferenziale: anch'essa, in realtà,
proprio perché va amplificando i propri caratteri oligarchici e
separati, non è "riformabile" dall'interno. L'omologazione, prima
che un rischio della soggettività, è una tendenza forte della
realtà.
Questo richiama la necessità di una battaglia strategica,
di lungo periodo. Un processo di rifondazione della politica, che
sia capace anche di interloquire con le domande di una nuova
generazione, non può dunque che assumere dentro di sé il nodo della
trasformazione sociale, tradizionalmente riservata agli orizzonti
lontani, alla cultura o, per altri versi, a parziali pratiche
sociali . Da un lato, insomma, la trasformazione rivoluzionaria si
pone come la sola risposta davvero credibile che la politica possa
dare: capace cioè di andare alla radice delle contraddizioni del
capitale nella sua fase neoliberista, ma capace anche di collocare
in un'ottica di libertà e liberazione le istanze concrete
dell'antagonismo sociale e di classe . Dall'altro lato, una politica
comunista che non si riduca ad essere la variante estrema dei
contesti istituzionali non può che essere eterodeterminata dagli
interessi o dalle cause sociali che intende rappresentare.
La
rappresentanza del conflitto nelle istituzioni non si può quindi
esaurire nell'attività tradizionale e nella pratica della
"mediazione": è necessario attuare una svolta in cui il tratto
istituzionale del nostro agire sia parte esso stesso delle vertenze
sociali e del movimento. In un contesto innovativo, la nostra
radicata presenza istituzionale può diventare protagonista della
spinta alla trasformazione, nel quadro della lotta alla
globalizzazione capitalista: intersecando il movimento anche sul
terreno delle questioni locali, sia nella proposta del "bilancio
partecipato" sia nella capacità di rilanciare, anche mediante la
pratica della "disobbedienza civile", la lotta alle privatizzazioni
dei servizi e dei diritti, o quella per l' ambiente sano e pulito.
Una pratica istituzionale quindi che ritmando accordi e rotture,
patti e conflitti, compromessi e scontri, assuma una prospettiva -
non lineare - funzionale ai movimenti, ai soggetti del lavoro, alla
crescita delle lotte.