SECONDE
GENERAZIONI
IL
CORVO
Il corvo una
volta camminava normalmente, anziché saltellare in quel
modo bizzarro.
Un giorno il
corvo vede un uccellino saltellare e decide di imitarlo. Prova
varie volte, non riesce, quindi cerca di riprendere il suo passo,
ma ormai si è scordato anche quello. Oggi con un piede
cammina e con l’altro saltella, rendendosi ridicolo.
Il
rischio per il bambino straniero è di diventare come il
corvo, che dimentica le proprie origini e non riesce ad inserirsi
nella nuova realtà: ormai estraneo alla famiglia e ancora
straniero nella società.
Adel Jabbar
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Cristina Ali
Farah
È successo due giorni fa, a Verona, mentre
tagliavo di traverso una piazza dei Caduti assonnata, anticipo
d’estate, due fratellini che girano in tondo con la
bicicletta, il padre ghanese che ripara le loro cadute, un
anziano signore seduto provvisoriamente a prender fiato, mentre
ascolta con le cuffie la musica del suo lettore cd. Dicevo,
stavo tagliando di traverso la piazza e l’autobus mi si è
fermato quasi di fronte, quando l’ho vista. Era tutta
vestita di rosa, il velo rosa allacciato sotto il mento che le
nasconde i capelli e il lungo vestito rosa, svolazzante, solo
l’ovale luminoso e le mani protese verso l’autobus in
partenza erano in vista. Nella Verona di questi giorni, un banale
autobus arancione in procinto di richiudere le porte e una
ragazza velata che corre nelle sue ciabattine di payette, formano
un quadro pieno di tensione.
Jooji ho subito
pensato, fermati in somalo, parola d’ordine per bloccare in
mezzo alla strada le xaaji qansiim, nome delle Toyota che
fungevano da trasporto pubblico a Mogadiscio, quando io ci
vivevo, il ragazzo appoggiato di sbieco sul paraurti posteriore,
ginnasta leggero che riscuote il prezzo della corsa. Sulle xaaji
qansiim si stava seduti in cerchio, fino a quando il mezzo
era completamente stipato, gente in piedi appoggiata l’una
sull’altra e io, da sempre con una voce troppo sottile che
chiedo aiuto al mio vicino, perché il guidatore mi senta
jooji, ferma, per favore puoi gridare jooji per me
altrimenti non mi sentono? Che sia autobus o xaaji qansiim,
corpo unico e vibrante in corsa, pieno di promiscuità non
domandate, in ogni tempo e in ogni luogo, il mezzo di trasporto è
stato contenitore di radicati conflitti. Non occorre ritornare
al 1955, anno in cui la Rosa d’Alabama, stanca di
arrendersi si era seduta su un posto riservato ai bianchi, né
al periodo del colonialismo in cui gli italiani imponevano leggi
simili sui mezzi di trasporto eritrei. Basti pensare che non
sono passati molti giorni da quando è stato eletto sindaco
di Verona un politico che ha proposto per gli immigrati
un’entrata separata sull’autobus, per essere sicuri
che paghino il servizio, ha detto.
E mentre vedevo la
ragazza con il velo rosa e il vestito lungo rosa che correva e mi
chiedevo se l’autista si sarebbe fermato, pensavo che
sicuramente no, avrebbe ripreso la sua corsa, ignorando
quell’intrusa che si permetteva di arrivare in ritardo,
mentre lui spaccava il minuto e pensavo che sicuramente tutti gli
autisti fossero uguali a quell’unico che mi aveva fatto
arrabbiare tanti anni fa, quando dall’entrata posteriore
erano saliti due ragazzi senegalesi e davanti al semaforo rosso
l’uomo si era alzato dal suo posto di guida, percorrendo
tutto il mezzo nella sua lunghezza per puntare il dito di fronte
ai due neri: l’avete pagato il biglietto? Mentre in moto di
difesa, incurante di essere a mia volta una trasgreditrice,
facevo scudo con la mia lingua forbita: lei faccia il suo lavoro
e guidi il mezzo. Episodio isolato e contrapposto agli autobus
rossi londinesi alla guida dei quali avevo visto somali barbuti,
pakistani, caraibici che riscuotevano il prezzo del biglietto
dietro uno spesso vetro divisorio. Piccoli episodi di stretto
contatto, paure che vengono allo scoperto, stuzzicate sicuramente
dall’intimità degli umori, sudore mischiato a
profumo di muschio, aglio e dentifricio alla menta, curry e
dopobarba, fritto e naftalina; corpi che si toccano loro
malgrado, mani che scivolano sulle aste per sorreggersi, aliti
che inumidiscono gli stessi vetri.
Allora in quell’istante
che mi è sembrato infinito, mentre osservavo quel velo e
quel vestito rosa sollevati nella corsa, ho pensato a questo
nocciolo di paura che tutti noi stringiamo qui in mezzo alle
costole, l’involucro delle nostre difese, nodo duro di
vergogna che solo se riconosciuto potrà
sciogliersi. L’autista ha già inserito la marcia
per allontanarsi dalla piazza dei Caduti, quando improvvisamente
si accorge della ragazza tutta rosa ormai vicinissima. Inchioda e
le apre la porta anteriore.
Cristina
Ali Farah è nata a Verona nel 1973 da padre somalo e madre
italiana. E’ vissuta a Mogadiscio dal 1976 al 1991 quando è
stata costretta a fuggire, con il suo primo figlio, a causa della
guerra civile. Dal 1996 vive stabilmente a Roma dove si è
laureata in Lettere e dove sono nati i suoi altri due figli. E’
tra le fondatrici della rivista di letteratura di migrazione
El-Ghibli, collabora con numerosi periodici e testate ed è
presidentessa dell’associazione Migranews. Ha pubblicato
racconti e poesie in diverse antologie e nel 2006 ha vinto il
Concorso Letterario Nazionale Lingua Madre. Per Frassinelli nel
2007 ha pubblicato il suo primo romanzo, Madre piccola.
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