Nemrut Dagi,
24 Luglio 2002:
un'alba con gli Dei
C'era una volta un sovrano
Il suo sguardo di re, come nobile aquila, poteva dominare montagne e colline e immensità di roccia e vento, fino ad intravedere, lontano, il fluire del turchino Eufrate.
A Est del suo piccolo regno, la Commagene, si stendeva una terra profumata di incenso, una terra in cui il tempo non aveva ancora cancellato il ricordo del superbo Impero Persiano.
A Ovest vi era il fasto di Roma terme, teatri e statue di classica bellezza.
Tale sovrano era Antioco I: egli concepì un'opera che gli valse il privilegio di non essere dimenticato col trascorrere dei millenni; fece erigere, infatti, sulla cima di una montagna, un magnifico hierothesium, in cui Apollo e Mithra, Zeus e Ahura Mazda potessero accoglierlo e concedergli di appartenere per sempre al loro Olimpo.
Questo grandioso monumento funebre e luogo di culto può ancora essere ammirato:
si trova nella parte sud-orientale della Turchia, non distante dalle cittadine di Adyaman e Katha.
Per il turista, desideroso di incontrare Antioco, la sveglia suona con trillo penetrante alle due di notte. Solo l'ansia della scoperta gli dà l'energia per destarsi. Davanti all'albergo, che sa di paese e di ospitalità genuina, il visitatore può vedere pronta una carovana di pulmini. Istintivamente alza gli occhi verso il disco sottile della luna che rischiara il nero della via addormentata e sembra placare leggermente il vento della notte.
La salita verso il santuario di Antioco è lunga (Katha dista dalla cima 71 Km). La strada scivola tra poche case di pietra, mentre il cielo blu scuro e le ombre proiettate dalla luna sulle pareti delle abitazioni creano un'atmosfera da presepe.
La strada, poi, comincia ad affrontare il dorso d'ebano delle prime brulle montagne; l'interno del pulmino risuona di ritmate musiche turche, mentre fuori tutto è silenzio e assoluto.
Ad un tratto la fatica del mezzo sembra insostenibile a causa dei sassi e dell'irregolarità del terreno, ma, curva dopo curva, finalmente si giunge davanti ad un piccolo rifugio illuminato. Siamo arrivati? È ora di scendere? Il turista non è ancora in grado di distinguere nulla di preciso. Si spalanca la porta del pulmino. Subito un vento furioso aggredisce chi è giunto a violare la cima. La giacca a vento senz'altro è necessaria, forse anche un paio di guanti e qualcosa per proteggere orecchie e occhi, attanagliati dagli schiaffi del gelo. La casetta illuminata offre subito un riparo e qualcosa di caldo. È dolce sostare qui tra i tappeti dai colori sgargianti e dai disegni fantastici che rivestono le pareti. Ma qualcosa di incomprensibile nell'animo ordina di uscire, di tentare la natura, di sfidarla e di vincerla. Ogni passo lungo il sentiero che porta alla cima della montagna di Antioco, il Nemrut Dagi, sembra una conquista. Il vento si oppone accanitamente e gli azzurri raggi lunari strappano alle tenebre solo altre montagne e altri pendii.
Dopo circa mezz'ora di strada, si raggiunge la sommità. Ci si sente in un luogo primigenio e incontaminato, lontano da tutto ciò che può sembrare comune tutto è sublime.
Il sole non si mostra, la cerimonia deve ancora avere inizio. Il vento costringe a ripararsi sulle gradinate che ai tempi del re di Commagene, nel I secolo avanti Cristo, fungevano da Sacro Altare del Fuoco.
I minuti di buio paiono infiniti, ma, ad un tratto, ecco, un sorriso rosso rubino appare a Est. Il cielo risponde tingendosi di un colore che pare vivido corallo. Aurora dalle dita di rosa viene salutata da un'esclamazione di gioia da parte degli spettatori di questo evento, che qui appare straordinario, eletto.
Con stupore, il turista si accorge finalmente che altri protagonisti stanno ammirando con lui il sorgere sole. Sguardi di pietra, incantati, nobili, accompagnano il rito. Sono volti divini. Le teste degli dei sono a terra, mentre dietro di esse permangono ancora i troni, immobili nella loro altezza di otto metri.
Le statue, fatte costruire da Antioco oltre duemila anni fa, uniscono insieme la bellezza ellenistica alla grandiosità orientale.
Apollo/Mithra, dal grande copricapo di foggia persiana, illuminato dal rossore dell'alba, pare intonare un inno religioso. Zeus/Ahura Mazda, sommo padre di tutti gli dei, incute ancora profondo rispetto. Grandi e perfettamente conservati, appaiono gli animali sacri: potenza e acutezza, il leone e l'aquila.
Seguendo gli sguardi ancora profondi delle divinità, appare Eufrate dall'acqua celeste, che crea luminose volute in fondo alla valle; tutti i miti legati al suo nome, alla sua storia, riaffiorano. Laggiù vi è la Mesopotamia e sorge spontaneo pensare alle sue remote vestigia.
Dietro le statue si erge il tumulo del re: un enorme cono di sassi tondeggianti alto cinquanta metri, visibile da tutte le vallate circostanti, si staglia, pura luce, contro il cielo d'indaco.
Un sentiero porta alla terrazza Ovest, dove il vento pare un po' calmarsi e dove il giorno restituisce un altro Zeus, un altro Apollo, questa volta pronti a rinnovare il saluto al Sole, quando ad Ovest, a sera, illuminerà quel lato della montagna.
Su sfondo scuro appaiono dei bassorilievi: Antioco stringe la mano agli dei, sorridendo ai suoi simili, mentre un leone attorniato da diciannove stelle fa ancora una volta corrispondere i momenti della vita del sovrano ad un fenomeno celeste.
E giunge troppo presto il momento di scendere
Il visitatore, ancora profondamente commosso dopo aver sfiorato la dimensione dell'eterno, può augurarsi che il progetto di Antioco di unire l'Est all'Ovest si realizzi, in futuro, e che la volontà del re di raggiungere alla sua morte le celesti regioni del dio Ahura Mazda- Zeus si sia compiuta.