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L’ATTEGGIAMENTO DELLA CHIESA NELLE QUESTIONI POLITICHE.

 

di A. Oddone S.I.

 

Ha diritto la Chiesa di intervenire nella politica?

Tale questione è sempre di attualità e dà continuamente luogo ad appassionate discussioni, nelle quali i contendenti si schierano in due campi diametralmente opposti. Per gli uni tra Chiesa e politica vi deve essere assoluta separazione: la Chiesa non «deve fare della politica». Per gli altri spetta invece alla Chiesa di intervenire nelle questioni politiche: la Chiesa può e deve «fare della politica».

            Le due proposizioni sono opposte soltanto in apparenza. Per far cessare l’opposizione basta distinguere tra politica e politica, determinare cioè con chiarezza il diverso significato in cui suole prendersi la parola «politica». È necessario precisarne il contenuto e dissipare le confusioni accumulate, per poter così stabilire sopra solide basi i sacri diritti della Chiesa nelle questioni politiche e legittimare il suo atteggiamento contro le accuse e le calunnie degli avversari.

            Diversi sono i significati, in cui viene adoperata la parola «politica». Da essi dipende la retta intelligenza della presente questione. Indichiamoli quindi brevemente.

            Nel suo senso primigenio ed etimologico, più proprio ed essenziale, «politica» indica la «scienza e l’arte di governare». In tal senso, se la consideriamo in astratto, nell’ordine delle idee, la politica è un complesso di principii e di norme, secondo cui deve essere retto e governato lo Stato: se la consideriamo invece in concreto, nell’ordine dei fatti, è qualsiasi attività che, uscendo dalla sfera individuale e familiare, si esercita in relazione alla comunità, all’ente pubblico e giuridico, che si chiama Stato. In ogni caso, riguarda sempre la vita civile ed ha per oggetto l’attuazione e la conservazione del bene comune, cioè del bene di tutti i cittadini.

            In senso particolare, contingente e meno proprio, per politica s’intende la «politica di partito». Spieghiamo alquanto questa espressione.

            Nella scienza politica esistono principii generali direttivi, che costituiscono il patrimonio umano e non possono essere rinnegati, senza rinnegare la stessa società. Chi li negasse o mettesse in dubbio attenterebbe alla vita sociale dell’uomo, come in filosofia chi mettesse in dubbio o negasse i principii per sé evidenti, toglierebbe la base ad ogni ragionamento. Ma nell’attuazione di questi principii possono onestamente sorgere divergenze di vedute, essendo molteplici i mezzi e le vie per procurare il bene comune e raggiungere il fine della società. Si formano quindi gruppi di cittadini i quali tutti convengono sopra i principii fondamentali, sulla finalità e sulla onestà dei mezzi, ma differiscono tra loro nel giudizio e nella scelta di questi mezzi. Abbiamo così i partiti politici. Un partito politico infatti si può definire «un aggruppamento di cittadini, che convengono sopra determinati mezzi per ottenere il pubblico bene e si adoperano lealmente e legalmente per la diffusione delle loro idee e per l’attuazione del proprio programma». E per conseguenza «la politica di partito» non è altro che un determinato modo di raggiungere il bene comune, una corrente parziale sul terreno delle attività politiche, un programma sociale e civile propugnato da speciali organizzazioni per il trionfo dei loro ideali.

            Un terzo significato prende ancora la parola «politica», ma un significato deplorevole, che ne svisa e ne avvilisce il giusto concetto. Si dà infatti non di raro questo nome ad un sistema di mezzi più o meno onesti intesi ad abbattere violentemente l’avversario, ad un magistero di frode, di astuzia e di forza sostituito al diritto e alla morale. Abbiamo allora la politica del tornaconto e dell’egoismo, il duttile compromesso indifferente alla sostanza dei valori morali; la lotta per il successo clamoroso ed immediato a qualunque costo. Questa propriamente non è più politica ma politicantismo, cioè abuso o deviazione della politica.

 

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            Avendo presente questa triplice distinzione, esaminiamo quale atteggiamento tenga la Chiesa davanti alla politica, e vediamo quando ed in qual modo abbia diritto di occuparsi di questioni politiche.

            È evidente che la Chiesa aborre, come dovrebbe aborrire qualsiasi persona onesta, della politica presa nel terzo significato sopra accennato, cioè della politica che è frode, che è finzione, che è sfogo di passioni e di rancori.

