QUANDO GLI
ALBANESI ERAVAMO NOI
Anni Settanta
«Non ridere, non piangere, non giocare»
I 30 mila piccoli italiani illegali in Svizzera
Quando Berna ostacolava i ricongiungimenti familiari dei nostri
emigranti. E i mariti assumevano le mogli come domestiche per farle
arrivare
Le mogli e i bambini degli immigrati? «Sono braccia morte che pesano
sulle nostre spalle. Che minacciano nello spettro d'una congiuntura
lo stesso benessere dei cittadini. Dobbiamo liberarci del fardello».
Chi l'ha detto: qualche xenofobo nostrano contro marocchini o
albanesi? No: quel razzista svizzero di James Schwarzenbach. Contro
gli italiani che portavano di nascosto decine di migliaia di
figlioletti in Svizzera. E non nell' 800 dei dagherrotipi: negli
anni Settanta e Ottanta del '900.
La casa del fanciullo a Domodossola
Foto del 1974
Quando Berlusconi aveva già le tivù e Gianfranco Fini era già in
pista per diventare il leader del Msi. Per questo è stupefacente la
rivolta di un pezzo della destra contro la sentenza della
Cassazione, firmata da Edoardo Fazzioli, che ha assolto l'immigrato
macedone Ilco Ristoc, denunciato e processato perché non si era
accontentato di portare in Italia con tutte le carte in regola
(permesso di soggiorno, lavoro regolare, abitazione decorosa) solo
la moglie e il bambino più piccolo ma anche la figlioletta Silvana,
che aveva 12 anni. Cosa avrebbe dovuto fare: aspettare di avere un
giorno o l'altro l'autorizzazione ulteriore e intanto lasciare la
piccola in Macedonia? A dodici anni? Rischiando addirittura, al di
là del trauma, il reato di abbandono di minore? Macché. Il leghista
Paolo Grimoldi, indignato, si è chiesto «se la magistratura sia
ancora un baluardo della legalità oppure il fortino dell'eversione».
E la forzista Isabella Bertolini ha bollato il verdetto come
«un'altra mazzata alla legalità» e censurato la «legittimazione di
un comportamento palesemente illegale». Lo «stato di necessità»
previsto dalla legge e richiamato dalla suprema Corte, a loro
avviso, non è in linea con le scelte del Parlamento. L'uno e
l'altra, come quelli che fanno loro da sponda, non conoscono niente
della grande emigrazione italiana. Niente. Non sanno che larga parte
dei nostri emigrati, almeno quattro milioni di persone, è stata
clandestina. Lo ricordano molte copertine della Domenica del
Corriere, il capolavoro di Pietro Germi «Il cammino della speranza»,
decine di studi ricchi di dettagli (tra cui quello di Simonetta
Tombaccini dell'Università di Nizza o quello di Sandro Rinauro sulla
rivista «Altreitalie» della Fondazione Agnelli) o lo strepitoso
reportage in cui Egisto Corradi raccontò sul Corriere d'Informazione
del 1947 come aveva attraversato il Piccolo San Bernardo sui
sentieri dei «passeur» e degli illegali. Non conoscono storie come
quella di Paolo Iannillo, che fu costretto ad assumere sua moglie
come domestica per portarla a vivere con lui a Zurigo. Ma ignorano
in particolare, come dicevamo, che la Svizzera ospitò per decenni
decine di migliaia di bambini italiani clandestini. Portati a Berna
o Basilea dai loro genitori siciliani e veneti, calabresi e
lombardi, a dispetto delle leggi elvetiche contro i ricongiungimenti
familiari.
Leggi durissime che Schwarzenbach, il leader razzista che scatenò
tre referendum contro i nostri emigrati, voleva ancora più infami:
«Dobbiamo respingere dalla nostra comunità quegli immigrati che
abbiamo chiamato per i lavori più umili e che nel giro di pochi
anni, o di una generazione, dopo il primo smarrimento, si guardano
attorno e migliorano la loro posizione sociale. Scalano i posti più
comodi, studiano, s'ingegnano: mettono addirittura in crisi la
tranquillità dell'operaio svizzero medio, che resta inchiodato al
suo sgabello con davanti, magari in poltrona, l'ex guitto italiano».
