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INIZIO  SEI E SETTECENTO  OTTOCENTO  L'ARCO

Storia della viola

Viole e strumenti di transizione fra Quattro e Cinquecento

Il fiorire della cultura rinascimentale europea ed italiana in particolare, ha dato una sferzata di energia a scienze, musica, pittura; a tutto quanto, cioè, aveva vissuto un lungo periodo di stasi in seguito a secoli ricchi di Capovolgimenti politici, guerre, epidemie, ecc.. Ad esempio possiamo pensare alla sorte di quei codici conte­nenti capolavori della latinità, che ci sono stati conservati grazie all’impegno di copiatura e cura attenta che si svolgeva nelle abbazie medievali, ma che solo nel Rinascimento hanno iniziato ad essere apprezzati, ricercati e studiati, dando vita appunto ad un “rinascimento” del pensiero filosofico, artistico e tecnico tramandato per mezzo loro.

Questa vivacità ha investito anche la musica sotto tutti gli aspetti: teorico, compositivo ed organologico. Per ciò che riguarda quindi gli strumenti ad arco (tralasciando quanto concerne le viole da gamba, che meritano una trattazione a sé) sicuramente fra Quattro e Cinquecento ha avuto particolare sviluppo la ricerca tanto di nuove forme, quanto di nuove possibilità sonore. Lo si nota dalla varietà degli strumenti sopravissuti, dalle descrizioni dei teorici del tempo, ma, soprattutto, dalla ricchezza delle fonti iconografiche, le quali mostrano ogni sorta di strumento, reale o di fantasia che possa essere.

Nelle raffigurazioni rinascimentali la precisione del disegno denota sovente una familiarità del pittore con lo strumento ed il modo di suonarlo. In effetti spesso l’artista medesimo era anche esecutore di buon livello (ricordiamo Leonardo da Vinci, giunto a Milano e presentato alla corte di Ludovico Sforza come divino cantore e suonatore di lira), ma, quandanche non lo fosse, aveva premura di documentarsi dettagliatamente su quanto voleva rappresentare. E, di strumenti musicali, l’arte figurativa italiana dell’epoca è piena: di norma compaiono nelle mani di angeli e putti festanti che fanno corona alla Madonna o decorano colonne e lesene frammisti a fiori e frutta. Poi sono presenti pure in miniature, riproduzioni di giardini delle delizie”, tarsie in legno, ritratti di personaggi famosi e chissà quantaltro ancora.

In relazione agli strumenti ad arco, la molteplicità della tipologia testimonia la ricerca al meglio: meglio quanto al suono (un oggetto sonoro è tanto più apprezzato, quanto più si avvicina al timbro ed alle possibilità espressive della voce umana); meglio quanto alla maneggiabilità (con l’incurvarsi del ponticello, che favorisce l’esecuzione monodica, si creano gli incavi laterali affinché l’archetto non tocchi la cassa; il legno utilizzato e la sua lavorazione corrispondono sempre più ad esigenze acustiche; il numero e l’accordatura delle corde si ottimizzano, modellandosi sul repertorio da eseguire; ecc.); meglio quanto alla gradevolezza visiva (le forme ed i materiali tendono comunque alla realizzazione del bello).

