Moni Ovadia in un suo spettacolo “Oylem Goylem” , dedicato al popolo ebraico, parla dell'esilio adoperando delle espressioni delicate e forti insieme. Penso che le sue parole possano essere adattate anche all'universo della migrazione. Ricordando a memoria, Moni Ovadia, dice pressappoco così:

Noi siamo soliti considerare l'esilio come qualcosa di duro, di spietato, di crudele. Ed è così. L'esiliato è costretto ad abbandonare la sua terra, i suoi cari, i suoi amici. E qui non si conclude il dolore dell'esilio. L'esiliato lascia alle proprie spalle gli sguardi che hanno fatto la ricchezza dei suoi occhi; i suoni che sono stati l'opulenza delle sue orecchie; i profumi che hanno inebriato le sue narici; i sapori che hanno coccolato il suo palato.
E tutto questo si produce in condizione di coartazione e a volte di violenza.
Tuttavia se non ci si lascia incastrare dalla fatica e dal dolore l'esilio rivela pian piano degli aspetti positivi. In quella condizione difficile e precaria l'esiliato non può permettersi il lusso di riposare sui sogni, sulle certezze e sulle sicurezze dell'autoctono: i processi identitari si rimettono in cammino. L'esiliato deve interrogarsi su chi sia, sul senso profondo dell'esistenza e in quello stato di disequilibrio permanente germina nel suo petto un animo tormentato e ubiquo, ma molto sensibile.