Il
maestro
I lunghi e caldi
giorni dell’estate stavano per lasciare posto all’autunno.
Le vacanze estive
erano ormai finite, domani sarebbe iniziata la scuola: i bambini non giocavano
più spensierati ed allegri, e già da alcuni giorni si preparavano a tornare o
a cominciare per la prima volta la scuola.
Anche Mario ci
pensava ed era molto agitato: era stato informato dalla mamma che quest’anno
avrebbe avuto un altro insegnante.
La maestra degli anni precedenti aveva avuto
un bambino ed aveva smesso d’insegnare. Anche gli alunni non sarebbero stati
gli stessi perché la classe era stata divisa.
«Come
saranno i nuovi compagni? ...ed il maestro? Spero non come il mio papà: lui è
così meticoloso e pignolo!», si chiedeva continuamente, girandosi e
rigirandosi nel letto.
Quella notte non riusciva ad addormentarsi: decise di
accendere la luce e prese a sfogliare nervosamente un libro illustrato. Dopo un
po’ di tempo guardò il suo orologio: erano le undici... Mario osservò ancora
l’orologio, ricevuto in dono il Natale precedente, e gli vennero in mente le
parole del papà: «Ormai sei grande! Ti meriti un orologio come si deve... Ma
attento a non romperlo: è molto caro...», gli aveva raccomandato con una certa
severità.
Il bambino spense la
luce. «Fra poche ore inizierà la scuola: la terza elementare! La mamma non mi
accompagnerà più... pensa che sono grande...! Ed il maestro...?», si chiese
timoroso e di nuovo sperò che non assomigliasse al papà.
Infatti il papà,
nato e cresciuto a Zurigo, dopo l’apprendistato presso un orologiaio zurighese,
si era trasferito a Lugano e aveva aperto un negozio di orologi.
Si era sposato
e subito dopo nacque Mario. Purtroppo era così preso dal suo lavoro che quando
tornava a casa dal negozio sembrava portasse con sé quel ticchettio costante e
intransigente. Sorrideva e giocava poco con il bambino e voleva che tutte le
cose fossero in ordine perfetto. Inoltre mamma e papà discutevano spesso ad
alta voce o litigavano. Mario voleva molto bene ai genitori, ma tutta quella
tensione lo rendeva molto insicuro e non si sentiva mai del tutto compreso:
temeva che un giorno questo dissenso si potesse rivolgere contro di lui...
Il mattino seguente
fu svegliato all’improvviso dalla mamma: il papà era già andato a lavorare e
lei si era addormentata! La scuola iniziava tra pochi minuti e loro erano
tremendamente in ritardo.
Si lavò velocemente il volto stanco per la notte
insonne, prese la sua nuova cartella e quella mattina la mamma decise di
accompagnarlo a scuola.
Le lezioni erano già
incominciate, cercarono la classe e dopo aver bussato alla porta, entrarono.
Il maestro si avvicinò
salutandoli gentilmente. La mamma, un po’ a disagio per il ritardo, salutò
tutti e lasciò in fretta l’aula. L’insegnante fece sedere Mario all’unico
posto rimasto libero in prima fila, proprio davanti alla lavagna. Accanto a lui
sedeva un bambino che gli sorrise: ora la classe era al completo.
Il maestro porse a
tutti i bambini diverse domande: chi erano, dove abitavano e quanti anni avevano
e fu con tutti molto gentile. Alla fine anche lui si presentò: si chiamava
Giovanni, desiderava insegnare loro tante cose e sperava che in poco tempo tutti
si sarebbero sentiti a proprio agio con lui.
Mario si affezionò
subito all’insegnante: egli era veramente una brava persona e si impegnava
molto con tutti i bambini. Si accorse che cercava di creare molta serenità
nella classe: teneva sottocchio i più vivaci, si occupava un po’ di più dei
timidi e faceva l’autoritario con i bambini dispettosi.
Mario si impegnò
molto sin dal principio: voleva fare bella figura, soprattutto per il papà.
Desiderava meritarsi il suo riconoscimento ed essere lodato: «Papà sarà
sicuramente contento di me se riuscirò ad imparare tante cose... Voglio che sia
orgoglioso di me, come lo sono io di lui!».
I primi giorni di
scuola passarono piacevolmente: dopo ogni ora di lezione c’erano dieci minuti
di pausa. Mario fece così amicizia con gli altri bambini e giocava con loro
durante gli intervalli. Solo con Carlo, il suo compagno di banco, aveva
difficoltà. Infatti, egli era un bambino dispettoso e continuava a fare
scherzi, era distratto durante le lezioni e prendeva in giro tutti, in
particolare Mario. Ma le cose cambiarono...