Sarà dunque dall’incessante lavoro di modifica compiuto fra i secoli XV e XVI che si svilupperanno gli strumenti ad arco della famiglia del violino. Abbiamo, di questo periodo, una ricca trattatistica. Infatti l’avvento della stampa (Gutenberg, a Magonza, nel 1455) e della stampa musicale in particolare (a Costanza nel 1473) produce una diffusione di testi scritti mai vista prima. Notiamo in questi volumi il tentativo di un’esposizione più chiara possibile dei suoni, delle voci umane, degli strumenti, dei generi musicali e delle regole di composizione, tanto a causa della destinazione ad un lettore colto, ma non iniziato, come accadeva invece per la sag­gistica medievale, quanto per la mutata sensibilità generale in favore di una conoscenza pratica nei confronti delle cose e dei problemi. Così, se Boezio (480 c. - 524) trattava del rapporto dei suoni con le sfere cele­sti, i vari Lanfranco, Zarlino, Jambe de Fer, Gaffurio, preferiscono dar prescrizioni sul come organizzare questi suoni in un brano da comporsi ed eseguirsi concretamente in quel momento ed in quel luogo. Ecco, forse è proprio la contemporaneità di stesura del testo e relativa fruizione, che ci crea oggi alcune difficoltà nella comprensione di quanto vi è scritto: ad esclusione delle mirabili tavole del Syntagma Musicum di Praetorius, già però più tarde (parte III, 1619-1620), che recano persino una precisa scala di riferimento per le dimensioni reali degli oggetti raffigurati, gli altri testi lasciano a volte sottintese delle informazioni che sarebbero di grande aiuto per colmare tutte quelle lacune di ordine organologico ed esecutivo che attualmente ci accompagnano. Per i contemporanei, infatti, queste informazioni appartenevano ad un patrimonio comune di conoscenze che s’è ormai perduto. Quindi gli strumenti superstiti, i trattati, gli inventari e le cronache, i quadri ed il rilievi non sono comunque sufficienti a mostrarci un chiaro panorama dell’evoluzione della viola ed i suoi consimili. In effetti, se persino nell’Otto e Novecento abbiamo una confusione terminologica intorno ai vari tentativi operati su strumenti da inserire fra la tessitura di violino, viola e violoncello (controviolino, contra violino, controviola, violino alto, viola alta, ecc.), possiamo comprendere come ciò sia accaduto ancor più facilmente in epoca rinascimentale, quando, oltre tutto, gli scambi culturali avvenivano con lentezza, sulla scia delle complessità generali degli spostamenti e delle comunicazioni, spesso resi più difficili da problemi di traduzione.


Così non sempre termini uguali si riferivano a strumenti uguali, mentre strumenti simili potevano aver nomi del tutto diversi.

Vi sono strumenti, quali la lira e la ghironda, che sono a noi noti e ben definiti; per loro le fonti teoriche, iconografiche e strumentali concordano. Invece per gli strumenti ad arco che hanno accompagnato preparazione, nascita ed evoluzione della viola non è possibile organizzare un discorso preciso. Con la ribeca si sviluppano la giga, la viella, la fidu la, il fibei, la crotta o rotta. Tutti questi sono accomunati intanto dalla ne­cessità di un archetto per la produzione del suono, poi dalla presenza di corde non tastate (da 3 in su) che corrono lungo un manico e comunicano con la cassa armonica tramite un ponticello abbastanza arcuato. Si differenziano al contrario per le dimensioni totali ed il rapporto di misura fra cassa e manico, per il modo col quale le corde sono fissate alle estremità e per l’accordatura delle medesime, per il disegno della cassa, i ma­teriali impiegati e le modalità di lavorazione. Esistono in proposito studi vari che, raffrontando tutte le possibili fonti, cercano di dar soluzione a queste incertezze di riconoscimento ed organizzazione.

Anche la viola fa parte degli strumenti ad arco rinascimentali. In documenti del Governo di Perugia fra il 1462 ed il 1469 è citato un ‘Magister Violinista”; strumentisti provenienti dall’Italia, violinisti, compaiono nel registro paga del Papa Paolo III nel 1538. Il violino viene descritto nell’Epitome Musicale (1556) di Philippe Jambe de Fer, dove sono illustrate anche le accordature del contralto e del tenore della famiglia del violino, testimoniando la contemporanea presenza di viola e violino. Prive di senso sono le polemiche di chi, oggi, si affanna a dimostrare la priorità della viola sul violino, o viceversa.

Le nostre conoscenze attuali non possono darci la data di costruzione del primo violino o della prima viola nella forma odierna, ma sono in grado d’indirizzarci verso la collocazione di entrambi in un’area nord-ita­liana della metà del XVI secolo.