            La dottrina del Vangelo è dottrina di lealtà e di schiettezza, di giustizia e di carità, di disinteresse e di sacrificio, di mitezza e di pazienza. Essa condanna quindi ogni combinazione machiavellica, le ingiustizie di qualsiasi genere, l’uso di mezzi illeciti e disonesti, il ricorso alla forza bruta ed alla violenza per raggiungere i propri ideali. La Chiesa perciò, «conservatrice eterna» di questa dottrina, sarà sotto questo aspetto assolutamente e sempre «apostolica». Il problema si riduce ai primi due casi, cioè alla politica considerata come scienza ed arte di governo e alla politica di partito.

            Consideriamo dapprima il caso della politica in generale, della politica cioè, in quanto dice un complesso di principii e di regole direttive della vita pubblica o indica l’attività sociale e civile dell’uomo informata a questi principii e a queste regole. La Chiesa ha il diritto di intervenire in questa politica? Tale diritto le venne contestato più o meno apertamente dalle teorie liberali di ogni tempo. Il liberalismo ha come principio fondamentale la laicizzazione o secolarizzazione della politica: la vuole staccata da Dio e dalla sua Chiesa, per dirigerla a suo capriccio, al di fuori di ogni influsso divino e religioso. Il liberalismo, scriveva Leone XIII, sostiene che «solo la vita ed i costumi dei privati devono reggersi a norma delle leggi divine, non già la vita ed i costumi dello Stato, perché nelle cose pubbliche è lecito prescindere dai precetti di Dio e legiferare indipendentemente da essi»[1].

            Del tutto erronea è questa concezione del liberalismo. Sarà quindi anche erronea per conseguenza l’esclusione della Chiesa dalla politica. Chiesa e politica, intesa nel modo che abbiamo spiegato, non si possono separare. Lo vieta la natura delle cose e la costituzione e missione stessa della Chiesa.

            La morale guida tutti gli atti umani nella loro natura di atti liberi e responsabili, gli atti dell’uomo privato come gli atti del cittadino, gli atti dei governanti come gli atti dei sudditi. L’uomo, se vuole operare da uomo, non deve mai perdere di vista, qualunque sia la sua condizione, le prescrizioni della retta ragione e leggi dell’onestà, che sono, in ultima analisi, emanazione dell’intelligenza e della volontà divina. L’attività quindi della vita politica, per il solo fatto che è un’attività umana ed appartiene all’ordine morale, è soggetto alla morale come l’attività della vita privata, della professionale e della vita familiare. Morali quindi devono essere i principii direttivi della scienza politica, morali gli atti ed i fatti che sono lo svolgimento di questi principii.

            Questa verità che la politica non può prescindere dalla morale, che ogni atto politico non può non essere rivestito simultaneamente del carattere di moralità e di giustizia, deriva il diritto della Chiesa di intervenire nelle questioni politiche sotto l’aspetto della loro moralità.

            Quando Cristo infatti fondò la sua Chiesa, le conferì l’autorità di reggere non i soli individui, ma anche la società nelle vie della rettitudine e della giustizia. Alla Chiesa fu divinamente affidato l’incarico di conservare e di interpretare, di insegnare e di tutelare la morale cristiana, di definire in modo infallibile quello che è giusto e quello che è ingiusto, di intimare agli uomini ciò che devono fare od omettere per raggiungere il loro ultimo fine. In forza di questa missione e di questo mandato, la Chiesa ha pertanto il diritto ed il dovere di giudicare della moralità e della giustizia di tutti gli atti umani, di insegnare e far rispettare tanto nella vita privata quanto nella vita pubblica le verità naturali o rivelate, di inculcare le norme morali non soltanto ai singoli individui, ma anche ai capi degli Stati e a tutti coloro che partecipano alla vita sociale e si interessano della cosa pubblica. Spetta alla Chiesa, «Madre e Maestra dei popoli»[2], promuovere l’onestà dei cittadini, l’equità delle leggi e delle istituzioni, l’osservanza dei doveri ed il rispetto dei diritti tanto nei sudditi quanto nei governanti: gli elementi insomma fondamentali del buon andamento e del retto governo degli Stati, cioè in altre parole della vera e giusta politica.

 

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Il diritto  e il dovere di esercitare un’azione morale e religiosa nel dominio politico, la Chiesa stessa se lo rivendica apertamente con esplicite ed inequivocabili dichiarazioni, come risulta da non pochi documenti pontifici. Limitiamoci a fare un cenno di alcuni dei più recenti.

