FARULLO

 

 

L’anno mille, coincise con quel periodo oscuro che tutti conoscono, buio totale sulle istituzioni, sulle idee, sulle coscienze.

Chiaro rimaneva solo il desiderio ingordo del possesso e della supremazia, il che portava a continue piccole guerre combattute da un potere troppo frazionato, ma non per questo privo di lungimiranze predominiali.

In tale contesto, nel 1.002, era salito al trono Farullo 1°, re del piccolo stato di Giovenia situato nell’attuale Italia centrale. Aveva sposato Clotilde, unica figlia dell’appena defunto re Giova, grosso omone obeso sia nel corpo che nello spirito, che morendo aveva lasciato un vuoto incolmabile sia sul trono che a tavola, non certamente nel cuore del suo popolo.

Questo piccolo regno aveva trovato ragione di essere grazie alla promessa estorta da Giova all’imperatore Carlino IV° che, durante la battaglia delle Forche, aveva riparato con il proprio corpo e conscio delle possibilità offerte da simile posizione aveva gridato verso l’imperatore: “un regno per un po’ di aria”.

Venne accontentato e fu re e retto nello stesso istante.

Non ebbe tempo per conoscere suo genero Farullo, dato che, strana coincidenza, quando sua figlia Clotilde annunciò durante un banchetto che voleva sposarsi, un ossicino di pollo tanto piccino quanto pericoloso si fermò nella regale gola di Giova.

A nulla valsero manate e pacche sulla schiena. Il colpo di tosse che sembrava dovesse uscire da quella bocca divenuta come il cratere di un vulcano rosso e gonfio non uscì, essa rimase aperta solo al sospiro dell’anima che abbandonava per sempre il corpo del re.

Iniziava così, insieme al nuovo millennio, una nuova era per Giovenia. Il lavoro da svolgere era consistente, un nuovo re non poteva badare ai sacrifici necessari per rimettere in sesto le finanze del regno, non era possibile evitare di dover scrivere editti anche la Domenica. Per Farullo il motto era “prima il dovere poi il piacere”,e a dire il vero di piacere ne provava proprio tanto nel ricevere quel bendiddio dai contadini, proprio grazie al dovere imposto dagli editti di cui aveva aumentato la mole.

Quanta soddisfazione veniva dal potere, quanta quiete e tranquillità derivava dal pugno d’acciaio.

Si trovava, un bel giorno, immerso in queste sublimi constatazioni, quando arrivò e si prostrò ai suoi piedi Sibil, capitano e vigile controllore del villaggio di Premo.Sire,”gli disse con voce tremolante ma forte”,gli abitanti del mio villaggio si rifiutano di versare le tasse e a nulla sono valse le mie intimidazioni. Continuano a rifiutare ogni mia richiesta, oramai mi ridono in faccia e credo di aver perduto la grinta necessaria al caso."

Un velo di vergogna ricopriva il volto di Sibil, attenuando quei segnacci lasciati dal vaiolo.Possibile che la gente, di colpo, avesse acquistato tanto coraggio? Possibile che ridesse di quella faccia che in passato era stata vanto e sicurezza per il re?

“La faccenda merita una approfondita analisi” disse Farullo, facendo tremare le sottili labbra e inarcare le sopracciglia corvine mettendo così a nudo due occhietti vispi e lucidi che l’inatteso problema aveva reso irrequieti.

La sera, a tavola, nessuno osò parlare, in quell’atmosfera il buffone cadde due volte ma nessuno rise dato che gli occhi di tutti i commensali erano furtivamente attenti alle mani del re intento a giocherellare con le olive verdi contenute in un enorme piatto di terracotta. Aveva cominciato a piovigginare e l’acqua che cadeva rendeva la notte irreale, i riflessi della poca luna che tentava di affacciarsi tra gli squarci di nuvole trasformavano le gocce in fili d’argento modulati ritmicamente da un leggero spiro di vento.

Le considerazioni di colpo svanirono ed il re si addormentò.

Il bellissimo destriero rosso era già pronto dietro le regali palpebre, ne montò in sella lo spronò e subito sentì l’aria fresca sulle gote. Attaccato fortemente alla sanguigna criniera teneva gli occhi bassi e subito notò il contrasto del vestito bianco col colore di quel possente dorso.