 Bisogna comunque tenere presente che uno strumento di nome viola ha fatto parte dei progenitori sopra indicati, talvolta con caratteristiche costruttive differenti da quelle che si sono poi codificate. Inoltre il vocabolo ‘viola” è stato utilizzato di volta in volta come termine generico per designare vari strumenti ad arco. Già il Vasari, ad esempio, annota ‘lira ovvero viola” descrivendo un affresco. Musicisti che portano l’appellativo ‘Della Viola” non suonano necessariamente questo strumento in particolare, ma sono riconosciuti virtuosi nella pratica degli archi musicali in genere.

Una certa confusione vi è stata talora anche con le viole da gamba (purtroppo, persino in alcune traduzioni d’oggi!), spesso chiamate solo “viole” in ambienti culturali dove non poteva esservi fraintendimento, essendo conosciute ed impiegate solo loro.

  La prima viola d’aspetto moderno che ci è giunta è di Andrea Amati (1505/10-1577/80) e porta la da­ta del 1574. Dopo questa altre ne rimangono, e dello stesso artefice, e di altri Cremonesi e Bresciani di generazione prossima. Ricordiamo Gasparo da Salò (1540 - 1609), al quale oggi sono attribuite forse 26 viole. E poi ancora Antonio e Geronimo Amati a Cremona, Luigi Mariani a Pesaro, Paolo Maggini a Brescia. Era inoltre attiva una scuola tedesca, il cui esponente di rilievo è Kaspar Duiffoprugcar (1514 - 1572), originario della Baviera ma operante a Lione, considerato fra gli iniziatori degli strumenti appartenenti alla fami­glia del violino, così com’è intesa in senso moderno.

Per quanto riguarda le misure di queste prime viole, non c’era uno standard, allora come oggi. Dalla metà del Cinquecento alla fine del Seicento la tendenza è stata quella di costruire due taglie di viola, in analogia con il consort delle viole da gamba.

Benché i gruppi d’assieme prevedessero un’unione quanto mai varia di strumenti a fiato, ad arco, pizzico, tastiera e percussione, per semplificare immaginiamo qui due formazioni omogenee, composte l’una di strumenti appartenenti alla serie del violino, l’altra a quella della viola da gamba (gruppi-campione comun­que realmente esistiti, citati da più autori nei trattati e nelle descrizioni di feste e banchetti). La scrittura musicale polifonica prevedeva di solito una voce acuta (o due, soprattutto nella tradizione francese), affidata al violino o alla viola da gamba soprano; due voci intermedie di contralto e tenore, eseguite con le viole da braccio o le viole da gamba contralto e tenore; una voce di basso, per il violoncello o la viola da gamba basso, eventualmente raddoppiati all’ottava inferiore da un basso di viola. Come le viole da gamba contralto e tenore erano accordate all’unisono, differendo solo per le dimensioni della cassa armonica, e quindi per la diversa pienezza timbrica risultante, così le viole da braccio avevano due misure fondamentali: quella piccola, con una cassa di 38/40 cm, dotata di una voce più sottile ed un timbro chiaro, eseguiva la parte di contralto:

quella grande, di circa 43/44 cm (ma la viola Medicea di Stradivari arriva a ben 47,8 cm), emetteva suoni profondi e pieni, rendendo ottimamente la tessitura della parte di tenore.

Molti degli strumenti grandi hanno purtroppo subito una riduzione di misura intorno all’Ottocento, riduzione operata per renderli utilizzabili nell’esecuzione di musica contemporanea, più complessa tecnicamente di quella rinascimentale, per cui ben pochi di quelli che ci sono pervenuti sono ancora nella misura grande originale. Sufficienti tuttavia per farci comprendere quale grado di finezza culturale e di civiltà musicale avesse potuto richiedere la realizzazione di opere d’arte di tal fattura.

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  Viole nel Sei e Settecento

Nel Seicento la viola prosegue l’itinerario avviato durante i decenni precedenti.