            Leone XIII, nell’Enciclica Cum multa ai vescovi della Spagna sul dovere dei cattolici, scrive: «Sogliono taluni fare non solo distinzione tra la politica e la religione, ma disgiungerle e separarle affatto, in modo che non vogliono vedervi nulla in comune e stimano che non debba l’una influire sull’altra». Costoro, così operando, «chiudono temerariamente la fonte più ricca da cui provengono tanti vantaggi allo Stato. Poiché, tolta la religione, sono scossi per necessaria conseguenza dalle loro fondamenta quei principii, dai quali specialmente dipende il bene pubblico e che ricevono forza soprattutto dalla religione, quali sarebbero, tra i principali, governare con giustizia e moderazione, ubbidire per coscienza del dovere, dominare con virtù le cattive cupidigie, dare a ciascuno il suo, rispettare la roba d’altri. Si deve quindi evitare un così empio errore». Lo stesso giudizio esprime nell’Immortale Dei: «E’ grande e funestissimo errore escludere la chiesa, opera di Dio, dalla vita sociale, dalle leggi, dall’educazione della gioventù, dalla famiglia», cioè dalla politica, perché in questo nome si comprendono vita sociale, legge ed educazione. E in una lettera al Vescovo di Grenoble (22 giugno 1892: Nous ne voulons pas), dove traccia le norme per la lotta in difesa della Chiesa, dice: «No, certamente noi non cerchiamo di entrare nella politica; ma quando la politica si trova strettamente collegata agli interessi religiosi, allora se taluno ha la missione di determinare la condotta che può efficacemente tutelare gli interessi religiosi, nei quali consiste il supremo bene delle cose, questi è il Pontefice Romano». Secondo lo stesso Pontefice «La Chiesa non può rimanere indifferente intorno alle leggi dello Stato, non in quanto tali, ma perché talora, oltrepassando i debiti confini, invadono i confini della chiesa. Anzi è per essa un dovere impostole da Dio, di resistere, quando la politica danneggi la religione e di procurare con ogni studio, affinché lo spirito della legislazione evangelica informi le leggi e le istituzioni dei popoli»[3].

            Non dissimili da quelle di Leone XIII sono le dichiarazioni di Pio X. Nella sua prima allocuzione concistoriale E supremi apostolatus (1903), tracciando il suo programma di azione, notava: «Noi dobbiamo illustrare e confermare i concetti di dipendenza, di autorità, di giustizia e di equità che sono oggi conculcati, dirigere tutti secondo le norme della moralità, anche sul terreno sociale e sul terreno politico: tutti diciamo, non solo quelli che ubbidiscono, ma anche quelli che comandano, perché sono tutti figli del medesimo Padre. Intendiamo bene che alcuni prendono scandalo in udire che è nostro dovere occuparci anche di politica. Ma ogni giusto stimatore delle cose vede che il Pontefice non può nel magistero che esercita, separare le cose di fede e di costumi dalla politica».

            Particolarmente incisiva e scultorea è sopra questo argomento la parola di Pio XI. Nella sua prima Enciclica Ubi Arcano (1922), dichiara: «Non vuole né deve la Chiesa, senza giusta causa, ingerirsi nelle cose puramente umane; ma neanche permettere e tollerare che il potere politico ne prenda pretesto con leggi o disposizioni ingiuste, a ledere i beni di ordine superiore, a offendere la divina costituzione della Chiesa o a violare i diritti di Dio stesso nella società…Non tollereremo nulla che sia contrario alla dignità e libertà della Chiesa, essendo nella massima importanza, anche per il progresso della civiltà, che essa abbia vita sempre più prospera e goda di ampia libertà».

            In un discorso ai giovani universitari italiani avverte che «quando la politica si accosta alla religione, allora la religione e la Chiesa e il Papa che la rappresenta, non soltanto sono nel diritto, ma anche nel dovere di dare indicazioni e direttive, che anime cattoliche hanno il diritto di chiedere e il dovere di seguire. Così la più grande politica fu tracciata dal Divino Maestro quando diceva: Date Cesari quae sunt Cesaris, Deo quae sunt Dei, e toccarono pure le più gravi questioni politiche gli Apostoli, quando insegnarono omnis potestas a Deo»[4].