Un giorno Carlo si prese gioco di
Mario e gli disse: «Oh! che orologino porta il cocco di papà? Sei
sicuramente... un moccioso viziato!».
«È
un regalo di Natale...», arrossì Mario, ma senza perdersi d’animo gli
chiese: «E tu che cosa hai ricevuto in dono...?».
«Io
sono grande e non credo certo ancora a Gesù Bambino! Io, a Natale, non ho
bisogno di niente!...», gli rispose beffeggiandolo.
«Oh,
mi dispiace...! Mio papà è orologiaio e così ogni anno a Natale e al
compleanno mi regala un orologio. Ti assicuro che da tanto ormai desidero
qualcosa d’altro...! Se vuoi te ne regalo uno...!».
Carlo rimase
imbarazzato dall’imprevista generosità: «Va bene...! Se proprio vuoi...».
«Certo...!
E tuo papà che cosa fa?», continuò Mario sempre più deciso.
«Mio
papà è un uomo d’affari molto importante ed è sempre in viaggio...! Lo vedo
molto poco, ma mi vuole bene lo stesso...!».
Nella sua
affermazione Mario notò un po’ di amarezza e fu certo che in quel momento
aveva guadagnato anche la sua amicizia.
L’indomani Mario
mantenne la promessa e portò l’orologio al suo compagno di banco: Carlo era
commosso per il dono inaspettato e da quel giorno si affezionò sempre più al
suo nuovo ed unico amico.
Il tempo passava e i
genitori di Mario erano contenti dei progressi del figlio. Il papà era ancora
molto severo, ma Mario acquistava finalmente sempre più fiducia in se stesso e
riusciva a sopportare meglio le esigenze del papà: di lavarsi sempre bene le
mani, di comportarsi correttamente, di mangiare tutto a tavola, di non lasciare
niente in disordine, di andare a letto sempre puntuale alle otto e mezza...
tutti compiti imposti con una certa autorità.
Un pomeriggio, mentre
tornava a casa tutto contento per aver fatto ancora molto bene a scuola, vide
parcheggiata al bar vicino a casa sua, una bellissima motocicletta rossa, con un
potente motore. Si avvicinò per guardarla meglio.
«Anch’io da grande avrò
una moto così bella... Studierò molto e me la meriterò!», pensò.
Dalla curiosità
allungò una mano per toccarla e ad un tratto la moto cadde rovinosamente a
terra.
Il motociclista che
era dentro al bar, sentito il tonfo della moto, si precipitò fuori sul
marciapiede.
Dapprima Mario guardò
un po’ impacciato l’uomo per scusarsi, poi, quando costui si avvicinò, notò
il suo sguardo irato e si spaventò. Voleva scappare, ma era troppo tardi... Il
motociclista lo afferrò alla spalla e lo girò di peso dandogli un forte calcio
nel sedere. Il bambino sentì un intenso dolore e cadde a terra... Dolorante ed
esterrefatto cercò di rialzarsi e piangendo gli chiese: «Perché? Che cosa ho
fatto di male... L’ho solo sfiorata... sicuramente era parcheggiata male!».
Ma l’uomo non
voleva sentire ragione e iniziò a minacciarlo: «Vattene moccioso! E guai a te
se dirai a qualcuno del calcio... potrei picchiare te ed anche i tuoi genitori!!».
Poi rialzò la motocicletta e, visto che non aveva subito danni, la mise in moto
e partì.
Mario, ancora
barcollante dallo spavento, si asciugò le lacrime e cercò di calmarsi...
Mentre tornava a casa si chiedeva se doveva raccontarlo alla mamma: le parole
minacciose di quell’uomo riecheggiavano nella sua testa ed aveva paura che un
giorno si avverassero. Cercava di giustificare l’accaduto, ma era talmente
turbato che si convinse a dar ragione a quel signore: non avrebbe dovuto toccare
la moto!
Con queste riflessioni entrò in casa e cercò la mamma. La trovò in
bagno.
«Fuori di qui!», gridò la mamma. «La lavatrice si è rotta...! C’è
acqua saponosa dappertutto...!».
Mario chiuse la porta
e andò triste nella sua cameretta.
Quella sera il papà
tornò molto affaticato dal lavoro. Mario lo notò e così non raccontò del
calcio neanche a lui...
Ma a tavola egli si accorse che il figlio era più
silenzioso del solito: «Che c’è Mario...? perché sei così taciturno? È
successo qualcosa a scuola?».