Il tempo aveva perduto ogni caratteristica del trascorrere, le unghie gli erano cresciute così in fretta da ferirgli il palmo delle mani, i capelli diventati lunghissimi gli impedivano di tenere il capo chino tanto erano trascinati indietro da quella folle corsa. Aveva paura di tenere gli occhi aperti, ogni qualvolta lo faceva l’immagine del destriero si mutava in leone, orso, serpente, solo il colore rimaneva in perenne contrasto con il bianco vestito, lo stesso che gli coprì gli occhi quando fù disarcionato e cadde in un vortice di luci che cercavano di carpirne i sensi ma Farullo voleva gustare ogni sensazione e nulla gli avrebbe impedito di rimanere cosciente di fronte a ciò che stava provando.

Cadde pesantemente a terra, “ti avevo avvertito, ben ti sta Nicola, così impari a saltellare in bilico sulla sedia” era sua madre che lo rimproverava. La madre di chi? Di questo bambino di cinque anni dolorante al fianco per la caduta; si guardò le mani piccole e tozze chiuse a pugno che appena aperte lasciarono cadere delle crine rosse.

Si guardò intorno, in quella stanza semibuia riscaldata e appena illuminata da un grosso camino nero e crepato, che in quel sogno appariva gigantesco. Di chi poi fosse il sogno non ne fu più sicuro, di Nicola o di Farullo? La realtà non può essere scelta, è lì presente e sovrana.

Durò ancora qualche istante quell’accavallarsi di strani ricordi fatti di nomi, luoghi e cose tanto lontane. Aveva saltellato, giocato, indispettendo sua madre molestandola con piccoli calci, pacche e pizzicotti sul didietro, aveva rovesciato ogni barattolo facendo anche cadere una bottiglia sul fratellino nato da pochi giorni che se ne stava raggomitolato in posizione fetale in una scatola del sapone, riempita di paglia. All’ennesimo ceffone, scomparve anche l’ultimo fievole ricordo e Nicola si mise a piangere seduto sulla pietra del camino all’altezza di una grossa crepa nera provocata dal calore. Sentiva vociferare nella stanza attigua, oltre una vecchia tenda militare ingiallita dal fumo. Si asciugò le lacrime mentre passava accanto alla scatola del fratellino dandogli un sonoro calcio, sempre con gli occhi fissi alla tenda che spostò con violenza facendo sbattere il Sacrocuore appeso sopra e rimanendo abbagliato da una strana luce bianca.

Appena tutti gli astri del cielo scomparvero dai suoi occhi, vide la madre dietro il bancone di un negozietto, intenta a spolverare una scatoletta di alici salate prima di porgerla ad una cliente vestita di nero avanti con gli anni, intenta a frugare in una borsa logora e sporca. Si avvicinò alla vetrina nella penombra di un alto manto di neve, con gli occhi in su verso il bagliore dei riflessi del sole che gli scaldavano il viso piacevolmente. Con un picchiettio ritmico della scarpa contro la cornice bassa e screpolata della vetrina, cominciò a far roteare gli occhietti, troppo piccoli per quel faccione roseo e simpatico, giravano ora a destra ora a sinistra lungo le scansiglie in legno deformate da chissà quale passato carico, soffermandosi prima sui giochi di ombre che davano risalto ai solchi impressi nello strato di polvere depositato sui ripiani e sulle poche scatole, poi su in alto verso il soffitto a travi congiunto agli angoli delle pareti umide e prive di intonaco da cui pendeva una fettuccia per mosche con su appiccicato un trofeo rinsecchito a ricordo di migliore stagione. Poi di nuovo verso l’esterno, oltre lo spesso strato di neve appena ferito da un passaggio semicavernoso, su verso i tetti carichi, su verso il faggeto simile alla groppa di un ghepardo e verso quel cielo ormai sgravato e limpido.

“Stai fermo” gridò sua madre e poi rivolta alla vecchia signora “ho i nervi a pezzi e quello batte-batte-batte, come se non fosse bastata la filossera della vigna guarda quanta neve ci ha mandato il buon Dio.Il cinquantasei sarà per noi un anno da dimenticare, sempre che ce ne sarà dato il tempo. Intanto si è dovuto diventare astemi , non per me che uso il vino solo nelle funzioni come il prete, ma per mio padre e mio marito. Sarò costretta a caricare due sacchi di grano , perché tanto mi chiedono in cambio di una mezza botte che ha preteso in fatica nemmeno un decimo del prezzo pagato. Grazie al cielo il gancio del maiale ancora non viene mosso dallo sbattere di una porta, i sacchi di grano sono pelli di tamburo ed il resto sarà come Dio vorrà. Stai fermo con quel piede.”La madre tornò a tuonare verso Nicola che, rigirandosi su se stesso, ritornò nel retro senza attendere che la vecchia signora uscisse e che la madre avesse finito di scrivere su un quaderno sporco di grasso e vernice.