            Nel discorso alle Leghe femminili cattoliche (6 aprile 1934) dichiara quale sia la politica della Chiesa «c’è un'altra politica alla quale Noi non possiamo e non vogliamo abdicare: non possiamo infatti rifiutare la politica del bene comune, la vera, la grande politica, che ha di mira il bene comune, cioè la cura e il lavoro per procurare e conservare i beni che sono di tutti e che non possono mancare ad alcuno, e cioè la santità della famiglia, la santità dell’educazione, i diritti della Chiesa, i diritti delle coscienze, i diritti di Dio. Sono questi i beni che non devono mancare: essi sono e costituiscono la base di ogni altro bene e prosperità. Ora se tutto ciò è politica, Noi faremo sempre della politica e saremo i primi. E sarà anzi vera, la buona politica»[5]. E su tale concetto Pio XI ritorna più volte e insiste con particolare sollecitudine, come richiederanno le circostanze e gli avvenimenti del suo tempo[6].

 

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            Alla luce di questi documenti pontifici non solo si stabilisce il diritto dell’azione della Chiesa sul terreno politico, ma restano anche determinati i limiti e la natura di questa azione.

            La Chiesa non interviene negli affari politici, se non quando essi hanno relazione con gli interessi religiosi e morali della società cristiana. «Tutto ciò – diremmo con le parole di Leone XIII – che in qualche modo ha ragione di sacro, tutto ciò che riguarda la salvezza delle anime e il culto divino, o che tale sia di sua natura o per il fine al quale si riferisce, cade sotto la giurisdizione della Chiesa. Tutte le altre cose poi, che si racchiudono nel giro delle ingerenze civili e politiche, è giusto che sottostiano all’autorità civile»[7].

            A Questa triplice categoria, cose sacre, culto di Dio e salvezza delle anime, si possono ridurre praticamente tutte le questioni politiche, che entrano nella sfera di dominio della Chiesa e nelle quali essa ha il diritto di intervenire. In queste materie la Chiesa compie un duplice lavoro: un lavoro di difesa e un lavoro di formazione.

            La Chiesa difende innanzitutto i suoi legittimi diritti, i diritti delle famiglie e degli individui, quando ad essi si attenti dai pubblici poteri, quando lo Stato si arroghi il diritto di legiferare contro di lei nelle materie che sono di esclusivo dominio ecclesiastico o che dipendono, sotto diverso aspetto, dall’autorità del potere religioso e da quella del potere civile. La Chiesa protegge le giuste libertà contro ogni specie di oppressione e tirannide, e in mezzo al turbinio degli errori e allo sconvolgimento delle idee, custodisce intatti i principii di ordine, di giustizia, di moralità, che sono il più solido fondamento e sostegno della società.

            In secondo luogo la Chiesa compie un lavoro di preparazione e di formazione delle coscienze, sia per riguardo ai cittadini, sia per riguardo ai governanti, dando loro saggi ammaestramenti e somministrando aiuti efficaci per l’adempimento delle rispettive loro funzioni. La Chiesa vuole che i suoi figli partecipino alla vita dello Stato e si rendano atti, mediante una cosciente preparazione religiosa, morale e culturale, a dare una soluzione cristiana ai problemi della vita pubblica. «Noi cattolici, diceva Pio XI, vogliamo risolvere tutti i problemi, quelli della vita privata e quelli della vita pubblica, quelli della vita civile e quelli della vita politica. Appunto per questo abbiamo bisogno che le anime siano formate nella dottrina cattolica»[8]. E perciò è dovere dei cattolici formarsi cristianamente anche in politica. «Man mano che questa formazione viene fatta, nella stessa misura vengono preparate le grandi decisioni e le grandi cose. E così i cattolici intervengono nelle cose politiche con coscienza sempre più illuminata e profonda»[9]. E il Papa ricordava con compiacenza a questo proposito le lotte del Centro tedesco, «nelle quali con vera ammirazione si videro e si udirono, avvocati, medici, scienziati, in sede perfettamente politica, trattare argomenti che interessavano la causa di Dio. Della coscienza e della religione, con competenza profonda e con la nobiltà di sentimenti con cui avrebbero potuto trattarli i vescovi»[10].