«Oh...
niente. Sono solo stanco...!», rispose Mario, versandosi un po’ d’acqua.
Il padre lo osservò
attentamente e si rese conto di qualcosa, mentre il figlio appoggiava la
caraffa.
«Mario...!
Hai rotto l’orologio...!», gridò, rimproverandolo di averglielo tenuto
nascosto.
Dalla sorpresa nonché
dalla tensione Mario rovesciò il bicchiere colmo d’acqua sul tavolo e non
riuscì a pronunciare parola. Poi balbettò:
«Nnn...
non è vero...!».
Il papà gli afferrò
il polso, mostrandogli il vetro infranto dell’orologio... Il bambino si
spaventò: non se n’era accorto! Doveva essere successo quando era caduto a
terra per il calcio. Mario non aggiunse nulla e suo padre, deluso dal
comportamento del figlio, gli diede un forte schiaffo. Mario pianse e corse in
camera sua.
La mamma si alzò per
andare a consolarlo, ma il marito la trattenne dicendo: «Lascialo andare...!
Deve imparare a non dire le bugie e ad aver rispetto per le cose...!».
Così Mario rimase
solo con la sua desolazione: gli avevano già dato dei bonari scappellotti, ma
mai così imprevisti e senza colpa. Disteso nel suo letto pensava e ripensava a
quella brutta giornata e per la prima volta si rese conto che temeva il papà.
«Da
oggi in poi non voglio più disturbare nessuno...», e si convinse che se
accadeva tutto questo era solo colpa sua, del suo comportamento.
I giorni correvano
veloci verso l’inverno e Mario continuava a pensare al calcio e allo schiaffo
ricevuti. Non era ancora riuscito a confidarsi con qualcuno e con il tempo
cominciò a peggiorare anche a scuola. Temeva di incontrare il motociclista, ma
nello stesso momento lo desiderava: avrebbe voluto dirgli che non aveva detto a
nessuno dell’accaduto. Il pensiero che egli avrebbe potuto far del male ai
suoi genitori lo tormentava. In classe era distratto e non era più concentrato
nell’ascoltare le lezioni. Mentre nei prima mesi era uno dei migliori ora si
vedeva raggiunto anche dai più svogliati. La tensione e la paura si erano
impadronite di lui al punto che aveva difficoltà sia a leggere che a scrivere.
Carlo, che grazie
all’amicizia di Mario e all’attenzione del maestro era diventato molto più
educato e bravo a scuola, se ne accorse subito: l’unico suo amico non giocava
più spensierato con lui come prima e parlava molto poco. Ma non riusciva a
scoprire cosa gli fosse accaduto.
Un giorno notò che non portava più
l’orologio: «Che c’è Mario...? Sei triste perché hai rotto l’orologio?
Tuo papà ti ha sgridato?».
«No...!
A Natale... sicuramente ne riceverò un altro...! Non è successo niente. Vorrei
solo essere lasciato un po’ solo!», mentì Mario per non dover parlare.
Carlo
vi rinunciò ma sperò con tutto il cuore che il maestro se ne accorgesse e
l’aiutasse come aveva fatto con lui.
Mancava ormai poco a
Natale e tutti i bambini attendevano felici i regali che avrebbero trovato sotto
l’albero. Solo Mario sperava di non ricevere ancora un altro orologio ma solo
un po’ più di comprensione dal suo papà.
Dopo un giorno più
duro e faticoso del solito, Mario si avviò triste e deluso a casa. Si ricordò
che la mamma quel pomeriggio andava dal dentista e così ne approfittò per fare
un giro più lungo passando per il parco Ciani, lungo il lago.
Nonostante
l’inverno avesse reso il paesaggio un po’ spoglio, il tappeto marrone di
foglie , la brezza del lago e le montagne circostanti lo fecero sentire meglio.
Prese a passeggiare verso il porto. Per la prima volta notò la piccola
piazzetta cinta da una siepe: nel mezzo vi era una statua che raffigurava un
vecchio accasciato su una sedia con le braccia abbandonate lungo i fianchi e le
gambe inerti. Rimase colpito dalla tristezza e dalla desolazione che ispirava
quella statua: sentì di assomigliare molto a quel vecchio e si avvicinò per
guardarlo meglio. Stette ad osservarlo immobile. Fu scosso da alcuni passi
dietro di lui: si irrigidì dalla paura e pensò al tipo della moto.
«Ciao,
Mario, che ci fai qui da solo nel parco, non hai paura?».