La tradizione liutaria si mantiene solida nelle città del Nord Italia: Cremona, soprattutto, ma anche Brescia, Milano e Venezia. Ad essa si affianca ben presto quella tedesca (e tirolese in particolare) con caratteristiche sue proprie. Bisognerà attendere la fine del secolo, invece, per avere uno sviluppo di quest’arte prima in Francia e poi in Inghilterra, Paesi nei quali la diffusione del violino ha dovuto infatti combattere a lungo contro il pre­dominio della viola da gamba. Qui perdurava la prassi rinascimentale, caratteristica di queste Regioni medesime, secondo la quale le due famiglie ad arco non si mescolavano che assi raramente, vuoi per timbro e sonorità assolutamente diversi, vuoi per le preferenze geografiche, vuoi anche per il distinto stato sociale degli esecutori. La viola da gamba era lo strumento nobile, appropriato allo svago personale di colti dilettanti nelle sale da musica di sontuosi palazzi. Il violino ha mantenuto per circa un secolo dal suo apparire un caratte­re più popolare, nonostante gli sforzi di alcuni autori per dotarlo di un repertorio che lo elevasse ad un rango signorile. Usato da musicisti di professione (stipendiati, non aristocratici), serviva per far danzare, intona­re melodie, animare feste, intrattenere i gentiluomini, ecc..

Ancora nel Settecento la Francia difendeva e propugnava la viola da gamba, che ormai in Italia annoverava ben pochi cultori: va detto però che qui la scelta di sonorità violinistiche, piuttosto che “gambistiche”, dipendeva spesso da ragioni più politiche che musicali, dato che il violino ed i suoi esecutori, importati dall’Italia, erano appoggiati nelle varie “querelles” che’, animando di quando in quando gli animi di pensatori e governanti, dipendevano da ben altre cause, mentre la viola da gamba simboleggiava la più pura e salda tradizione francese, di nobiltà e di cultura, prima che di musica.

Nel Seicento continua la costruzione di viole in due taglie diverse. Ancora non esiste letteratura solistica per la viola, il cui impiego è circoscritto al ripieno orchestrale. Anzi, in Italia lo sviluppo della sonata solistica per violino e della sonata a tre per due violini e basso relega la viola in secondo piano; l’orecchio predilige il timbro argentino e spiccato del violino, col quale la viola non può competere. Ovviamente anche il numero delle viole prodotte è di gran lunga inferiore a quello dei violini contemporanei e, di queste, ne sono giunte sino a noi ancor meno.

  Ma del Sei e Settecento sono le grandi dinastie di liutai famosi del Nord Italia, di cui abbiamo alcuni esemplari. Ricordiamo la famiglia Guarneri, che vede gli esponenti principali in Andrea (1626c. - 1698) e Giuseppe del Gesù (1698 - 1744), Antonio Stradivari (1644c. - 1737), Domenico Montagnana (1687c. -1750), Giovanni Battista Guadagnini (1685c. - 1770c.), Carlo Bergonzi (1683c. - 1747), i Testore, attivi a Milano nei secoli XVII e XVIII, ed i Gagliano, a Napoli nello stesso periodo. Per quanto la loro produzione sia orientata maggiormente verso i violini, nondimeno hanno creato viole mirabili; tutte le misure di quelle che conosciamo variano molto, a seconda dell’estro del creatore, dando spunto a copie d’ogni genere sino ai nostri giorni.

  Con l’ultima parte del Seicento siamo giunti ormai alla definizione delle famiglie di strumenti, all’incirca simili alle attuali. Non cessano però gli esperimenti, nella continua ricerca del nuovo. Curiosi sono la forma e l’intarsio della viola Grancino che appare in figura. Ancor più il caso della viola pomposa, sorta di piccolo vio­loncello dotato di cinque corde. Del resto, tentativi d’ogni genere saranno effettuati analogamente nei secoli successivi, e con il baryton e l’arpeggione, ad esempio, e con l’invenzione di viole particolari.

Accanto alla prestigiosa scuola italiana, quella francese vede in Nicholas Claude Pierray (1698 - 1726) e Fran~ois Henocq (sec. XVIII) alcune figure di rilievo. La Francia tuttavia sarà maggiormente rinomata nella costruzione di archetti.