            Preparare con le dottrine evangeliche dei buoni sudditi e dei saggi governanti, ecco un’azione politica della Chiesa. In questo senso e solo in questo senso, essa «fa della politica». E la sua politica è la più eccellente e perfetta, la più utile per l’individuo e per la società, perché gli interessi di Dio e delle anime sono evidentemente gli interessi più profondi e insieme più alti, la base e il coronamento di tutti gli altri, la condizione indispensabile, la sanzione unicamente sicura e valida di tutto quello che si può pensare a favore del pubblico bene[11]. «La Chiesa, scrive Leone XIII, benché per natura abbia direttamente di mira la salute delle anime e la felicità eterna del cielo, tuttavia anche nell’ordine temporale reca tali e tanti vantaggi, che più o maggiori non potrebbe, se fosse direttamente destinata a procacciare soprattutto la prosperità della vita presente»[12].

 

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            I ministri della Chiesa pertanto e i cattolici in generale non possono venire impediti, senza commettere una patente ingiustizia e malvagità, di esercitare la loro azione religiosa e morale sul terreno politico. Accusarli poi di mirare in tal modo ad allargare indebitamente i poteri dell’autorità religiosa in danno dell’autorità civile, è una calunnia per fornire allo Stato un pretesto di perseguitare i cattolici e dare così un’apparenza di legalità alle sue violenze. «È necessario, scrive Leone XIII, additare una calunnia astutamente sparsa per accreditare contro i cattolici e contro la Santa Sede stessa imputazioni odiose. Si pretende che l’accordo e il vigore d’azione inculcati ai cattolici per la difesa della loro fede, abbiano segreto movente non la salvaguardia degli interessi religiosi, quanto piuttosto l’ambizione di procurare alla Chiesa una dominazione politica sullo Stato». Ed osserva giustamente il Pontefice che la calunnia è ben antica, perché fu formulata dapprima contro la persona stessa di Gesù Cristo e poi rinnovata contro la Chiesa in ogni epoca[13].

            Il clero non può accontentarsi di spaziare soltanto nella serena regione dei dogmi, non può restringere la sua missione nel «recinto delle sacrestie», limitarsi alle pie pratiche religiose, interessarsi soltanto agli affari privati. Esso è incaricato di annunziare tutto il Vangelo, le verità che riguardano i dogmi e le leggi che toccano i vizi e le virtù. La Chiesa ha il diritto di giudicare tutti gli atti che si commettono contro la fede, la morale, il culto, qualunque sia la persona privata o pubblica che li commette; ha il dovere di insorgere, di ammonire e protestare in nome di chi le ha conferito la missione di condurre le anime al cielo.

            Spetta certamente alla Chiesa ammaestrare l’uomo privato nelle vie della giustizia, ricordare ai sudditi l’obbligo dell’ubbidienza alle autorità legittimamente costituite, richiamare all’ordine i popoli tumultuanti e frenare le violente cupidigie. Ma essa deve pure esplicare con non minore sollecitudine e zelo l’opera sua verso i governanti e gli uomini pubblici. Se un governo infrange le leggi più sacrosante della giustizia e viola i diritti più imprescindibili dei popoli; se reca offesa alla moralità, se perseguita la religione combattendone le dottrine e impedendole il libero esercizio del suo ministero, la Chiesa di Dio non può «lasciar fare e tacere», ma deve alzare la sua voce di condanna. La sua acquiescenza e il suo silenzio in simili casi sarebbero una viltà e un tradimento.

            Questa politica religiosa, che, equamente temperando i diritti e i doveri nei principi e nei popoli, tanti vantaggi procurò alle nazioni cristiane, fu in ogni tempo praticata dai più zelanti e insigni Pastori di anime, con la voce, con la penna, con l’autorità, con il consiglio, con tutti quei mezzi che Gesù Cristo ha lasciati alla sua Chiesa[14]. E la Chiesa continuerà a fare questa politica anche nell’avvenire, e se i suoi sforzi torneranno inutili contro la malvagità e la forza, non saranno mai inutili i suoi insegnamenti e le sue proteste per salvare la santità del diritto.

