QUINDICENNI
di MARIA G. DI RIENZO


Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) è una  prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, narratrice, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell'Università di Sydney (Australia); è impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarietà e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza.
Tra le opere di Maria G. Di Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza velo. Donne nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005]

Bebi (non il suo vero nome) teme per la sua vita, eppure è venuta. è fuggita da casa, dalla provincia afgana di Paktia lo scorso giugno. Ha quindici anni, e venerdì 15 settembre era in piazza a Kabul, assieme a molte altre donne che hanno protestato contro i cosiddetti "delitti d'onore". La Commissione indipendente afgana per i diritti umani (Aihrc) segnala da tempo un aumento costante di questi omicidi. I volti delle donne durante la manifestazione sono liberi, sensibili, determinati; molte indossano una sciarpa allentata, che non copre del tutto i capelli, molte altre non hanno nulla.
"Quando avevo sei mesi sono stata promessa all'uomo che ho dovuto sposare", racconta Bebi, "Come può questa essere una cosa giusta?". La ragazza vive ora in incognito nella capitale afgana, ospite di amici. Se pure volesse rivolgersi ad una struttura che aiuti le donne in difficoltà non saprebbe dove andare, non ce ne sono. Bebi è a rischio di essere uccisa per la
restaurazione dell'"onore" di un marito che neppure ha voluto: "Mi trattava come un animale, non come un essere umano. Mi picchiava ogni giorno, mi tormentava e mi teneva chiusa in casa. So che vuole uccidermi, perchè pensa che io lo abbia svergognato, ma dio sa che se c'è un colpevole è lui".
I "delitti d'onore" in Afghanistan vengono perpetrati usualmente da membri maschi della famiglia; talvolta vengono ingaggiati dei veri e propri "contractors", che sono pagati per uccidere le donne. Capita anche che la commissione della morte sia affidata a ragazzini, la cui età li mette al sicuro di fronte alla legge. Chi muore sono donne e ragazze che rifiutano un
matrimonio combinato, o che hanno una relazione affettiva giudicata inappropriata dalla famiglia. Stante le fortissime pressioni familiari, le ragazze si suicidano (spesso dandosi fuoco) o fuggono dalle loro case prima di essere uccise. "Troppe donne continuano a perdere la vita per questi crimini brutali", dice Soraya Sobrang dell'Aihrc, "Solo noi ne abbiamo
registrati 185 nei primi nove mesi di quest'anno, ma il numero reale è considerevolmente più alto. Specialmente nelle zone rurali, è molto difficile che questi omicidi vengano denunciati. Ci sono due fattori chiave nella situazione: il fatto che gli assassini non vengono perseguiti dalla legge, e il fatto che le donne non conoscono i loro diritti".
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Ringrazio le mie corrispondenti, le foto sono bellissime, tenete duro amiche e sorelle, abbracciate Bebi, siamo tutte lì con il cuore. E continuo a leggere i messaggi: "Sono Fikirte Getahun, una sociologa etiope. Ho avuto l'opportunità di viaggiare sino alle zone remote del mio paese per un lavoro di ricerca sui problemi degli adolescenti, il che include la salute riproduttiva e l'uso dei contraccettivi. Ho incontrato questa ragazza, Yenguse Dessie, che aveva all'epoca 15 anni ed era già madre di un bambino. Era stata costretta dalla sua famiglia a sposarsi ad 11 anni. Il marito la forzò da subito ad avere rapporti sessuali, che lei ha descritto come terribilmente dolorosi. Quando partorì il primo figlio le si formò una fistola, e dovette essere ricoverata nella capitale per l'intervento chirurgico. Non voleva avere un altro figlio, ma non sapeva come prevenire una seconda gravidanza. Di nuovo restò incinta, e si rivolse ai medici 'tradizionalì per interrompere la gravidanza. è stata sul punto di morire a causa di questo aborto. Il più grande sogno della sua vita, mi ha detto, sarebbe avere un'istruzione, di modo da poter crescere bene suo figlio".

E ancora: "Sono Kanchi Kumari Basnet, sono nepalese, e sono in prigione a causa della malvagità di mio suocero. Io vengo dal distretto di Sindhuli. Sono stata stuprata dal padre di mio marito. Mio marito lavorava all'estero come manovale quando è successo. Sono rimasta incinta. Ho dato alla luce un bambino morto. Credo che questo sia accaduto a causa di quanto pesante era il mio lavoro. Ma mio suocero, che mi ha violentata, ha chiamato la polizia. Ha detto loro che io dormivo con altri uomini e che avevo avuto questo figlio. Inoltre, mi ha accusata di aver fatto aborti per nascondere la mia
condotta. A questo punto il cielo mi è caduto sulla testa. Sono in prigione da sette anni, ma sto ancora chiedendo giustizia. Il padre di mio marito, che ha commesso il vero crimine, se va in giro libero e beato. Non capisco perchè sia così difficile credermi, lui non è stato neppure interrogato. Da quando sono detenuta non posso lavorare per dar da mangiare all'altro mio figlio. Adesso, per fortuna, di lui si prende cura l'Assistenza prigionieri del Nepal" (testimonianza raccolta da Indira Rana Magar, attivista dell'Assistenza prigionieri summenzionata; Kanchi aveva 15 anni quando si è sposata).

Quindici anni sono pochi, per così tanta sofferenza. Ma non scorgo un cenno di resa: potrebbero uccidermi, eppure mi mostro in piazza ad affermare il diritto alla vita mio e delle altre; voglio studiare, avere delle possibilità, e non è solo per me, ma anche per il mio piccolo; i torti che ho subito e sto subendo sono enormi, pure non smetterò di chiedere giustizia. A livello generazionale potrebbero essere tutte e tre figlie mie, Bebi, Yenguse e Kanchi: se così fosse sarei fiera della loro vitale fierezza.