Un discorso peculiare merita la Germania, con le famiglie degli Steiner e dei Klotz. Jakob Steiner (1617c. 1683) aveva studiato liuteria in Italia, a Venezia e Cremona. Applicando le proprie conoscenze ha costruito poi strumenti diversi da quelli di scuola italiana, generalmente di misura un poco ridotta e caratterizzati da un suono pieno sulle note basse ed argentino sugli acuti. Alcuni lavori che recano il suo nome sull’etichetta interna sono in realtà opera del fratello Marcus (1633c. - 1693). I due Steiner sono considerati capostipiti del­la scuola liutaria tirolese, che ha avuto influssi notevoli su quella tedesca.

Numericamente superiore il gruppo familiare dei Klotz, attivo in Baviera nella seconda metà del Seicento, sino ai primi anni dell’Ottocento. Esponenti principali ne sono Matthias (1653 - 1743), Sebastan (1696 -1775) ed Aegidius Sebastian (1733 - 1805). Nei loro strumenti troviamo la sintesi dell’arte dell’Italia del nord e tedesca. Numerosi liutai si sono formati alla loro scuola, diffondendone l’insegnamento nelle aree di lingua germanica.

Altri Paesi europei si riallacciano alle tradizioni costruttive portate avanti, soprattutto, da Italia e Germania, a seconda della vicinanza geografica e della dipendenza culturale. L’Inghilterra, ad esempio, ricrea le forme degli Amati e di Stradivari, probabilmente in seguito alla fortuna che tutta la musica italiana, operistica e non, gode allora nel Regno.

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  Viole nuove e modificate nell’Ottocento

Man mano che, con la nascita e lo svilupparsi della borghesia acculturata, la musica non resta confinata in determinati salotti, ma si amplia nei teatri e nelle pubbliche sale da concerto, divenendo un bene fruibile ad un numero sempre maggiore di uditori, a tutti gli strumenti musicali viene richiesto un volume sonoro più alto. In generale, i fiati sperimentano nuovi materiali, che risuonino al tempo stesso con più potenza e maggior espressività, e sistemi di chiavi, macchine e tasti che rendano la tecnica fluida e veloce, in sintonia con il desiderio di virtuosismo provato dalle masse (in fondo, ancor oggi certi funambolismi strumentali, seppur pro­dotti in austere aree di cultura, potrebbero venir inquadrati in una spettacolarità di tipo circense!); le tastiere cambiano addirittura il sistema di produzione del suono, mutando i plettri del clavicembalo e le tangenti del clavicordo nei martelletti del pianoforte, dotato di capacità dinamiche ben superiori; l’organo si orna con i registri detti “da concerto”, nel tentativo di arricchire la propria tavolozza sonora sull’esempio proposto dai rin­novati colori orchestrali.

Il violino è giunto già ad un culmine di perfezione, secondo il quale la forma, le dimensioni ed il materiale sono l’optimum delle possibilità. Per accrescere il volume del suono, ecco allora che si aumenta il diametro e la tensione delle corde. Allo scopo, intanto, bisogna incollare sotto la tavola una catena più lunga e spessa di quella precedentemente impiegata, che sostenga la maggior spinta del ponticello e diffonda onde sonore più potenti. Poi il manico riceve un’accentuata inclinazione all’indietro, affinché le corde siano più tese e distanti dalla tastiera, dando forza alle sonorità strumentali. La tastiera, inoltre, sarà allungata verso il ponticello, in modo da permettere l’esecuzione di note sempre più acute.

  Tutte queste modifiche, nonché alcuni ripensamenti sugli spessori, sulle misure delle fasce, la dimensione e la collocazione dell’anima, ecc., hanno avuto luogo dalla seconda metà del Settecento in poi, verificati su strumenti e di nuova produzione, e del passato più o meno prossimo. Ecco perché oggi è difficile reperire Amati, Stradivari, Guarneri ed altri nel loro aspetto originario; infatti tutti gli strumenti in uso sono stati via via aperti e modificati, e solo pochi, conservati come bene estetico o dimenticati a lungo in recessi nascosti dei palazzi, si sono mantenuti come sono stati costruiti. E questo il caso della grande viola di Antonio Stradivari, realizzata nel 1690 per Cosimo III de’ Medici ed ora custodita nel Museo degli Strumenti Musicali del Conservatorio di Musica “Luigi Cherubini” di Firenze.

