I profughi ripescati in mare vengono riaccompagnati sulle coste libiche senza neppure toccare il suolo italiano. Grande vittoria, sostiene soddisfatto il ministro Maroni.
Ma l'art. 10 della nostra Costituzione recita:
Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle
libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo
nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge.
Vorremmo inoltre ricordare che le leggi internazionali firmate anche dall'Italia sui profughi prevedono la loro identificazione e dopo eventualmente una espulsione. E' facile capire perché: i perseguitati per motivi etnici, politici e religiosi, tornando indietro rischiano torture e morte. Molti italiani durante il fascismo ebbero salva la vita chiedendo ospitalità a Francia agli U.S.A e ad altri paesi "civili".
Da "Repubblica on line" ricaviamo questo terribile racconto dei sopravvissuti ai campi di raccolta libici.
Il racconto. Tra le reduci del Pinar: meglio morire che tornare lì
"Voi italiani siete buoni, come potete fare una cosa del genere?""Li avete
mandati al massacro in quei lager stupri e torture"Le lacrime di Hope e Florence
per i disperati riportati in Libia: i nostri mesi all'inferno
dal nostro inviato FRANCESCO VIVIANO
Immigrati a Lampedusa
LAMPEDUSA - "Li hanno mandati al massacro. Li uccideranno, uccideranno anche i
loro bambini. Gli italiani non devono permettere tutto questo. In Libia ci hanno
torturate, picchiate, stuprate, trattate come schiave per mesi. Meglio finire in
fondo al mare. Morire nel deserto. Ma in Libia no". Hanno le lacrime agli occhi
le donne nigeriane, etiopi, somale, le "fortunate" che sono arrivate a Lampedusa
nelle settimane scorse e quelle reduci dal mercantile turco Pinar. Hanno saputo
che oltre 200 disgraziati come loro sono stati raccolti in mare dalle
motovedette italiane e rispediti "nell'inferno libico", dove sono sbarcati ieri
mattina. Tra di loro anche 41 donne. Alcuni hanno gravi ustioni, altri sintomi
di disidratazione. Ma la malattia più grave, è quella di essere stati riportati
in Libia. Da dove "erano fuggite dopo essere state violentati e torturati. Non
solo le donne, ma anche gli uomini".
I visi di chi invece si è salvato, ed è a Lampedusa raccontano una tragedia
universale. La raccontano le ferite che hanno sul corpo, le tracce sigarette
spente sulle braccia o sulla faccia dai trafficanti di essere umani. Storie
terribili che non dimenticheranno mai. Come quella che racconta Florence,
nigeriana, arrivata a Lampedusa qualche mese fa con una bambina di pochissimi
giorni. L'ha battezzata nella chiesa di Lampedusa e l'ha chiamata "Sharon", ma
quel giorno i suoi occhi, nerissimi, e splendenti come due cocci di ossidiana,
erano tristi. Quella bambina non aveva un padre e non l'avrà mai.
"Mi hanno violentata ripetutamente in tre o quattro, anche se ero sfinita e
gridavo pietà loro continuavano e sono rimasta incinta. Non so chi sia il padre
di Sharon, voglio soltanto dimenticare e chiedo a Dio di farla vivere in pace".
Accanto a Florence, c'è una ragazza somala. Anche lei ha subito le pene
dell'inferno. "Quando ho lasciato il mio villaggio ho impiegato quattro mesi per
arrivare al confine libico, e lì ci hanno vendute ai trafficanti e ai poliziotti
libici. Ci hanno messo dentro dei container, la sera venivano a prenderci, una
ad una e ci violentavano. Non potevamo fare nulla, soltanto pregare perché
quell'incubo finisse". Raccontano il loro peregrinare nel deserto in balia di
poliziotti e trafficanti. "Ci chiedevano sempre denaro, ma non avevamo più
nulla. Ma loro continuavano, ci tenevano legate per giorni e giorni, sperando di
ottenere altro denaro".
Il racconto s'interrompe spesso, le donne piangono ricordando quei giorni, quei
mesi, dentro i capannoni nel deserto. Vicino alle spiagge nella speranza che un
giorno o l'altro potessero partire. E ricordano un loro cugino, un ragazzo di 17
anni, che è diventato matto per le sevizie che ha subito e per i colpi di
bastone che i poliziotti libici gli avevano sferrato sulla testa. "È ancora lì,
in Libia, è diventato pazzo. Lo trattano come uno schiavo, gli fanno fare i
lavori più umilianti. Gira per le strade come un fantasma. La sua colpa era
quella di essere nero, di chiamarsi Abramo e di essere "israelita". Lo hanno
picchiato a sangue sulla testa, lo hanno anche stuprato. Quel ragazzo non ha più
vita, gli hanno tolto anche l'anima. Preghiamo per lui. Non perché viva, ma
perché muoia presto, perché, finalmente, possa trovare la pace".
Le settimane, i mesi, trascorsi nelle "prigioni" libiche allestite vicino alla
costa di Zuwara, non le dimenticheranno mai. "Molte di noi rimanevano incinte,
ma anche in quelle condizioni ci violentavamo, non ci davano pace. Molti hanno
tentato di suicidarsi, aspettavano la notte per non farsi vedere, poi prendevano
una corda, un lenzuolo, qualunque cosa per potersi impiccare. Non so se era
meglio essere vivi o morti. Adesso che siamo in Italia siamo più tranquille, ma
non posso non stare male pensando che molte altre donne e uomini nelle nostre
stesse condizioni siano state salvate in mare e poi rispedite in quell'inferno,
non è giusto, non è umano, non si può dormire pensando ad una cosa del genere.
Perché lo avete fatto?".
"Noi eravamo sole, ma c'erano anche coppie. Spesso gli uomini morivano per le
sevizie e le torture che subivano. Le loro mogli imploravano di essere uccise
con loro. La rabbia, il dolore, l'impotenza, cambiavano i loro volti, i loro
occhi, diventavano esseri senza anima e senza corpo. Aiutateci, aiutateli. Voi
italiani non siete cattivi. Non possiamo rischiare di morire nel deserto, in
mare, per poi essere rispediti come carne da macello a subire quello che
cerchiamo inutilmente di dimenticare". Hope, 22 anni, nigeriana è una delle
sopravvissute ad una terribile traversata. Con lei in barca c'era anche un'amica
con il compagno. Viaggiavano insieme ai loro due figlioletti. Morirono per gli
stenti delle fame e della sete, i corpi buttati in mare. "Come possiamo
dimenticare queste cose?". Anche loro erano in Libia, anche loro avevano subito
torture e sevizie, non ci davano acqua, non ci davano da mangiare, ci trattavano
come animali. Ci avevano rubati tutti i soldi. Per mesi e mesi ci hanno fatto
lavorare nelle loro case, nelle loro aziende, come schiavi, per dieci, venti
dollari al mese. Ma non dovevamo camminare per strada perché ci trattavano come
degli appestati. Schiavi, prigionieri in quei terribili capannoni dove finiranno
quelli che l'Italia ha rispedito indietro. Nessuno saprà mai che fine faranno,
se riusciranno a sopravvivere oppure no e quelli che sopravvivranno saranno
rispediti indietro, in Somalia, in Nigeria, in Sudan, in Etiopia. Se dovesse
accadere questo prego Dio che li faccia morire subito".
Repubblica 8 maggio 2009