IL CEM E L'INTERCULTURALITÀ
Arnaldo De Vidi
Il CEM (Centro Educazione alla Mondialità) fin dall'inizio (1942) ha messo il dialogo e l'interculturalità tra i suoi obiettivi. Forse nei primi anni v'era più la preoccupazione di informare: i missionari saveriani conoscendo i paesi lontani meglio di Sandocan, avevano deciso di far approdare alla scuola italiana il bagaglio delle loro conoscenze (ciò poteva anche far sorgere vocazioni). Ora il Cem è movimento "laico". Molto del suo sforzo è oggi teso a mostrare che l'atteggiamento e il discorso interculturale sono ben più profondi e difficili di quanto vorrebbero far credere i mezzi di comunicazione e le istituzioni sia governative che locali. Sintetizziamo il discorso attuale del Cern in tre punti: (a) un disordine senza paragoni; (b) importanza dell'intercultura; (c) il pensiero nomade (e le narrazioni multiple).
Un disordine senza paragoni
Arrivano nudi, arrivano affamati / alle inferriate dei nostri occhi.
Espulsi dalla tempesta di fuoco / vengono da ogni parte del mondo:
buttano l'ancora nella nostra inerzia. / Hanno bisogno di occhi nuovi, di altre mani,
hanno bisogno di aratri e scarpe, / di lampade e bande musicali,
di visioni del liocorno / e della comunità di Gesù.
i poveri nudi e affamati / li abbiamo fatti noi così.
Questa poesia, del brasiliano Murilo Mendes (1900-1975), si riferisce ai poveri italiani che arrivavano in Brasile negli anni cinquanta. Dopo cinquant'anni la situazione si è capovolta(!): arrivano da noi gli immigrati dal Brasile e da altri paesi latinoamericani. Perché mai? E c'è di peggio.
Considerate questo. Questo considerate: migliaia, centinaia di migliaia di esseri umani mettono insieme tutti i loro risparmi e vanno verso il Nord e l'Ovest a piedi o con mezzi di fortuna. Attraversano deserti. Molti muoiono in viaggio. Chi sopravvive arriva su una qualsiasi spiaggia e lì consegna i propri risparmi a persone senza scrupoli in cambio della vaga promessa di un traghetto fino alla spiaggia opposta. Montano in vecchi scafi o carrette di mare, in sovrannumero. Temono confusamente questo dilemma: col bel tempo saranno visti e ricacciati, col cattivo tempo rischieranno la morte. (...) I superstiti non potranno gridare: "Terra, terra!". Dovranno darsi alla macchia. Poi dovranno fare gli schiavi clandestini.
Questo considerate: molti di loro sono africani. Erano stati risparmiati al tempo della schiavitù, dal 16° al 19° secolo In quel periodo gli africani erano presi a forza e portati oltre oceano. Erano venduti nelle pubbliche piazze un tanto alla pezza (un uomo dai 20 ai 30 anni era una pezza, un ragazzo o una donna era mezzapezza); ricevevano un lavoro duro, un giaciglio nelle senzalas (barchesse), una razione dì cibo e... bastonate. Per i nuovi schiavi la prospettiva è peggiore: avranno garantito solo il lavoro duro; non il cibo, né il giaciglio. E saranno braccati. In Italia, poi, si dice farisaicamente "clandestino è criminale" mentre, si sa, gli immigrati sono lasciati clandestini il più possibile per essere obbligati ai lavori duri, pagati meno e privati di forza sociale (ma loro, loro come vorrebbero essere cittadini e non clandestini!).
Che miriadi di persone lascino gli assolati villaggi del Sud per le nebbiose città del Nord, paghino e rischino la vita per diventare schiavi: questo è un grande disordine sotto il cielo. Ci è ripetuto che tale disordine è frutto della mafia di scafisti disonesti... Ma no.
