La donna velata e le proiezioni dell'Occidente
(estratto da "Islam italiano" - Einaudi 2003 - Gli struzzi 561)


Quello della donna nell'islam è argomento scottante e fonte di polemiche e reciproche incomprensioni.
Per l'Occidente, la donna musulmana è sottomessa per definizione, e il simbolo dell'oppressione maschile nei suoi confronti è il velo, che le musulmane sarebbero costrette a portare. Per le musulmane più consapevoli - e per i musulmani - è invece la donna occidentale ad essere schiava del proprio obbligo di essere bella e disponibile, pena il rischio del rifiuto, e sarebbero loro quindi a non essere libere; in più, dicono, salvo alcune realtà il velo è una scelta, non un obbligo, e comunque è tale in Occidente.
Il velo come bandiera, sventolata da ambo le parti: per rivendicarlo o per respingerlo.
L'abito non fa il musulmano, come ovvio: ma il musulmano, e ancor più la musulmana, sono continuamente confrontati al problema dell'abito. Se non per volontà individuale, per la pressione sociale della comunità islamica circostante. Se non per quest'ultima, per la pressione non meno indiscreta della società non musulmana. E questo sia che la donna musulmana si adegui a un presunto codice comportamentale islamico sia, e ciò è per certi aspetti anche più interessante, quando non ci si adegui. Soprattutto quando a porre il problema del velo, e in un certo senso a "pretenderlo", in quanto facente parte del cliché della donna islamica, è la società circostante: si, perché esiste una "domanda sociale" che associa il velo alla donna islamica e dunque lo vuole. Lo testimonia, tra i tanti esempi possibili, il caso di Fouzia Ez-Zerqti, 39 anni, marocchina, abitante a Padova: una donna che lavora, emancipata, da molti anni in Italia, e nello stesso tempo religiosa. Una troupe della Rai le aveva chiesto di rilasciare un'intervista sulla sua esperienza e la sua storia. Proposta rifiutata, perché la Rai pretendeva di filmarla con l'hijab in testa, che lei non ha mai portato. E cosi hanno intervistato un'altra donna, "adeguata" allo stereotipo. Un caso che si è presentato più volte: come quando conoscenti musulmani, dopo l'11 settembre o in altre occasioni "critiche", erano stati contattati dagli staff dei vari salotti televisivi per un'intervista, ma poiché intendevano esprimere opinioni moderate e dunque giornalisticamente ininteressanti, sono stati lasciati cadere, come interlocutori. Mentre i giornalisti in questione si sono andati a cercare, a tutti i costi, musulmani che fossero come ce li immaginiamo o li vogliamo noi: quelli che se non ci fossero bisognerebbe, appunto, inventarli. La convertita con il burqa, per dire. Ovvero,come si produce e riproduce il pregiudizio.


Forse la normalità vera la raggiungeremo quando, come può capitare ordinariamente per le strade di Parigi, Londra o Berlino, vedremo camminare gruppi di adolescenti di seconda generazione, di origine maghrebina o turca: una con l'hijab, una vestita in abiti lunghi o pantaloni, e l'altra invece in minigonna: ma non di meno amiche tra loro e con le loro coetanee francesi o tedesche, e percepite dall'ambiente circostante con quella "disattenzione civile" di cui parla Goffman, così utile per sancire l'accettazione dei comportamenti sociali altrui, senza farli diventare un problema per noi. Almeno finché, come in questo caso, non danneggiano né noi né gli altri.