  Più per sviluppare l’impiego virtuosistico dei cambi di posizione, che per l’attenzione al suono (che pure ne ha avuto vantaggio), è mutata anche la presa del violino: tenuto prima piuttosto basso, fermato leggermente dal mento all’occorrenza contro la parte alta del petto, esso risale verso la clavicola, dove potrà essere fissa­to con maggior stabilità mediante l’aiuto di mento e spalla.

Quanto detto per il violino vale ovviamente anche per la viola. Con un problema in più. Se il suono del violino era già ritenuto timbricamente perfetto dalla nascente sensibilità romantica, ed aveva unicamente bisogno di essere potenziato, il suono della viola veniva comunemente giudicato ora povero, ora cupo, ora troppo nasale. Questo apriva la strada a quanti potevano mostrarsi desiderosi di donare alla viola un suono più interessante.

Jean Baptiste Vuillaume (1798 - 1875) ha inventato nel 1855 il contralto: è questa una viola avente la cassa di una lunghezza mediamente normale, 41,3 cm, ma di larghezza quasi raddoppiata, per aumentare il volume dell’aria messa in vibrazione al suo interno. A parte l’aspetto deforme, che non ne invoglia l’utilizzo, essa è poco maneggevole per qualsiasi esecutore.

Hermann Ritter (1849 - 1926), tedesco, ha disegnato la viola alta incaricandone della costruzione il liu­taio Karl Adam Hoerlin. Questa viola, prodotta dal 1875 in più esemplari, aveva una cassa armonica di una lunghezza di 48 cm. Suonata dallo stesso Ritter incontrava il plauso di Richard Wagner, che ne avrebbe auspicata l’adozione da parte dei violisti della propria orchestra. Però scarso fu il successo fra i violisti medesimi, dato che una misura così grande, se migliorava e potenziava il suono, rendeva eccessivamente faticoso l’uso per ogni strumentista di normale figura fisica.

Altri esperimenti sono stati fatti, aggiungendo ad esempio la corda MI alla viola o il Do al violino, modificando questa o quella misura, ma di volta in volta nessuno di questi risolve il problema di coniugare un suono acusticamente accettabile, con un’accettabile proporzione fra lo strumento e l’esecutore.

Cessato il predominio cremonese, nell’Ottocento operano vari liutai, fra i quali, oltre al già citato Vuillaume, ricordiamo Nicolas Lupot (1758 - 1824), Vincenzo Panormo (1734 - 1813c.), Vincenzo Postiglione (1831 -1916), Gian Francesco Pressenda (1777 - 1854).

Come detto sopra, sull’ispirazione della fabbricazione industriale l’Ottocento vede pure nascere la produzione in serie di violini, viole, violoncelli e contrabbassi, avviata soprattutto in Germania. I tempi di realizzazione ed il costo finale di vendita, per strumenti assemblati da componenti provenienti da artigiani diversi, erano assai ridotti, ma ridotta era purtroppo anche la qualità sonora, che poco ricordava quella della grande liuteria classica.

Dunque nel secolo romantico, privata del mecenatismo principesco, la liuteria si perpetua e diversifica per le necessità di professionisti e dilettanti dell’archetto, continuando comunque a produrre lavori di pregio.

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  Gli archetti

 

La storia dell’archetto è complessa almeno quanto quella della viola. Ci limiteremo qui ad esporne i punti salienti.

Nell’aspetto attuale l’arco per la viola è formato da una bacchetta in legno di pernambuco o verzino, che termina agli estremi con la punta ed il tallone, cui è fissato il fascio dei crini. La bacchetta, lunga circa 74 cm, può essere ottagonale o rotonda e presenta una rastrematura fra metà e punta, necessaria per conferire stabilità all’arcata. Più o meno nella stessa zona si trova la massima concavità della bacchetta.

