Fiori di cenere
Da
alcuni anni questo dei barboni è per lui tema quasi unico di studio, di
analisi, di indagine accanita. Tanto da fagocitare dentro il suo alveo
capiente anche tutto ciò che a quel mondo non si riferisce per via
diretta. Così sono in special modo alcune nature morte di
preziosissima, imperlata apparizione, aggrovigliate e raccolte come una
prima nebbia irrigidita dal gelo. E tutta quella poltiglia che
occhieggia è già la pittura nella sua veste di presentazione al
Tempio, nel suo abito di strascicata, cartavetrata perfezione. Perché
Sgubin lavora per ispessimenti dell’atmosfera, per levigatura di
cartilagini del colore, per pulitura della pellicola abrasa; da cavarne
armonie che continuamente si negano, non si possono nominare. La sua
pittura ha la scandita evanescenza di un mistero, il disagio di una
intermittente apparizione. Forse per questo vibra raramente di
accensioni, e si mantiene invece entro quella vastissima, infinita gamma
dei colori dell’anima. Che a dirli sarebbe impossibile, e occorre di
più sentirli come una ferita, una piaga, una feritoia attraverso la
quale si sprigionano senza sosta i baluginii di un cielo capovolto. E
tutto il percorso dedicato ai barboni da Sgubin, che si apre con un
quadro del 1988 che ancora non lasciava presentire quello che sarebbe
venuto dopo, va verso un assottigliamento dell’immagine, una sua
parziale cancellazione. Come alla fine non potesse restare che il segno
di un passaggio, il gesto di un attraversamento fatale. Così adesso
queste figure stanno schiacciate contro un muro, imprimitura gessosa,
sfaninamento di volumi inabissati. Sono i quadri più grandi, quelli nei
quali si sente macerato fino in fondo il senso di un dolore, di una
visione
rattrappita, acquattata; dove cresce a dismisura l’intangibilità
di un limite, la
devastante predilezione del silenzio. E’ una cecità dello sguardo,
ma anche una cecità della parola. Qui Sgubin vede per assenza,
nell’oscurità di un tramonto urbano. Il barbone non è nemmeno più
riferibile a una presunzione di fisicità contenuta, ma è ormai
un’icona, un’ostia consacrata dentro un tabernacolo apparso. Ma
tra quell’immagine lontana, del 1988, e queste ultime visioni
dell’interiorità, si è dispiegato un cammino autoritario, sicuro,
mai edulcorato, sempre volto a rappresentare il senso di una intimità
con il tema. Perché la pittura è qui riferimento a un’indistinzione
del sentimento e dello sguardo prensile, a una simultaneità del nervo
ottico e del cuore. Anche quando, in alcune piccole tele, Sgubin fa
quasi la prova di un fumigare dell’atmosfera, è l’incisione di
una cicatrice, il morso feroce e allucinato della vita. Difficili
definirli studi, poiché hanno la precisa nettezza di una scompaginata
sera abbrunata; sono insieme la solitudine e la pienezza. Se il vuoto
possiede una pienezza dentro l’affondare. E
se proprio qualche riferimento occorre trovano, più manifestamente si
rintraccia proprio nelle piccole tele, dove è una sospensione del tempo
maggiore, un arresto della visione, un continuo attraversare quella
linea d’ombra che ogni ora tocca e trafigge. Marco Goldin |