Mario riconobbe la
voce del suo maestro e si girò felice:
«Sì,
ho un po’ di paura... Ma la mamma rientra tardi oggi pomeriggio e così ho
pensato di fare un giro più lungo passando per il parco... è così bello...!»,
rispose. «Non avevo mai notato questa statua... è molto triste, chi è?»,
domandò infine Mario.
«Quando
sarai più grande lo studierai anche tu a scuola... È Socrate, un grande
maestro... Anche lui insegnava ai bambini e ai giovani... Non solo matematica,
leggere o scrivere, ma insegnava i concetti fondamentali della vita. Insegnava
come trovare le cose belle nel mondo ed in se stessi. Devi sapere che anche
molto tempo fa c’erano degli uomini che negavano e disprezzavano tutto,
dicendo che non c’era nulla di vero e d’importante... Beh, Socrate cercò
d’insegnare loro il contrario: ha avuto molti discepoli, alunni che lo hanno
capito ed ascoltato, così le sue parole sono giunte fino a noi. Purtroppo non
tutti hanno condiviso il suo prezioso messaggio e alcune persone, che non
l’avevano capito, lo costrinsero a bere la cicuta, un potente veleno. Ecco
perché la statua lo rappresenta così senza vita. I suoi ultimi giorni furono
molto tristi, ma morì convinto di aver insegnato qualcosa di importante e
duraturo. Vedrai, più avanti imparerai anche tu a conoscere il suo insegnamento
e a capire...».
«Non
capisco... Per quale ragione si possono disprezzare le cose belle?».
«Beh,
devi sapere che Socrate, per poter godere delle bellezze della natura (questi
alberi che si alzano maestosi lungo i viali, il cinguettio degli uccelli, i
prati, i fiori...) visse in povertà ma fu molto sereno. Purtroppo oggi molte
persone apprezzano e danno importanza solo a se stessi, al denaro o al lavoro,
scordandosi del prossimo e della natura. Socrate l’aveva capito tanti secoli
fa, ma ancora oggi non si riesce a metterlo in pratica...», spiegò il maestro.
«Ah!»,
pensò tra sé Mario. «Come il motociclista che era preoccupato solo per la sua
moto, senza pensare al male che mi faceva...!».
Il bambino ascoltava
attentamente: era felice ed orgoglioso di avere lui per maestro.
«Ma
dimmi, Mario... anche tu mi sembri triste come Socrate ultimamente, stai seduto
al tuo posto e non dici più una parola... c’è qualcosa che non va?», chiese
infine l’insegnante.
Il bambino fu
sorpreso e nello stesso momento anche risollevato. Aveva molta fiducia nel suo
maestro ma si ricordò della minaccia e nascose la verità: «Oh, niente... Sono
solo stanco... È così difficile la scuola...».
«Lo
so che la scuola è un po’ difficile ma tu sei un bravo scolaro!! All’inizio
andavi molto bene... Non credo sia colpa della scuola... Neanche Carlo lo pensa:
è molto preoccupato per te! Ma se hai difficoltà a parlarne perché non me lo
scrivi?», propose il maestro.
«Dai siediti qui sulla panchina e scrivilo nel
tuo quaderno...».
Mario era molto
emozionato: l’uomo della moto gli aveva detto di non dirlo a nessuno quindi...
poteva scriverlo! Tirò fuori dalla cartella il suo quaderno: sfogliandolo
rivide le prime pagine scritte molto bene ma le ultime... un disordine unico.
«Non
temere, vedrai, ce la farai! Sei sempre stato uno dei migliori...», lo
incoraggiò il maestro.
Mario prese la penna:
voleva finalmente sfogarsi e liberarsi da quel peso che lo faceva chiudere
sempre più in se stesso. Scrisse: "Ero contento di
imparare molte cose con il nuovo maestro. Ma un giorno ritornando a casa da
scuola ho visto una bella moto. L’ho solo sfiorata e la moto è caduta per
terra. Un uomo è corso fuori dal bar e mi ha dato un forte calcio. Mi ha detto
di non dirlo a nessuno altrimenti avrebbe picchiato ancora me e anche i miei
genitori. Inoltre papà ha molto lavoro. Il suo negozio è pieno di orologi ed
ognuno funziona perfettamente. Tutti hanno la stessa ora. Il papà e la mamma
sono così meticolosi e seri ed io non so mai come comportarmi per non
innervosirli. Vorrei essere anch’io un orologio svizzero e non disturbare
nessuno".
Scritto ciò Mario
consegnò il quaderno al maestro facendogli un sorriso...