Paolo VI, profeticamente, aveva gridato: "Uomini, fermatevi e riflettete: forse state andando nella direzione sbagliata". Lo diceva ai grandi del primo mondo. Cominciava allora la globalizzazione. Da quando il Nord del pianeta s'è autorizzato ad essere il "benefattore" del Sud, tutti i Paesi del Sud sono andati in bancarotta! E noi tutti del Nord siamo complici. Accenniamo ad alcuni nostri crimini: prestiti usurai (da restituire fino al 20x1), furto di prodotti (con i "brevetti', i sussidi all'agricoltura nostrana e le tasse doganali), produzione e vendita di armi, imposizione di governi corrotti al Sud (con loro gli affari sono più vantaggiosi), rastrellamento di beni... É bene tener presente tutto questo. Il flusso migratorio obbedisce a un desiderio di emancipazione sociale da parte di persone disperate. "Parole quali "identità" e "cultura" possono essere fuorvianti qualora usate nei confronti dei migranti, poiché si rischia di occultare la condizione sociale in cui si trovano a vivere. Prima di essere magrebini, albanesi o latinoamericani, sono immigrati: questo è un elemento fondante della loro identità" (AdeI Jabbar).
Davanti a questa situazione la risposta del primo mondo è parziale e interessata. Si ricorre alla solidarietà, però non come un prendere "in solido" a cuore il bene comune di tutti i popoli, ma come elemosina: sì continua a rubare la pagnotta e dare le briciole. La solidarietà così intesa è un trabocchetto: alimenta nel nostro subconscio la convinzione che siamo più bravi perché abbiamo la ricchezza e i più buoni perché facciamo qualche offerta. In particolare molto spesso le comunità e le scuole sono stimolate a una solidarietà episodica non scevra da etnocentrismo.
1. Si narra in Cina di un dialogo tra un discepolo e il suo maestro. Cos'è cultura?, chiese il discepolo. Il maestro, famoso arciere, scoccò tre frecce: su un albero, su un bersaglio in forma di sagoma umana e su un'alta figura totemica. La così dato una risposta non verbale: la cultura è il rapporto di ciascun popolo con la natura circostante (rappresentata dall'albero), con i suoi simili (bersaglio/sagoma umana) e con il mondo simbolico (totem). Inoltre il maestro, disegnando i bersagli intorno alle tre frecce, indicò che ogni popolo vuole centrare il rapporto coi 3 mondi o livelli. Il discepolo capì e s'inchinò in segno di ringraziamento.
2. L'importanza della cultura (il suo peso, o la sua insostenibile leggerezza). Un indiano disse (all'etnologa Ruth Benedict): Dio diede a ciascun popolo una tazza, bella e differente, per attingere alla sorgente della vita.La nostra tazza è stata rotta e noi siamo destinati a morire. La morte della cultura è all'origine della generazione... dei sassi dal cavalcavia
3. Ogni cultura è se stessa (punto e basta). Ogni cultura è differente (ben differente) ed è degna di rispetto. E orientata alla vita. Il gruppo sceglie per sé come stile di vita quello che ritiene il meglio in senso assoluto. in tal senso non si può parlare di culture superiori e inferiori.
4. L'etnocentrismo. Ogni popolo ritiene di aver centrato perfettamente il rapporto con le tre realtà; quindi giudica che la sua cultura sia la migliore, anzi l'unica vera, "la" cultura: ciò è reso dall'atto del maestro dell'aneddoto orientale di disegnare i cerchi attorno alle frecce. Altre culture possono, nel migliore dei casi, essere oggetto di curiosità. L'etnocentrismo è di regola, non costituisce certo un'eccezione.
5. Le culture sono sempre in fieri. Le culture sono in processo continuo di aggiustamento e sì arricchiscono nello scambio, nell'incontro. Così per le culture mediterranee è stato provvidenziale il moltiplicarsi di incontri tra i paesi del bacino del "Mare nostrum". L'ideale per le culture amazzoniche, per esempio, non è che esse rimangano assolutamente isolate, sotto una campana di vetro, come un museo (per essere ammirate da noi turisti?). Il loro dramma è che con la cultura occidentale c'è uno scontro invece che incontro. Una sopraffazione.
6. Le culture sono relative, con valori e limiti. Sono dignitosamente povere, nè auto-sufficentemente ricche ne miserabili. P.e., la cultura cinese per accentuare l'armonia nasconde il conflitto. Aver coscienza della povertà dignitosa della propria cultura è la condizione ideale per il dialogo.
