Fiori di cenere

Come il canneto setacciato ai bordi di uno stagno, crescono; come il liquame di fogna appena intorbidito da una pioggia au­tunnale sporca, incenerita e troppo umida. Come il persistere di una nebbia alla nicotina, sono; come l’impronta goffa, incatramata dietro il velano moribondo di una sera estenuata, senza tramonto. Crescono così, come creature abbaglianti e illimitate, i barboni di Ottavio Sgubin. Sono pittura entro superfici crude, levigate dal tempo, arrugginite dall’ombra. Non hanno il tono contenutistico di un racconto sulla povertà, né si soffer­mano sull’indispettita pietà per un cartoccio nascosto a un an­golo di strada, quando il volto non si vede mai, non è ricono­scibile, e tutt’al più resta siglato nella contorsione appuntita di. un naso d’aquila. Sgubin qui non mima Previati o Morbelli; non torna a certa pittura di carattere ottocentesco, chiusa in un interno attraversato da un raggio di luce silente. Su questi colo­ri è trascorso il lume squartato della modernità, la striatura net­ta, indicibile dell’uomo che ha raggiunto la luna senza scostarsi dalla sua leopardiana condizione.

Da alcuni anni questo dei barboni è per lui tema quasi unico di studio, di analisi, di indagine accanita. Tanto da fagocitare dentro il suo alveo capiente anche tutto ciò che a quel mondo non si riferisce per via diretta. Così sono in special modo alcu­ne nature morte di preziosissima, imperlata apparizione, aggrovigliate e raccolte come una prima nebbia irrigidita dal gelo. E tutta quella poltiglia che occhieggia è già la pittura nella sua ve­ste di presentazione al Tempio, nel suo abito di strascicata, cartavetrata perfezione.

Perché Sgubin lavora per ispessimenti dell’atmosfera, per levi­gatura di cartilagini del colore, per pulitura della pellicola abrasa; da cavarne armonie che continuamente si negano, non si possono nominare. La sua pittura ha la scandita evanescenza di un mistero, il disagio di una intermittente apparizione. Forse per questo vibra raramente di accensioni, e si mantiene invece entro quella vastissima, infinita gamma dei colori dell’anima. Che a dirli sarebbe impossibile, e occorre di più sentirli come una ferita, una piaga, una feritoia attraverso la quale si sprigio­nano senza sosta i baluginii di un cielo capovolto.

E tutto il percorso dedicato ai barboni da Sgubin, che si apre con un quadro del 1988 che ancora non lasciava presentire quello che sarebbe venuto dopo, va verso un assottigliamento dell’immagine, una sua parziale cancellazione. Come alla fine non potesse restare che il segno di un passaggio, il gesto di un attraversamento fatale. Così adesso queste figure stanno schiacciate contro un muro, imprimitura gessosa, sfaninamento di volumi inabissati. Sono i quadri più grandi, quelli nei quali si sente macerato fino in fondo il senso di un dolore, di una visione rattrappita, acquattata; dove cresce a dismisura l’intangibili­di un limite, la devastante predilezione del silenzio. E’ una ce­cità dello sguardo, ma anche una cecità della parola. Qui Sgubin vede per assenza, nell’oscurità di un tramonto urbano. Il barbone non è nemmeno più riferibile a una presunzione di fi­sicità contenuta, ma è ormai un’icona, un’ostia consacrata den­tro un tabernacolo apparso.

Ma tra quell’immagine lontana, del 1988, e queste ultime vi­sioni dell’interiorità, si è dispiegato un cammino autoritario, sicuro, mai edulcorato, sempre volto a rappresentare il senso di una intimità con il tema. Perché la pittura è qui riferimento a un’indistinzione del sentimento e dello sguardo prensile, a una simultaneità del nervo ottico e del cuore. Anche quando, in al­cune piccole tele, Sgubin fa quasi la prova di un fumigare del­l’atmosfera, è l’incisione di una cicatrice, il morso feroce e allu­cinato della vita. Difficili definirli studi, poiché hanno la precisa nettezza di una scompaginata sera abbrunata; sono insieme la solitudine e la pienezza. Se il vuoto possiede una pienezza dentro l’affondare.

E se proprio qualche riferimento occorre trovano, più manife­stamente si rintraccia proprio nelle piccole tele, dove è una sospensione del tempo maggiore, un arresto della visione, un continuo attraversare quella linea d’ombra che ogni ora tocca e trafigge.

Forse sta qui il senso di una pietà per l’umana condizione, un guardare più commosso e attonito, un sostare alle soglie del mistero. Ma poi su tutto vince ancora una volta la pittura, che nelle grandi opere pare come raggelansi, e toccare il senso di uno straniamento, di un allontanamento dal mondo. Come se il destino non si consumasse dentro la tela, ma fosse, di più, il campo largo di un’infinitudine in ogni modo rincorsa. Con la disperazione coatta e la felicità del colore invisibile ormai.

Marco Goldin

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