CLASSI
PONTE: COSA DICONO I LINGUISTI
Gli esperti di Sig (Società italiana di glottologia), Sli (Società di linguistica italiana), Aitla (Associazione italiana di linguistica applicata) e Giscel (Gruppo di intervento e studio nel campo dell'educazione linguistica) attraverso un ampio documento smontano pezzo per pezzo quella che a tantissimi sembra un atto di discriminazione nei confronti dei figli degli stranieri. E contro la "discriminazione transitoria positiva", come la chiamano gli stessi estensori della mozione, chiamano in causa i principi della Costituzione italiana e la Convenzione sui diritti dell'infanzia, emanata nel 1989 dalle Nazioni Unite.
Il provvedimento perciò andrebbe eventualmente indirizzato non a tutti gli alunni stranieri (meglio dire di cittadinanza non italiana), ma solo a colori che non conoscono la lingua italiana. Sulle modalità di intervento poi ci sarebbe molto da dire: non possono essere uguale per tutti. L'intervento cambia notevolmente a seconda dell'età del minore, della lingua madre, dei diversi gradi di competenza raggiunti sia in L1 che in L2. In questi anni nelle nostre classi abbiamo imparato molto e sappiamo quanto queste variabili siano importanti per un intervento efficace. Immaginare una classe con un alunno cinese appena arrivato di 10 anni assieme ad un alunno rumeno di 12 anni qui da 6 mesi ed altre dieci situazioni così diversificate, e tutto il giorno insieme è il modo migliore per non far loro imparare alcuna lingua, ma solo a sentirsi discriminati, alunni di di serie B. La motivazione nasce dal desiderio di parlare con i compagni (italiani), dal bisogno di capire ed essere compresi, dalla necessità di far parte integrante di un gruppo, soprattutto in età adolescenziale. Che motivazione sviluppa e sostiene "la classe ponte"? Se si è dentro una classe di soli "stranieri", l'italiano non è più lingua seconda, del contesto linguistico in cui io, alunno, sono inserito, ma diventa una lingua straniera. Non appartiene a nessuno, non è veicolo di comunicazione, non strumento di interazione, ma solo materia d'apprendimento. E la difficoltà aumenta, dato che l'apprendimento non è sostenuto dal rapporto con i pari, non viene agito anche nei momenti liberi, nella relazione con l'altro, nel dialogo con i compagni. I
minori stranieri "abbisognano di essere
scorporati e ricanalizzati" (secondo Cota e co.)
a causa dei tassi di ripetenza. E poi ci sono gli alunni italiani. Perchè dobbiamo privarli dell'opportunità di crescere con compagni provenienti da altre parti del mondo, con i quali dialogare e confrontarsi? La difficoltà che i minori stranieri affrontano può essere sostenuta dai compagni italiani, in un clima di solidarietà e di aiuto reciproco. La scuola non insegna solamente le discipline, ma è soprattutto occasione d'incontro, palestra di democrazia, luogo in cui i conflitti possono essere affrontati e superati. La separazione non giova a nessuno, non permette di crescere né di sperimentare quella che è già la realtà della nostra società. E' a scuola, vivendo assieme nelle classi che può iniziare l'integrazione, il cambiamento, il necessario meticciamento. Il futuro apparterrà, probabilmente, a chi sarà in grado di "tenere assieme i pezzi" delle proprie appartenenze, delle varie identità e delle varie lingue. A chi riuscirà a tenere tutto assieme, ad arricchirsi dal contatto con altre culture, non a chi, separando, cercherà di mantenere "intatta" una cultura, ormai superata dalla realtà.
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