            Pertanto, parlando in generale, anche il clero ha il diritto e il dovere di esercitare la sua azione politica nel senso che abbiamo detto della Chiesa. Vi allude Pio XI nella lettera all’Episcopato del Messico (2 febbraio 1926), quando dice: «Nemmeno gli ecclesiastici debbono disinteressarsi e non curarsi delle cose civili e politiche; che anzi, pur mantenendosi interamente fuori di qualsiasi partito politico e salve le esigenze supreme del loro ministero, è loro dovere, come sacerdoti, di contribuire al bene della nazione sia con l’esempio del coscienzioso esercizio di doveri e diritti a loro ordinatamente spettanti, sia formando le coscienze secondo le norme indefettibili della legge di Dio e della Chiesa, al diligente adempimento dei pubblici doveri. Per raggiungere questo mobilissimo scopo, il clero, benché debba rimanere libero da qualsiasi contesa di parte, avrà tuttavia innanzi a sé un largo campo di azione religiosa, morale, culturale, economica e sociale, diretta a formare la coscienza cattolica dei cittadini e soprattutto della gioventù sia studiosa sia lavoratrice»[15].

            E già prima scrivendo agli Ordinari d’Italia, asseriva: «Certo non si può negare al Vescovo e al Parroco il diritto di avere, come privati cittadini, le proprie opinioni e preferenze politiche, purché siano conformi ai dettami della retta coscienza e agli interessi religiosi. Ma è del pari evidente che, in quanto Vescovi e Parroci, essi dovranno tenersi in tutto alieni dalle lotte dei partiti, al di sopra di ogni competizione meramente politica. È ben vero che nella pratica non è sempre agevole segnare con precisione il limite della distinzione accennata; né può quindi riuscire facile, nella varietà dei casi particolari, fissare quando una determinata azione riguardi la ragione di privato cittadino o appartenga a quella della personalità pubblica, che deriva dall’ufficio»[16].

            La politica invece di cui la Chiesa non s’interessa mai è la politica degli affari puramente temporali e civili, in cui non entra la morale e la religione. Per esempio la Chiesa non deve occuparsi della forma di governo, della sua amministrazione, della sua polizia, dell’ordinamento dell’esercito, del conferimento delle cariche e degli impieghi. Tutto questo è indifferente, purché sia salva la giustizia e la rettitudine. «È manifesto, scrive Leone XIII, che i reggitori degli Stati nell’amministrare la cosa pubblica sono liberi e indipendenti... La Chiesa, custode del suo diritto e osservantissima dell’altrui, è indifferente alle varie forme di governo e alle istituzioni civili degli Stati cristiani, perché vi sia rispettata la religione e la morale cattolica»[17].

            Similmente la Chiesa è estranea alla politica di partito; è, per usare la formula più volte ripetuta da Pio XI, al di fuori e al di sopra di ogni partito politico. I partiti politici infatti di loro natura tendono a particolari interessi, e quando mirano al bene comune, sempre vi mirano dietro il prisma di particolari vedute. La Chiesa invece traccia bensì i supremi principii che reggono la politica, ma non si cura dei mezzi per attuare questi principii, quando i mezzi nella loro differenziazione lasciano intatte le norme dell’onestà e della giustizia. Che se queste venissero in qualche modo violate, la Chiesa ha il diritto e il dovere di intervenire con il suo giudizio e la sua condanna. Essa perciò non assume il patrocinio dei partiti politici, non si fa garante dei loro programmi, non si rende responsabile della loro attività, non si lega alle loro vicende né si conforma alle esigenze mutabili della loro politica. «Trarre la Chiesa ad un partito, avverte Leone XIII, e volere che essa presti il suo aiuto a superare i partiti politici avversari, è un fare abuso della religione. Questa deve essere presso tutti santa e immacolata»[18]. Pio XI dichiara: «Bisogna fuggire l’opinione erronea di quelli, che mischiano la religione con un partito sino ad affermare che i loro avversari politici hanno quasi cessato di essere cattolici. Questo è fare penetrare indebitamente le passioni politiche nell’augusto campo della religione e voler distruggere la carità fraterna e aprire le porte ad una funesta moltitudine di inconvenienti»[19].