7. L'identità culturale. Sarebbe un equivoco pensare che per dialogare bene occorra "rarefare" la propria cultura o fare vista grossa sul fatto culturale (e su quello religioso). Solo chi si "coltiva culturalmente" riesce a dialogare bene. Chi non ha chiara la propria identità culturale è confuso, superficiale. Nel dialogo io devo mettere tra parentesi la mia cornice mentale per ascoltare bene l'altro (momento dell'ascolto, del ricevere); e "dare ragione della cultura che è in me" (momento del dare).
8. Quale futuro? Noi non sappiamo quale futuro sia riservato alle culture. Di certo la prossimità dei popoli ci darà un secolo ben "meticciato". Alcuni preconizzano una pseudo-mega-mono-cultura, quella occidentale, nata col pensiero unico (vedi Francis Fukuyama). Altri (leggi Samuel Huntington) prevedono uno scontro di civiltà con almeno nove grandi culture irriducibili; oppure paventano un acutizzarsi di fondamentalismi e fanatismi (Fernando Savater); oppure s'immaginano un "frullato dì culture" (il melting pot) sul tipo del Brasile; oppure si augurano che arrivi l'insalatiera culturale (con etnie che convivono senza fondersi), sul tipo degli Stati Uniti. Noi sogniamo (con Ernesto Balducci) che l'uomo planetario ci dia un'orchestra di culture: ogni cultura la sua musica e il suo strumento, che però si intonano e arricchiscono in una sinfonia dei popoli.
9. Progetto interculturale. Se l'etnocentrismo è di regola, ne consegue che relativismo culturale e dialogo non sono naturali, spontanei; devono essere oggetto di una proposta educativa. "Il concetto di interculturalità, per il pedagogista, è un concetto forte, perché l'interculturalità non appartiene ai fenomeni naturali, ma dev'essere voluta e provocata". (Duccio Demetrio).
10. Una scuola differente. La proposta educativa per l'interculturalità sarà in ogni caso trasversale, non sarà né una disciplina specifica, né legata ad una sola disciplina. E dovrà darsi come progetto pedagogico a due livelli: come fermento di tutta la pedagogia e come promozione di alcuni progetti specifici di approfondimento e esperienza. Questi progetti specifici, già presenti in molte scuole, devono essere supportati da quel "fermento: occorre un atteggiamento nuovo e una pedagogia nuova; occorre passare a una scuola dell'insegnamento (frontale, unidirezionale, basata sul pensiero unico, su un bagaglio di contenuti da trasmettere) ad una scuola dell'apprendimento basata sulla circolarità, sulla pedagogia dei testi, sulla pedagogia narrativa...
"Intercultura". Per capire cos'è interculturalità, dobbiamo dire prima cosa non è. Ci sono situazioni in cui non sì ammette pluralità. c'è un graduale processo di azzeramento delle differenze in favore del monoculturalismo. Questa non è interculturalità, ma omologazione o pensiero unico.
Ci sono situazioni in cui gruppi culturali diversi coesistono l'uno accanto all'altro senza necessariamente interagire tra di loro, se interagiscono lo fanno con un rapporto oggettuale, estrinseco, cumulativo, enciclopedico. Questa non è interculturalità ma multi- o pluriculturalità.
Ci sono situazioni dove persone di culture diverse interagiscono. Lo fanno intenzionalmente, dentro di un progetto educativo, frutto di una scelta. Lo fanno con rapporto soggettuale, intrinseco, interattivo, epistemico. Questa è interculturalità (A. Nanni, L'educazione interculturale oggi in Italia, EMI, Bo 1998). La Commissione Giustizia e Pace (della CEI) dice: In primo luogo è da richiamarsi la responsabilità dei luoghi e delle forze educative, che devono proporre e aiutare la comprensione delle differenze, passando dalla cultura dell'indifferenza" alla 'cultura della differenza" e da questa alla "convivialità delle differenz, senza per questo sfociare in forme di eclettismo nei riguardi della verità o di indifferenza di fronte ai valori della vita. (...) Pertanto anche sul piano legislativo bisogna che si passi da un approccio che tiene presenti soltanto le esigenze monoculturali, ad un altro aperto a logiche ampie di tipo interculturale.
