Da Kabul a Mestre appeso a un Tir Muore ragazzino Aveva 13 anni, in tasca il suo diario VENEZIA—
Magrolino, alto poco più di un metro e sessanta, scarpe da
tennis. Capelli castani, corti, e la carnagione chiara, a dispetto
della nazionalità stampata sul certificato di identità:
l'Afghanistan. Aveva tredici anni e, nella tasca dei pantaloni scuri di
tela, una banconota, nuova di zecca, del suo Paese, accanto ad appunti
scritti in arabo, il diario del viaggio.
Questo è lo scarno trafiletto sul giornale
La mediatrice culturale, Francesca Grisot, nel
suo blog (http://corpidiconfine.splinder.com/) completa
l'informazione e commenta i versi che Zaher aveva scritto nel suo taccuino.
Dopo che furono partiti, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Alzati, prendi il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e restaci finché io non te lo dico; perché Erode sta per cercare il bambino per farlo morire».
[Mt 2,13-18 ]
Zaher Rezai, figlio di Mahmud, era un Hazara di Mazar-i Sharif,
città che nel 1998 fu teatro di una delle tante stragi di civili
hazara che l’Afghanistan ricorda. Zaher aveva allora pochi anni
ed era uno dei fortunati sopravvissuti. Qualche anno dopo, ancora
bambino, Zaher era in Iran. Lavorava come saldatore, appuntando
diligentemente schizzi e misure sul suo taccuino.
Il profilo che emerge dalla lettura e traduzione del taccuino di un “clandestino” è il seguente:
un ragazzo in fuga dalla persecuzione, costretto a lavorare in giovane
età come saldatore, che a malincuore si getta in un viaggio di
speranza che sa bene essere pieno di insidie.
La storia di Zaher può essere eletta ad icona del migrante
afghano, molto spesso minorenne, se non all’arrivo, di sicuro
alla partenza. Comunque potenziale richiedente asilo. Il caso dei
migranti afghani, giovanissimi per lo più, è la storia di
una diaspora silenziosa. Dato il numero esiguo non ha eco sui giornali,
ma rivela un disagio sociale legato non solo alla guerra o
all’occupazione del Paese, bensì ad un feroce conflitto
etnico e religioso di cui non si ha notizia in Occidente. Si aggiunga a
questo la prolungata condizione di diaspora ed esilio, giunta ormai
alla terza generazione, che ha costretto per decenni intere famiglie a
migrare senza sosta tra Paesi limitrofi poco ospitali (Pakistan e Iran)
e zone interne dell’Afghanistan. Questa terza generazione, ormai
stanca e sfiduciata, volge lo sguardo all’Europa.
A questa diaspora silenziosa Zaher dà finalmente una voce; una
voce dolcissima. Tra i versi delle sue poesie egli cerca il coraggio
per andare avanti, al di là del mare, dove crede sia garantito
il suo diritto all’esistenza.
Il taccuino trovato in tasca al ragazzo conteneva in poche pagine il
riassunto di una vita: alcuni talentosi schizzi corredati da misure
dettagliate per il lavoro di saldatore che svolgeva in Iran; una nota
sui risparmi racimolati e alcune poesie, appuntate o imparate forse
lungo il tragitto.
La calligrafia del ragazzo rivela un grado di istruzione molto basso e
ci conferma che, come tanti altri suoi connazionali, Zaher non ha avuto
la possibilità di frequentare la scuola. Eppure, difficile a
credersi per noi Italiani, conosceva a memoria e recitava tra sé
un certo numero di versi in rima. Poesie classiche, molto spesso poesie
antiche di alcuni secoli, che parlano di amore e nostalgia; in cui
l’amato è Dio e l’amore mistico il desiderio di
ricongiungersi a lui nello splendore e purezza della
pre-eternità.
“Tu porti il profumo delle gemme che sbocciano, sei come un fiore di primavera … È dolce il tuo affetto amo parlare con te … Tu sei un amico incantevole sei una seta di passione e bellezza”
Mi piace sottolineare questo perché l’amore per la poesia
di questi giovani migranti afghani è il primo indice della
sensibilità, della dignità e del rispetto con cui sono
educati fin da piccoli. Nell’intervistarli emerge fin troppo
spesso la sofferenza della discriminazione, la determinazione con cui
essi lottano per vedere riconosciuto il loro diritto di esistere
semplicemente in quanto “persone umane”. Il sogno europeo
è l’ “Europa dei diritti umani”. Sogno a cui
non intendono rinunciare. Inutile respingerli; ci proveranno di nuovo,
fino a morire se serve.
“Tanto ho navigato, notte e giorno, sulla barca del tuo amore che o riuscirò in fine ad amarti o morirò annegato.”
Andare avanti! A tutti i costi. “In Iran non si può stare,
in Afghanistan non possiamo tornare” –ripetono in modo
ossessivo i minorenni intervistati-.
La poesia continua. Racconta la paura del respingimento; di essere
trattato come un migrante qualsiasi o peggio come un ladro o un
clandestino.
“Giardiniere, apri la porta del giardino; io non sono un ladro di fiori,
io stesso mi son fatto rosa, che bisogno ho di un altro fiore qualsiasi”
.
La paura del viaggio. Il tratto di mare che ancora lo separa dal diritto d’asilo.
“Questo corpo così assetato e stanco forse non arriverà fino all’acqua del mare. Non so ancora quale sogno mi riserverà il destino, ma promettimi, Dio, che non lascerai finisca la primavera.”
Deve ancora cominciare l’inverno. Nel limbo di Patrasso Zaher si
imbarca su una nave diretta verso l’Italia. Ecco il mare,
l’ultima traversata.
“Oh mio Dio, che dolore riserva l’attimo dell’attesa
ma promettimi, Dio, che non lascerai finisca la primavera”
Per la mie esperienza di mediatrice è cosa comune che i ragazzi
afghani, anche analfabeti, conservino versi di poesia a memoria e li
ripetano spesso per darsi coraggio durante il viaggio e
l’esperienza della diaspora. Quello che sento ripetere più
spesso parla del dolore della morte in esilio. Vorrei dedicarlo in
chiusura a Zaher, ricordando che purtroppo questo è il pensiero
fisso che si legge negli occhi dei migranti afghani con cui vivo e
lavoro ogni giorno.
“Se un giorno in esilio la morte deciderà di prendesi il mio corpo
Chi si occuperà della mia sepoltura, chi cucirà il mio sudario?
In un luogo alto sia deposta la mia bara
Così che il vento restituisca alla mia Patria il mio profumo”
“Non so ancora quale sogno mi riserverà il destino, ma promettimi, Dio, che non lascerai si spenga questa mia primavera.”