            Questa condotta è imposta anche alle Associazioni di Azione Cattolica e ai sacerdoti, come ha dichiarato la S. Sede. «L’azione Cattolica, ammonì Pio XI, come la Chiesa di cui è collaboratrice diretta, non ha un fine materiale, ma spirituale. Per cui è nella stessa sua natura che , come la Chiesa, si mantenga al di fuori e al di sopra dei partiti politici, essendo essa diretta a tutelare non già particolari interessi di gruppi, ma a procurare il vero bene delle anime»[20]. Si comprende quindi che l’Azione Cattolica, «come tale, non deve fare politica parziale, la piccola politica, ma si riserba e si dedica alla grande politica, ai primi beni sovrani, che sono la base di tutti gli altri»[21]. Lo stesso si dica del clero, a cui spetta la cura degli interessi divini di tutto il popolo: «Ogni sacerdote… per il carattere sacro di cui è rivestito e per il ministero che gli è affidato, deve interdirsi qualunque atteggiamento che possa allontanare gli animi dall’amore e dal rispetto verso la religione e trascinare la sua persona nel giuoco delle passioni politiche e degli interessi prettamente temporali». Così raccomandava una circolare della Congregazione dei Religiosi ai Religiosi d’Italia il 10 febbraio 1924. E nella Lettera all’Episcopato della Lituania, già sopra citata è detto:«Si deve evitare che la dignità del ministero sacerdotale venga menomata fra i conflitti di partito, e che quelli che appartengono a partiti avversi, forse ingannati da un errore, non si allontanino dalla religione».

 

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            La Chiesa tuttavia con questo suo atteggiamento non intende affatto vietare ai singoli cattolici di fare aziona direttamente politica. Essi vi hanno diritto, come tutti gli altri cittadini, e perciò è lasciata loro piena libertà di far parte di organizzazioni a carattere politico, purché queste organizzazioni diano le necessarie garanzie per il rispetto dei diritti di Dio e della coscienza, e anche di raggrupparsi in partiti politici per raggiungere determinati scopi leciti[22]. Anzi l’azione politica viene raccomandata ai cattolici come u dovere. «Non si condanna in se stessa, scrive Leone XIII, la partecipazione più o meno larga dei cittadini all’andamento della cosa pubblica,  partecipazione che in date circostanze e con certe condizioni può essere non solo utile, ma anche doverosa… L’astensione dalla vita politica non sarebbe meno biasimevole che il rifiuto di qualsiasi concorso al bene pubblico; tanto più che i cattolici, in ragione dei loro principii, sono più che mai obbligati a portare, nel disbrigo degli affari zelo e integrità»[23]. Lo stesso insegnamento è impartito da Pio XI: «I cattolici, scrive egli, mancherebbero ad un loro dovere, se non si interessassero secondo le loro forze alle questioni politiche della città, della provincia e dello Stato… Se i cattolici stanno inoperosi, la direzione delle cose viene facilmente presa da quelli le cui decisioni non danno grande speranza di salvezza»[24]. «Il partecipare alla vita politica risponde ad un dovere di carità sociale per il fatto che ogni cittadino deve, secondo le sue possibilità, contribuire al benessere della propria nazione. E quando tale partecipazione sia ispirata ai principii del Cristianesimo, molto bene ne deriva non solo alla vita sociale, ma anche alla vita religiosa»[25].

            Tra i cattolici, per divergenze di opinioni circa il modo di raggiungere il bene comune, possono sorgere più partiti politici lecitamente discordanti sul terreno politico, ai quali essi possono aderire. «Se si tratta, scrive Leone XIII, di cose meramente politiche, come sarebbe della migliore forma di governo, del modo di ordinare gli Stati secondo questo o quel sistema, è fuori dubbio che intorno a questi punti si può onestamente essere di diversi pareri. La Chiesa non si ingerisce nelle diverse concezioni politiche dei cattolici né intralcia la loro attività e il loro sviluppo. Soltanto quando sono in giuoco gli interessi di Dio, quando si lotta per le più fondamentali libertà e per i diritti della Chiesa e dei popoli, allora vuole che i cattolici facciano tacere le discordie intestine e le gare dei partiti, e si uniscano nello scopo comune di mettere in salvo i valori religiosi e morali»[26].

            In qualche raro caso la Chiesa può condannare un determinato gruppo politico, se per le sue dottrine e per i suoi metodi costituisce un serio pericolo per la Religione e per il Paese[27] o, per gravi motivi di ordine superiore, suggerisce ai cattolici organizzati in un partito politico, norme e orientamenti pratici, che, in certi casi, contrastano o sembrano contrastare con la disciplina e il particolare vantaggio del partito stesso[28]. Non sarà vietato ai cattolici  in questi casi presentare, se lo credono opportuno, col dovuto rispetto e nei modi convenuti, le proprie ragioni all’autorità ecclesiastica. Ma poi dovranno, in fondo, ricordare che gli interessi politici, per quanto onorevoli e seri, sono sempre da posporsi agli interessi religiosi; l’azione politica dovrà sempre essere, per un sincero cattolico, in funzione del trionfo della sua fede e non viceversa.

