Le fortezze e i castelli costituiscono un importante spunto in campo letterario per molti scrittori della fine Ottocento - inizio Novecento soprattutto perché l'analisi di quest'ambiente permette di scoprire, comprendere e approfondire molti aspetti dell'uomo, del suo animo e del mondo in cui vive. Tra i vari autori che hanno messo in luce il rapporto uomo-fortezza uomo-ambiente evidenziandone la solitudine, l'impossibilità di qualsiasi tipo di comunicazione, i più rappresentativi sono senza dubbio Kafka e Buzzati. Questi scrittori si preoccupano di sottolineare con le loro opere l'angoscia dell'essere umano, l'assurdità dell'esistenza, l'attesa del riscatto e l'oscura delusione.

IL CASTELLO - KAFKA
Elaborato negli anni '20, "Il castello" è l'ultimo suo grande capolavoro, un'opera ambigua e per certi versi paradossale. Il romanzo è incentrato sulla vicenda dell'agrimensore K, il quale tenta per tutta la vita di entrare in contatto con i signori del castello che gli hanno affidato il compito di ristrutturarlo: è quindi costretto a vivere in un villaggio sovrastato dalla tanto temuta presenza della costruzione e dei suoi abitanti, non riuscendo a stabilire alcun tipo di comunicazione. Questa situazione mette in evidenza il rapporto tra il protagonista e il castello al punto da rappresentare le tematiche portanti del pensiero kafkiano: quell'antico edificio altro non è che il simbolo, l'emblema dell'assurdità di tutto ciò che circonda l'uomo e in cui è immenso, che deriva in primo luogo dal dominio di una legge, la quale appare incomprensibile, in quanto non è dato conoscerla. Non vi è alcuna possibilità quindi di capire quest'inesorabile e complesso meccanismo che opprime l'essere umano, nonostante i suoi infiniti tentativi di percepire anche solo superficialmente la suddetta logica. "Il castello", infatti, si conclude con una sconfitta su ogni fronte originata dalla solitudine del geometra dall'impossibilità di conoscersi e dalla consapevolezza di essere straniero e non autentico. Ma la sua non è una figura fantastica, anzi egli rispecchia l'uomo della società contemporanea, il quale non si rassegna, non rinuncia alla lotta, ad una strenua ribellione contro il disordine che rimanda all'assurdo e alla banalità, sebbene sappia di essere intricato in un cammino senza speranza e soggiogato dalla società borghese. Pur sviluppando il tema dell'alienazione, l'opera è un chiaro affresco della volontà di non essere sopraffatti, una testimonianza dell'opposizione all'annichilimento della sua persona.

IL DESERTO DEI TARTARI - BUZZATI
Scritto e pubblicato nel 1940, "Il deserto dei Tartari" è il suo terzo grande romanzo, un'opera allegorica improntata sulla condizione psicologica e sociologica dell'uomo del ventesimo secolo. Esso mette in luce la drammatica situazione della società italiana, narrando la vicenda di Giovanni Drogo, il quale una mattina parte dalla città per raggiungere la fortezza Bastiani, luogo a cui viene assegnato dopo aver assunto il grado di tenente. Il viaggio è una continua scoperta che conduce ai confini del mondo abitato, in una costruzione militaresca antica e deserta da cui traspare un'aria sinistra e misteriosa. Per oltre trent'anni egli subisce l'oscuro male dei fortini, delle ridotte e delle polveriere ed il fascino di prendere parte a nobili imprese; attende come i compagni che qualcosa dal deserto si muova, ma ciò accade solo quando la sua vita è giunta al limite dell'esistenza: egli muore solo, in una povera locanda al ritorno a casa. Il capolavoro, influenzato dalla guerra e dalla difficoltà di comunicazione, rispecchia l'angoscia e il silenzio interiore, lo scorrere inesorabile del tempo ed il sopraggiungere della morte su un'esistenza solitaria dettata dall'incapacità di adattarsi al mondo e dalla necessità di rifugiarsi in un'altra dimensione, fuggendo da un universo privo di valori. L'estraneità e l'incomunicabilità regnano sovrane: l'allontanamento dalla civiltà comporta un rapporto amore-odio verso città e fortezza; il protagonista spera in un futuro eroico ma è solo una pedina dell'universo, incapace di rapportarsi con gli altri, di stabilire un rapporto intimo e sincero col prossimo, come l'uomo. L'essere privo di autonomia psicologia e la difficoltà di esprimersi porta alla solitudine che si concretizza con l'allontanamento dal resto del mondo e dagli altri individui: i soggetti, vivendo in un ambiente ostile, si distaccano dall'universo e da loro stessi mentre Drogo non si lascia abbattere da questo nemico e sorride, è l'unico ad avere il coraggio di affrontare la morte come l'unica vera battaglia dell'esistenza. Anche l'auto-inganno è molto importante, quest'autosuggestione diretta ad eliminare i particolari sgradevoli della realtà e a crearne una visione falsa ma confortante è evidente perché i soldati, nonostante siano certi che lo scontro coi tartari è improbabile, cercano di convincersi che possa realizzarsi, tentando di dimostrare a se stessi che i loro sacrifici saranno ricompensati. Angoscia e insicurezza sono le protagoniste di una crisi (emergono i contrasti tra sani e malati, l'opposizione tra persone aventi vita frenetica e soggetti alienati) che si risolve solo alla conclusione quando Drogo raggiunge un suo equilibrio. Quindi il romanzo mette in evidenza, tramite vicende surreali ambientate in una fortezza in cui la vita è insignificante, l'oscura oppressione e l'angoscia di fronte agli incomprensibili meccanismi del destino e delle istituzioni sociali.

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