Il pensiero nomade
Il Cem ritiene che l'interculturalità sia la miglior chiave per un futuro di pace, perciò in quest'anno scolastico (2003-2004) propone alla scuola pratiche interculturali per un futuro di pace. Ma dobbiamo lasciare la nostra interculturalità aperta a sviluppi ancora inesplorati. Una interculturalità esistenziale e non statica-essenziale. Siamo infatti davanti ad una situazione inedita, di assoluta mobilità: la globalizzazione ha creato il glocale che va oltre il locale e il globale. Lo stesso fenomeno di immigrazione è piuttosto di "migrazione" (secondo Umberto Eco) e come tale dovrebbe essere considerato. La mobilità è provocata (non solo, ma anche) da una economia perversa, come abbiamo detto all'inizio; da quando il primo mondo ha voluto aiutare i paesi del terzo inondo, questi sono andati in fallimento. Essi che avevano culture ecologiche, agricole, di sobrietà sono stati spinti a preparare l'infra-struttura per l'industria, quindi a chiedere prestiti e a destinare i loro prodotti agricoli all'esportazione...
Qui però vorremmo mettere in luce una congiuntura nuova, come spiega Moni Ovadia. Siamo al crepuscolo degli Stati-nazione. Da un lato il fenomeno è preoccupante, perché lo Stato non dispone più dì somme sufficienti per il welfare e privatizza tutto, dall'altro lato il fenomeno può essere provvidenziale. "Spicca per aggressività e devastazione l'assetto derivante dallo jus sanguinis e dallo jus soli perversamente fusi nell'idea di nazione. La cultura dell'occidente ha per scelta scotomizzato da sé un tratto saliente della propria origine: il cammino-pensiero del patriarca Abrahamo. (...) Il grande caldeo non imbraccia le armi, non fonda una città, esce da una città, se ne va da Ur dei Caldei cuore della civiltà Sumerica, nella sua epoca la città per eccellenza. Se ne va guidato da un imperativo rivoluzionario che non ha precedenti ed è a tutt'oggi ineguagliato: "Lekh lekhà! Va via dal tuo paese, dal tuo parentado, dalla tua casa patema. Abramo regredisce al deserto, alla condizione del nomade, si mette in viaggio. (...) Abrahamo chiede terra per se e per i suoi con parole che chiariscono paradossalmente un senso inedito dell'acquisire terra: "Sono straniero ed abito con voi". Abrahamo chiede la terra: non sulla base di un diritto atavico, né come appartenente etnicamente al popolo che la possiede; la 'pretende' proprio in quanto straniero. Non richiede la cittadinanza. (...) Siamo alla messa al bando del nazionalismo, delle sue derive e dei suoi travestimenti. Ma già nel XII secolo Ugo da San Vittore aveva scritto con penetrante grazia: "L'uomo che trova dolce la sua terra non è che un tenero principiante; colui per il quale ogni terra è come la propria è già un uomo forte; ma solo è perfetto colui per il quale tutto il mondo non è che un paese straniero". (da: Carta, giugno 2000) Possiamo dire che l'interculturalità è sfidata non solo dall'etnocentrismo, ma anche da questa mobilita, da un mondo glocale e giocato tra reale e virtuale (vedi Matrix, o la catena dei MacDonald). L'impressione è di sabbie mobili, o almeno di una cultura che, se è tazza, è tazza sempre cruda, mutevole, malleabile, costantemente in contatto e commistione con altre tazze, pure crude. Ieri la cultura cambiava poco, oggi è costantemente in cambiamento. Una parabola indiana ammonisce di "cuocersi" perché in tal modo quando ci romperemo il vasaio metterà i cocci da parte. Che se invece siamo crudi, userà ancora l'argilla per fare un altro vaso. Forse per questo noi, specie gli anziani, preferiamo "il cotto", lo stabile, e temiamo 1'instabilità. Questa riflessione è tutta da fare: come dev'essere la scuola per la pace e per il futuro in situazione nuova (che può diventare generale) di instabilità e di "nomadismo", di stranieri invece che cittadini.
E per terminare c 'è un messaggio latinoamericano, quasi una preghiera.
Il nostro primo compito nell'avvicinarci a un altro popolo, a un'altra cultura, a un'altra religione, è toglierci le scarpe, perché il luogo al quale ci stiamo avvicinando è sacro. Qualora non ci comportassimo così, correremmo il rischio di schiacciare il sogno altrui. Peggio ancora: correremmo il rischio di dimenticarci che Dio già stava li, prima che noi arrivassimo.
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