            Alla luce di questi insegnamenti non solo restano chiari teoricamente i rapporti tra Chiesa e politica, ma in pratica viene tracciata ai cattolici una linea di condotta per fare della politica. La politica cristiana, fatta di lealtà, di onestà, di sacrificio e di coraggio, è parte importante dell’apostolato dei cattolici. Essa infondendo in tutte le vene dello Stato, a guisa di succo e sangue vigorosissimo, i precetti del Vangelo, diviene strumento efficace per promuovere la tranquillità sociale, il regno del diritto e della giustizia, e, per conseguenza, la vera grandezza e prosperità dei popoli e delle nazioni. I cattolici, quindi, possono e devono meditare quale, nelle contingenze storiche del momento, sia la posizione da prendere, ma non possono restare assenti e disinteressarsi di qualsiasi attività politica, massime quando più urge la loro opera collaboratrice per la ricostruzione e la salvezza della società.

 


[1] Enciclica Libertas.

[2] Costituzione Dei Filius  del Concilio Vaticano.

[3] Enciclica Sapientie Cristianae. Dello stesso pontefice si confrontino intorno a questo punto le encicliche: Diuturnum Illud (1881) sull’origine del potere pubblico; Libertas (1888) sulla libertà; Rerum Novarum (1891) sulle condizioni degli operai.

[4] Ai soci della FUCI, 8 settembre 1924. Cfr. Pio XI e l’Azione Cattolica, Roma, Ferrari, 1928, p. 94.

[5] La parola del Papa, a cura del sac.  A. M. CAVAGNA, Milano, Vita e Pensiero, 1937, p. 138.

[6] Cfr. Pio XI e l’Azione Cattolica, pp. 182, 218. 358.

[7] Enciclica Immortale Dei.

[8] Ai soci della G.C.I. di Roma, 19 ottobre 1927. Cfr. Pio XI e l’Azione Cattolica, p. 84.

[9] Agli uomini cattolici, 30 ottobre 1926. Cfr. Pio XI e l’Azione Cattolica, p. 183.

[10] Discorsi agli Universitari, «Quaderni universitari» X. Roma, Editrice Studium, p. 35.

[11] Veneziani, Pio XI, Roma, Istituto Gualandi, 1935, p. 74.

[12] Enciclica Immortale Dei.

[13] Enciclica Au milieu Ai cattolici di Francia.

[14] Enciclica Diuturnum illud.

[15] Cfr. Pio XI e l’Azione Cattolica, p. 35.

[16] Cfr. Op. cit., p. 334.

[17] Enciclica Sapientiae christianae.

[18] Enciclica Sapientiae christianae.

[19] Ai Vescovi della Lituania, 4 giugno 1928. Cfr. Pio XI e l’Azione Cattolica, p. 139.

[20] Lettera al Card. Patriarca di Lisbona, 10 novembre 1933. Cfr. A. M. CAVAGNA, La parola del Papa sull’Azione Cattolica, Milano, Vita e Pensiero, 1937, p. 139.

[21] Discorso di Pio XI alle Leghe Femminili Cattoliche 6 aprile 1934. Cfr. A. M. CAVAGNA, Op. cit., p138.

[22] Lettera di Pio XI al Patriarca di Lisbona, 10 novembre 1933. Cfr. A. M. CAVAGNA, Op. cit., p. 139.

[23] Enciclica Immortale Dei.

[24] Ai Vescovi della Lituania, l. c.

[25] Al Patriarca di Lisbona, l. c.

[26] Enciclica Immortale Dei. A questo proposito cfr. anche: Discorso di Pio XI al Concistoro del 20 dicembre 1926. Cfr. La parola del Papa sull’Azione Cattolica, p. 148.

[27] Pio XI e la condanna dell’Action Français. Cfr. Pio XI e l’Enciclica «Non abbiamo bisogno» (20 giugno 1931) contro il Fascismo. I Vescovi del Belgio in una Pastorale collettiva (20 giugno 1930) condannarono il partito di Degrelle (Rex). Cfr. RICHE, Catholicisme e Politique, Bruxelles, La citè chrètienne, 1937.

[28] Lettera di Pio XI all’Arcivescovo di Breslavia, 18 novembre 1928. Cfr Pio XI e l’Azione Cattolica, p. 51.

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