Aprì la tenda pesante come quella di un teatro e passando vicino alla scatola-culla le dette un altro sonoro calcio senza però riuscire a svegliarne il contenuto.

Non si sentiva del solito umore, svogliato e rilassato, come stanco di un lungo viaggio sedette nuovamente in prossimità della crepa fissando l’immagine del Sacrocuore pendente.

Chissà quali pensieri correvano in quella testolina appoggiata alle ginocchia attraverso quelle robuste braccine. Gli occhi seguivano il movimento ondulato della tenda mossa dalla madre,”vedi, quando Luigino ha ben mangiato dorme più a lungo e serenamente”, disse curvando la magra schiena mentre si toglieva lo scialle di lana multicolore, restando un momento a contemplare la scatola addolcendo le labbra sottili con un sorriso. Nicola ne seguì lo sguardo e quando i loro occhi si incontrarono, la madre si drizzò e sedendosi accanto al figlio, di fianco allo stipite che proteggeva dall’intensità della fiamma, lo prese per le braccia e se lo mise di fronte,a cavalcioni.

“Ah Nicola, Nicola, è possibile che non riesci a capire che noi ti vogliamo bene più di prima, tu sarai sempre il figlio maggiore ed avrai sempre un amore particolare perché dovrai vegliare anche sull’ultimo arrivato.” Nicola ascoltava porgendo il lato destro della faccia e scrutando i movimenti della bocca materna con occhio indagatore. Oramai le parole non avevano per lui significato, in quell’assedio bianco che gli impediva di esprimersi al massimo, in quel corpo goffo e stupidamente seduto a cavalcioni, aspettava il momento del ritorno per poter strozzare Sibil ed impalare tutti i maschi adulti di Premo e ristabilire la sua autorità.

La tenda si mosse, facendo spazio a un omone.“Maledetta neve, maledetto freddo, maledetto tutto,” disse mentre si toglieva le scarpe posandole ad asciugare sulla pietra di fianco a Nicola. Avvicinata una sedia al camino si sedette, allungando i piedi alla fiamma e subito le spesse calze iniziarono a fumare. Adagiò le braccia, appoggiando i dorsi sulle cosce, con i palmi rivolti verso l’alto. Nicola le guardò, sembravano gusci di tartaruga, allungò le mani per tastarne la consistenza. Erano calli duri e squamosi.Sembravano proprio gusci. “Vedi cosa combina il calore, ora riesco anche a toccare qualsiasi ferro ardente senza subire danni. Sono lucide come il manico della mazza che uso e non riesco a fare una carezza senza far rabbrividire chi la riceve” disse quell’uomo che di colpo, allontanata la sedia si era tolto le calze fumanti ed aveva iniziato a saltare e bestemmiare di dolore.

“Il fuoco, accidenti a lui”aveva iniziato a gridare verso la moglie accorsa alle sue grida.”Prima il gas della miniera mi ha bruciato i polmoni, poi il calore le mani ed ora prova a bruciarmi i piedi”, il violento colpo della tenda aveva fatto cadere il Sacrocuore subito raccolto dalla donna, “vedi, gli disse, invece di ringraziare Gesù tu lo offendi, le bestemmie non portano a nulla, portano solo disgrazie e fanno cadere anche il Sacrocuore.”

L’uomo sembrò fare qualche riflessione, si girò e preso il figlio si sedette al tavolo appoggiandolo sulle sue ginocchia. Scoperchiato un piatto di cotto smaltato, iniziò a mangiarne il contenuto.

Nicola, perchè continuavano a chiamarlo con quel nome, si sentiva un re e non uno stupido bambino sulle ginocchia di questo omone dalle mani bruciate.