Marina Frigerio e Simone Burgherr, due studiosi elvetici, hanno
scritto un libro in tedesco intitolato «Versteckte Kinder» (Bambini
nascosti) per raccontare la storia di quei nostri figlioletti.
Costretti a vivere come Anna Frank. Sepolti vivi, per anni, nei loro
bugigattoli alle periferie delle città industriali. Coi genitori
che, terrorizzati dalle denunce dei vicini, raccomandavano loro: non
fare rumore, non ridere, non giocare, non piangere. Lucia,
raccontano Burgherr e la Frigerio, fu chiusa a chiave nella stanza
di un appartamento affittato in comune con altre famiglie, per una
vita intera: «Uscì fuori per la prima volta quando aveva tredici
anni». Un'altra, dopo essere caduta, restò per ore ad aspettare la
mamma con due costole rotte. Senza un lamento. Trentamila erano, a
metà degli anni Settanta, i bambini italiani clandestini in
Svizzera: trentamila. Al punto che l'ambasciata e i consolati
organizzavano attraverso le parrocchie e certe organizzazioni
umanitarie addirittura delle scuole clandestine. E i nostri
orfanotrofi di frontiera erano pieni di piccoli che, denunciati
dalla delazione di qualche zelante vicino di casa, erano stati
portati dai genitori appena al di qua dei nostri confini e affidati
al buon cuore degli assistenti: «Tenete mio figlio, vi prego, non
faccio in tempo a riportarlo a casa in Italia, è troppo lontana,
perderei il lavoro: vi prego, tenetelo». Una foto del settimanale
Tempo illustrato n. 7 del 1971 mostra dietro una grata alcuni figli
di emigranti alla Casa del fanciullo di Domodossola: di 120 ospiti
una novantina erano «orfani di frontiera». Bimbi clandestini
espulsi. Figli nostri. Che oggi hanno l'età di Grimoldi e della
Bertolini.
Dicono: la legge è legge. Giusto. Ma qui il principio dei due pesi e
delle due misure nella Costituzione non c'è. E la realtà dice che
almeno un milione di italiani vivono oggi in condizioni di
sovraffollamento nelle sole case popolari senza essere, come è
ovvio, colpiti da alcuna sanzione: non si ammanettano i poveri
perché sono poveri. A un immigrato regolare e a posto con tutti i
documenti che sogna di farsi raggiungere dalla moglie e dai figli
esattamente come sognavano i nostri emigrati, la nuova legge chiede
invece non solo di dimostrare un reddito di 5.142 euro più altri
2.571 per la moglie e ciascuno dei figli ma di avere a disposizione
una casa di un certo tipo. E qui la faccenda varia da regione a
regione. In Liguria ad esempio, denuncia l'avvocato Alessandra
Ballerini, in prima linea sui diritti degli immigrati, occorre avere
una stanza per ogni membro della famiglia con più di 14 anni più un
vano supplementare libero (esempio: il salotto) più la cucina e più
i servizi igienici. Il che significa che una famiglia composta da
padre, madre e quattro figli adolescenti dovrebbe avere una casa con
almeno sei stanze. Quanti italiani hanno la possibilità di vivere
così? Quando vinse la Coppa dei Campioni, coi soldi dell'ingaggio e
del premio per la coppa, Gianni Rivera comprò un appartamento a San
Siro. Il papà e la mamma dormivano nella camera matrimoniale, il
fratello nella cameretta e lui in un divano letto in salotto. Se
invece che di Alessandria fosse stato di Belgrado, sarebbe stato
fuorilegge. Ed era Gianni Rivera. Il campione più amato da un'Italia
certo più povera. Ma anche più serena di adesso.
Gian Antonio Stella
Corriere della Sera - 02 dicembre 2008
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