La punta, ricavata nella continuazione del legno, è protetta da una placchetta d’avorio. Dalla parte opposta il tallone consiste in un blocchetto d’ebano, il nasetto, cui sono assicurati i crini, che regola la tensione di questi grazie all’aggancio con una vite posta all’interno della bacchetta, cava solo in quel punto. Il nasetto ed il bottone terminale della vite di regolazione sono spesso decorati in madreperla. Il nasetto permette quindi un comodo appoggio ai polpastrelli della mano destra, mentre la bacchetta, della parte a contatto con le dita, è coperta da una striscia di pelle e da un filo di metallo (anche prezioso) avvolto a spirale. Tali protezioni, così come le decorazioni in avorio, madreperla, argento, oro ecc., devono essere ben calibrate per non sbilanciare il centro di equilibrio, che si trova a circa 25 cm dal tallone. Il peso normale di un arco da viola, vaiabile dai 64 ai 74 gr, è in genere però di 70/72 gr. I crini, provenienti da coda di cavallo, sono fra i 150 ed i 190; essi devono essere periodicamente sfregati con pece (o colofonia), un’apposita resina che favorisce l’attrito con le corde.

L’archetto può eccitare le corde in vario modo, secondo un assieme di possibilità denominate “colpi d’arco”: elenchi, esempi e spiegazioni di questi si trovano nei più seri volumi di tecnica per il violino o la viola.

Ripercorrendo la storia dell’archetto, notiamo come le prime fonti iconografiche, risalenti ai secoli immediatamente dopo il primo millennio, ce lo mostrino simile all’arco per tirar frecce: più corto, piccolo e delicato, ovviamente, ma ugualmente formato da una bacchetta lignea fortemente curvata, che tiene in tensione un mazzo di crini. La scarsa lunghezza (forse 30 cm circa) e la presa vicino al centro da parte dell’esecu­tore permettono solo arcate brevi e poco controllabili.

Nel corso del Rinascimento la convessità si riduce e la bacchetta s’allunga, dando vita a due modelli fondamentali d’arco, l’uno più lungo, idoneo alle note tenute per il canto o l’accompagnamento (ad esempio, per la lira), l’altro più corto, impiegato nella musica da ballo (ad esempio, dalla ribeca).

Raddrizzandosi la bacchetta si rende necessario un distanziatore per i crini: si aggiunge così un blocchetto di legno fisso, da inserire manualmente al tallone fra bacchetta e crini, che diventerà poi il moderno nasetto. Alla fine del Seicento viene adattato ad esso un meccanismo a cremagliera che, permettendone l’aggancio a dentini successivi ricavati nella bacchetta, determina una diversa tensione dei crini. Il grande violinista istriano Giuseppe Tartini (1692-1770) suonava con archi di questo genere.

Dopo essere stata convessa e poi diritta, alla fine del Settecento la bacchetta diviene concava, in analogia con le modifiche apportate contemporaneamente allo strumento per renderlo più sonoro.

  L’invenzione, o almeno il perfezionamento, dell’odierna regolazione a vite è attribuito a Francois Tourte (1747 - 1835). La casata dei Tourte ha dato all’archetto quello che le famiglie liutarie italiane del secolo precedente hanno dato agli strumenti. E con i suoi appartenenti, infatti, che si sono determinate le misure di lunghezza e di curvatura tuttora adottate, il sistema di piegatura a caldo, il numero dei crini, la classificazione dei legni più opportuni, ecc.. Dopo il loro operato a tal punto verrà avvertita nell’esecuzione l’importanza paritaria di un buon arco, che anche gli archetti saranno firmati dai costruttori.

Ricordiamo altri archettai degni di nota, quasi tutti appartenenti all’area francese: John Dodd (1752 -1839), Francois Lupot (1774 - 1837), il succitato Jean Baptiste Vuillaume (1798 - 1875), Dominique Pecatte (1810 - 1874), Fran~ois Nicolas Voirin (1833 - 1885), Eugène Sartory (1871 - 1946).

Notiamo come la costruzione di strumenti ed archi, che sin dall’inizio veniva effettuata dagli stessi artefici, con la metà dell’Ottocento sia stata poi compiuta da artigiani distinti, a causa del crescente grado di specializzazione via via richiesto.

Fra i più recenti esperimenti verso nuove strade segnaliamo l’impiego del carbonio al posto del legno di pernambuco, attualmente reperibile con difficoltà.

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