TESI 34 
 L'INNOVAZIONE NECESSARIA

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In un'epoca tanto mutata, l'innovazione è una necessità vitale. Soprattutto per una forza, come il Prc, che punta su una radicale rifondazione della politica, fondata sulla priorità dei contenuti, il rapporto con i movimenti, la crescita dei soggetti sociali, rispetto alla tradizionale centralità delle alleanze e dei ruoli istituzionali. In questo senso, la rottura con il governo Prodi è stata una tappa del percorso della rifondazione.

Se le analisi fin qui svolte hanno un fondamento, siamo dunque all'interno di un ciclo tanto nuovo e complesso, che non è possibile affrontarlo soltanto con strumenti tradizionali e con il patrimonio teorico fin qui accumulato. L'innovazione è una necessità primaria, nel metodo e nei contenuti. Per noi, essa, all'opposto delle mode "nuoviste" di questi anni, resta legata ad un'ispirazione rigorosamente anticapitalistica e di classe. Ma, allo stesso tempo, essa deve affrontare, senza confini precostituiti, la verifica delle ipotesi politiche e dei paradigmi generali. In sostanza: innovare significa uscire risolutamente da ogni atteggiamento di difesa e di resistenza, valori tutt'ora essenziali ma insufficienti, da soli, allo sviluppo di una forza di alternativa.
Rifondazione comunista, del resto, ha superato il guado dei dieci anni di vita politica anche e soprattutto perché non è stata la guardiana di un passato quand'anche glorioso, ma una forza in costante tensione innovativa, sia pure con limiti grandi e risultati parziali. Questa tensione si è espressa su due terreni, tra di loro strettamente correlati: da un lato, il primato dei contenuti sugli schieramenti; dall'altro lato, una pratica politica che ha costantemente privilegiato la centralità della "questione sociale". In un senso preciso, la battaglia di Rifondazione comunista, in questi dieci anni, è stata un contributo attivo alla vitalità della politica, contro la separatezza crescente tra il "cittadino astratto" e gli uomini e le donne reali. Ne sono esempi significativi l'assunzione di obiettivi, normalmente classificati come "sindacali", prospettati invece - nel loro intreccio con la contraddizione di genere, con l'ambientalismo e il pacifismo - nella loro funzione sociale e politica generale e perfino di civiltà: esemplari, da questo punto di vista, le rivendicazioni per la riduzione d'orario, il salario, le pensioni, il "salario sociale".
Sul terreno politico e istituzionale, nacque in questa logica di non separazione tra "questione sociale" e "questione democratica" il primo conflitto con la sinistra moderata, quando, nel '95, Rifondazione comunista si rifiutò di appoggiare il governo Dini. Qui, ancora, si colloca la scelta più rilevante di questi anni: la rottura del '98 con il governo Prodi, e l'opposizione ai successivi centrosinistra di D'Alema e Amato. Non è stato il risultato di un'antica (o mai sopita) propensione di fuga dalle "responsabilità" politico-istituzionali, e neppure il frutto, semplicemente, di una coerenza politica e politico-morale: ma una tappa del percorso della rifondazione comunista. Uno strappo, cioè, rispetto allo schema consolidato, a sinistra, secondo il quale un compromesso, pur insoddisfacente, è comunque sempre preferibile alla rottura, se e quando la rottura non prefiguri un equilibrio politico "più avanzato". E una risposta, sia pure in nuce, alla necessità di ricostruire una politica non separata dalle soggettività e dai bisogni sociali, come impongono i processi attuali di globalizzazione, di espansione onnivora dell'economico, di drastica riduzione dei poteri effettivi dei governi nazionali.
In questa chiave, l'innovazione può e deve esercitarsi sulla concezione (e sulla pratica) che ha influenzato in profondità la sinistra italiana, tanto da risultare egemone nei gruppi dirigenti del Pci, del Psi e di parte della "nuova sinistra" degli anni '70: la politica istituzionale come sfera privilegiata e sovraordinatrice della politica stessa, come momento costitutivo dell'identità dei soggetti sociali e delle classi subalterne, come "inveramento" della funzione stessa del Partito.
Non sono in discussione, sia chiaro, né la necessità né l'utilità della battaglia democratica nelle istituzioni, nelle assemblee elettive, in generale nella sfera della rappresentanza. Né si tratta di coltivare astratte e sbagliate propensioni extraparlamentari. Si tratta di operare uno spostamento del fuoco della centralità politica dal livello dello Stato, delle istituzioni e delle forze organizzate alla dinamica delle forze sociali, di movimento e delle lotte di massa, in coerenza con i mutamenti della società, dei nuovi bisogni di massa, e fuori dai vincoli di eredità pur importanti, come quella togliattiana.
In molte fasi della storia italiana, antiche e perfino recenti, l'iniziativa istituzionale ha mantenuto una connessione positiva con i processi sociali, strappando risultati significativi, spostando in avanti i rapporti di forza, agendo come momento effettivo di ricomposizione sociale e culturale. Ma oggi questa connessione organica è spezzata, così come si è spezzato il rapporto automatico tra collocazione sociale subalterna e scelta a sinistra. Così come non agisce più, nella realtà, un'onda lineare di progresso, emancipazione, formazione della coscienza. Oggi, la politica prevalente è ridotta o ad ancella dei poteri e degli interessi forti, o a mediazione autoreferenziale: anch'essa, in realtà, proprio perché va amplificando i propri caratteri oligarchici e separati, non è "riformabile" dall'interno. L'omologazione, prima che un rischio della soggettività, è una tendenza forte della realtà.
Questo richiama la necessità di una battaglia strategica, di lungo periodo. Un processo di rifondazione della politica, che sia capace anche di interloquire con le domande di una nuova generazione, non può dunque che assumere dentro di sé il nodo della trasformazione sociale, tradizionalmente riservata agli orizzonti lontani, alla cultura o, per altri versi, a parziali pratiche sociali . Da un lato, insomma, la trasformazione rivoluzionaria si pone come la sola risposta davvero credibile che la politica possa dare: capace cioè di andare alla radice delle contraddizioni del capitale nella sua fase neoliberista, ma capace anche di collocare in un'ottica di libertà e liberazione le istanze concrete dell'antagonismo sociale e di classe . Dall'altro lato, una politica comunista che non si riduca ad essere la variante estrema dei contesti istituzionali non può che essere eterodeterminata dagli interessi o dalle cause sociali che intende rappresentare.
La rappresentanza del conflitto nelle istituzioni non si può quindi esaurire nell'attività tradizionale e nella pratica della "mediazione": è necessario attuare una svolta in cui il tratto istituzionale del nostro agire sia parte esso stesso delle vertenze sociali e del movimento. In un contesto innovativo, la nostra radicata presenza istituzionale può diventare protagonista della spinta alla trasformazione, nel quadro della lotta alla globalizzazione capitalista: intersecando il movimento anche sul terreno delle questioni locali, sia nella proposta del "bilancio partecipato" sia nella capacità di rilanciare, anche mediante la pratica della "disobbedienza civile", la lotta alle privatizzazioni dei servizi e dei diritti, o quella per l' ambiente sano e pulito.
Una pratica istituzionale quindi che ritmando accordi e rotture, patti e conflitti, compromessi e scontri, assuma una prospettiva - non lineare - funzionale ai movimenti, ai soggetti del lavoro, alla crescita delle lotte.