L’insegnante lo
lesse attentamente, poi anche lui gli sorrise e lo abbracciò dicendo: «Bravo!
Sei stato bravissimo a scrivere così bene! Normalmente gli altri bambini
impiegano più tempo, mentre tu... guarda che progresso hai fatto! Vedrai che ce
la farai a superare la tua paura... Vieni con me ora, ti accompagno a casa...».
Mario era molto
orgoglioso di sé e si avviò verso casa con il maestro chiacchierando
amichevolmente.
«...
Tu sei un bambino, non un orologio, e ti devi comportare come tale. Anche il tuo
papà lo sa, e sicuramente ti vuole molto bene. Forse anch’egli, come tanti
altri, è cresciuto troppo in fretta ed ha scordato come si guarda la realtà
con gli occhi di un bambino. Ora vuole fare l’adulto e ti vuole insegnare
l’ordine, la serietà, l’educazione, la pulizia ed il lavoro... Sono valori
importanti ma a te non dicono ancora niente, poiché non li puoi toccare, non
sono vivi come i fiori, gli animali. Perché non gli insegni a ritornare un
po’ bambino e gli fai conoscere le cose che piacciono a te: gli alberi, i
fiori, le stelle...? Secondo me diventerebbe più sereno...».
Nel frattempo
arrivarono davanti al bar e Mario sussultò rivedendo la moto rossa parcheggiata
sul marciapiede.
«Non
aver paura... Non ti farà niente, dai che entriamo...», disse il maestro.
Mario dapprima ebbe
paura, ma sentendo la mano del suo maestro, grande e forte stringere la sua, si
rassicurò e lo seguì nel bar...
Riconobbe l’uomo seduto in un angolo, dietro
ad un tavolo, con un grande bicchiere di birra vuoto... Era seduto male, le
gambe allungate e il capo ciondolante sulle spalle. Mario pensò a Socrate, ma a
differenza della statua che incuteva rispetto e serietà, si rese conto che
l’uomo era ubriaco e nel guardarlo sentiva solo compassione. Egli alzò
pesantemente la testa e li vide entrare. Mario lo guardò a sua volta, ma poi si
rese conto che lui non l’aveva riconosciuto, infatti subito dopo chinò
nuovamente la testa e si addormentò. Prima che il maestro si avvicinasse per
parlare al motociclista, Mario gli fece cenno di andare via.
L’insegnante
lasciò perdere ed uscirono.
«Grazie,
maestro! Mi hai aiutato molto... Non ho più paura e ho capito che non può
farmi niente. È solo un povero diavolo, anche lui avrà i suoi problemi!
Cercherò di evitarlo...».
«Va
bene... Sai, lo conosco di vista...! È il papà di Carlo... Ora è disoccupato
e solo: Carlo e la mamma non vivono più con lui, sono divorziati...!».
Mario restò sorpreso
da questa rivelazione e rivolse un pensiero all’amico Carlo. Poi ripensò al
suo papà ed ebbe un’idea: «Ho un’idea! perché non parli tu a mio papà,
magari riusciresti a farlo ritornare un po’ bambino come me?», disse
rivolgendosi al maestro.
«Mi
dispiace, ma non credo di essere bravo come Socrate! Chi può insegnare ad un
uomo a diventare bambino se non un bambino?».
«Non
credo di esserne capace...».
«Non
devi impegnarti...! Cerca solo di essere te stesso: se hai voglia di giocare,
gioca! se hai voglia di ridere, ridi! se hai voglia di osservare, guarda! Vedrai
che piano piano anche il tuo papà imparerà, senza che tu debba fare niente di
particolare... Inoltre ricordati che non sarai mai solo. A Natale viene sempre
un grande Maestro per aiutarti!».
«Chi?
Socrate?!?».
«Ma noo! Gesù Bambino!».
«È
vero! non ci avevo pensato...», arrossì Mario.
«Non
solo...! E non dimenticarti di Carlo: aspetta solo di vederti di nuovo sereno a
scuola!».
«È
vero...! Che bello ritornare a scuola...!».
Arrivarono infine a
casa di Mario, e si salutarono amichevolmente.
Mario
entrò in casa pieno di energia: era fiducioso sul proprio futuro. Avrebbe
aspettato il grande Maestro Gesù Bambino che non aveva insegnato a leggere o a
scrivere, ma ad amare la vita ed il prossimo...
Questo Natale avrebbe dato a papà
una letterina per Gesù Bambino, nella quale chiedeva di ricevere non il solito
orologio, ma di aiutarlo a riportare il sorriso e l’allegria dei bambini sul
viso dei suoi genitori.