Da "Islam italiano" di Stefano Allievi (Einaudi 2003)

Gli immigrati, i loro figli e noi

(raccomandiamo la lettura di questo splendido lavoro del sociologo Allievi. 
E' un giro d'Italia, dalla Sicilia al Trentino e uno sguardo nella storia del nostro paese, dall'Egira ad oggi, con
le influenze reciproche tra la nostra cultura e quella islamica - oggi la seconda religione del paese)



Troppo spesso analizziamo l'islam come se si trattasse di una fotografia, e non di un film. Lo osserviamo con gli occhiali che indossiamo al momento del primo impatto dell'immigrazione, e continuiamo a farlo con gli stessi occhiali, attraverso le stesse lenti, che con il passare del tempo diventano sempre più distorcenti. Le nostre categorie interpretative rimangono prigioniere di una immagine che corrisponde sempre meno alla realtà, e cosi finiamo per dare nomi vecchi a una realtà completamente nuova, condannandoci a non capirla.
Un immigrato - e tanto più se viene da una realtà religiosa e culturale completamente diversa da quella in cui finisce per capitare - non è lo stesso il primo giorno di immigrazione e il ventesimo anno. E tanto meno assomigliano a quel lontano immigrato suo figlio o sua figlia: che in realtà non si sono mai mossi, e per i quali diventa non solo imprecisa ma bugiarda la definizione collettiva che viene usata - seconda generazione. In realtà non si tratta di una seconda generazione di immigrati, ma di una prima generazione di neo-autoctoni. Che vive tra due culture. E che spesso, a partire da queste, ne costruisce una terza.
I giovani musulmani hanno dunque nomi e cognomi arabi o pachistani, somali o persiani. Ma hanno un'identità etno-religiosa che non consente di ridurli a quella d'origine. D'origine, poi, dei loro genitori: non loro, che sono originari di qui, della stessa terra di cui siamo originari noi.
E vero: quella geografica è solo una delle radici che contribuiscono a produrre la nostra cultura di riferimento. Poi ci sono l'etnia, la religione, la classe sociale, le opinioni politiche e gli stili di vita, il sesso, e infine gli obiettivi che ci diamo, la nostra irriducibile individualità, che non è solo una mera sommatoria delle nostre appartenenze (o presunte tali, perché uno dei modi di rapportarsi ad esse è precisamente quello di rifiutarle...), tanto meno è riducibile a una sola: è piuttosto un qualcosa di diverso, spesso nuovo e originale.
Un giovane nato in Italia da una famiglia musulmana, se e quando è musulmano (e l'appartenenza è altrettanto poco scontata che per i giovani cattolici o ebrei - dipende: e da molti fattori), lo è per ragioni diverse dai suoi genitori. Mentre questi lo sono semplicemente perché questa appartenenza l'hanno "ereditata", e allora sono musulmani semplicemente perché sono marocchini o senegalesi, turchi o tunisini, i loro figli, quando e se sono musulmani, lo sono in un certo senso perché non sono più né egiziani né somali, né pachistani né algerini: lo sono, insomma, in maniera diversa, e per ragioni diverse, che assomigliano più alla maturazione che all'imposizione, più alla scelta culturale che all'evidenza "naturale". E questo per una ragione molto semplice: perché nei paesi da cui provengono i loro genitori essere musulmano è semplicemente normale, in quanto lo è la maggioranza della popolazione, e il contesto culturale e perfino fisico in cui ci si trova immersi: architettura, tradizioni, cibi, perfino odori o sonorità specifiche, che appartengono al paesaggio urbano di provenienza. Qui no. Qui, il contesto, musulmano non è, e non lo sarà, e il paesaggio urbano rivela altri riferimenti culturali, religiosi e non.
… Si gioca molto in questo passaggio generazionale. I figli, occorre cominciare a capirlo, sono uguali e diversi al tempo stesso, rispetto alla generazione dei loro genitori. La differenza più grande: guardano avanti, anziché indietro; e vicino, anziché lontano.