Maledetto Sibil , maledetta la sua vigliaccheria che lo aveva fatto rapire dal cavallo rosso come il sangue proiettandolo in quel tetro retrobottega con un unico sottoposto rappresentato da un neonato deposto tra la paglia. Tra se pensò che l’unica possibilità di ritorno fosse nel sostituirsi a Sibil e dare una dimostrazione di forza. In fondo, quel posto somigliava a Premo, quella donna non era alla sua portata, senza parlare di quell’uomo che gli impediva di muoversi imboccandolo con delle dita grosse ed unte. Spostò lo sguardo giù verso la scatola e capì che sarebbe stato facile bruciarne l’involucro che conteneva. Avrebbe atteso di essere solo e dopo averla avvicinata al camino avrebbe agito. Un re ha diritti indiscussi su ogni cosa animata e non, Premo doveva essere rasa al suolo, quelle luride capanne andavano abbattute ed il popolo tutto avrebbe dovuto prenderne il posto in vetta a lunghi pali accuminati. “Sibil, la tua debolezza mi ha strappato dal mio regno ma il fuoco riparatore farà ritornare ogni cosa al suo posto.” Così disse Nicola, saltando dal grembo paterno e correndo verso la porta esterna del negozio urtò la madre ricurva su uno scaffale. La coltre di neve impediva di vedere il lato opposto della strada e quella prigione non gli dava possibilità di fuga. Alle sue spalle sopraggiunse il padre che presolo per le spalle lo alzava da terra portandolo di nuovo nel retro.

“Ora ti faccio vedere chi sono io “ gridò Nicola appena si ritrovò a terra e correndo verso la scatola iniziò a spostarla verso il camino.

Suo padre lo guardava inconsapevole delle sue intenzioni, però vedendo la scatola avvicinarsi al calore delle fiamme la allontanò con una manata e preso il figlio lo portò seduto sulla pietra bianca del tavolo.Ora il padre fissava il figlio senza riconoscerlo, inveiva contro di lui con parole dure in preda ad un raptus di onnipotenza, alternando frasi da perfetto avunculista che solo Doemling sarebbe riuscito a giustificarne l’origine. Inoltre la voce di Nicola aveva assunto un tono gutturale non appartenente ad un bambino di cinque anni.

Allora, allungò la mano aperta e mostrandola al figlio gli disse:” Vedi questa mano, ha spianato residui di bomba per trasformarli in attrezzi in grado di far nascere il grano. Devi accettare la condizione sociale in cui sei nato, non provare a distruggere ciò che ho costruito e non denigrare quel poco che, con grande fatica, ho realizzato.Sono le figure che tu vuoi rappresentare, per sete smodata di potere, che mi hanno imposto una guerra incomprensibile e come premio mi è stata assegnata una società così cattiva da generare mostri assetati di potere e avidità.”

Nel frattempo era entrata anche la madre, preoccupata dal rumore proveniente dal retro,” cosa è successo, domandò”, appena ebbe la risposta, mollò un sonoro schiaffo a Nicola che si mise ad urlare minacciandola con un ditino puntato nell’atto di accecarla e così prese un secondo schiaffo ancora più doloroso del primo. “Voglio andar via da questo lurido buco,”gli gridò contro,”ridatemi il mio regno “.

Cosa vuole? Chiese la donna senza capire , e velocemente, indossato lo scialle,corse via dicendo verso il marito :”corro a chiamare il dottore e stai molto attento a Luigino”.

Questa volta il Sacrocuore non cadde, gli occhi di entrambi, con un riflesso condizionato si spostarono verso la parte superiore della tenda in attesa degli eventi.

Lo specchio ovale, con la cornice di legno marrone, posto sopra il lavandino di marmo bianco a spigoli vivi, rifletteva la fiamma del camino e tutto intorno era buio, gli occhi di Nicola scintillavano di odio e il padre fu colto da un panico mai provato nemmeno nelle trincee o sotto i bombardamenti. Erano occhi illuminati di luce propria, quell’essere non poteva essere carne della sua carne, però lo era e con il cuore a pezzi capì che doveva agire, donandogli un vero sogno in cui credere.

Lo prese tra le braccia, con una mano gli impedì di scalciare mentre con l’altra gli pressò la piccola bocca ed il naso fino a soffocarlo. Nicola, provò a graffiare quella mano dura, ma la pressione rimase costante sino alla fine.

”Dormi Nicola,” gli disse con la voce soffocata dal pianto,”il destriero non verrà mai più per riportarti nel tuo mondo malvagio fatto di sopprusi e ingiustizie, il tuo sogno finisce qui, mentre inizia un sogno reale, più bello ,perché fatto di piccole cose, conquistate giorno per giorno, con abnegazione ed umiltà. Questo è il mio ultimo dono.

 

 

                                                                   TORNA AL MENU PRINCIPALE