ROSSI O NERI?
Il 1948 è stato un anno cruciale per la storia del nostro Paese. Le
elezioni del 18 Aprile fissarono un punto fermo nel delicato clima del
dopoguerra. L’Italia rimase nell’area occidentale che si era venuta a
creare dopo la spartizione di Yalta, le speranze dei comunisti di avere
un governo simile a quello di tanti paesi dell’est europeo, fallirono
clamorosamente.
Vi erano già state le elezioni del 2 Giugno 1946, per la scelta tra
Monarchia e Repubblica e per l’assemblea Costituente, vinse la
Repubblica tra tantissime polemiche, ma il vero scontro tra le due
opposte visioni, tra coloro che avrebbero gradito l’appoggio del
comunismo dell’Unione Sovietica e quelli che invece davano la loro
adesione alla concezione liberal-capitalista, con l’appoggio americano,
in realtà i veri vincitori della guerra e del dopoguerra, avvenne due
anni dopo.
Il 18 Aprile 1948, la Democrazia Cristiana stravinse, ottenendo
12.740.000 voti con il 48,51% e conquistando 306 seggi, mentre il Fonte
Popolare (socialisti e comunisti) raggiunse 8.136.600 voti e il 30,98%.
Si presentò per la prima volta a quelle elezioni anche un piccolo
partito di ex nostalgici e di coloro che non accettavano quella
spartizione: era il Movimento Sociale Italiano che ottenne sei seggi in
Parlamento con 526.000 voti conquistati solo su parte del territorio
italiano dove gli uomini, che avevano da pochi mesi fondato quel gruppo
politico tra mille difficoltà, erano riusciti a presentare le liste
elettorali.
A quindici anni, tanti ne avevo in quel tempo, non mi era ancora ben
chiara la situazione della società italiana. In realtà i miei problemi
principali erano: il divertimento, lo sport, il cinema, gli amici e, per
non deludere le attese dei genitori che tantisacrifici facevano per
mandarmi a scuola, anche lo studio.
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Squadra di calcio del TOF:
in piedi : Biondini, Mariotti, ?, Zamboni, '?. Pedrazzi.
in ginocchio e accosciati: Mantovani, Bertocchi,
Piccinini (allenatore e D,S) Zucchini, Incerti, Sartoris
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Frequentavo, allora, il gruppo dei “Cordigeri” aggregato al Convento dei
Frati Cappuccini di Via Ganaceto, dove i giovanissimi erano seguiti e
nei giochi e nell’educazione religiosa del catechismo, dai coniugi
Secchiari.
Facevo parte del coro, guidato dal Sig. Secchiari Ugo e la nostra “messa
cantata” particolarmente quella scritta dal maestro “Lorenzo Perosi”,
otteneva in città un grande successo. La Chiesa dei Frati Capuccini di
Via Ganaceto era sempre strapiena alla Domenica durante la messa
principale delle undici, per merito anche dell’ottimo collettivo del
nostro coro che si esibiva in quella splendida esecuzione, della messa
del Maestro Perosi.
Nelle date più importanti della Chiesa Modenese, si partecipava alle
lunghe ed interminabili processioni che attraversavano le strade della
città, tra due fitte ali di folla composta e in preghiera.
Ma l’impegno e la fatica più grossa per noi giovani era quella relativa
al portare, per tutto il tragitto della processione, pur alternandoci
nel trasporto, uno dei grandi stendardi, pesantissimi, della nostra
confraternita.
Era uno sforzo notevole che veniva fatto con entusiasmo e dedizione, che
ci gratificava per la nostra appartenenza a quella importante famiglia,
della quale ricordo con particolare simpatia gli uomini più attivi e
rappresentativi quali, i fratelli Benzi, Franco e Giordano, titolari di
uno dei più importanti negozi di falegnameria artigiana della città, in
Via Fonteraso nel palazzo Margherita, vicino all’ingresso della Società
Panaro. Oltre al Dott. Carlo Luppi, ai fratelli Saguatti, Nello, Nino e
Giordano, il Geom. Selmi, Angelo Marchetti, Paolo Koenig, Gianni
Sartoris, Mariotti, Biondini e tanti altri di cui mi sfuggono le
generalità.
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Vacanza al Parco Naturale d'Abruzzo Bruno Zucchini
sulla cima del Monte Meta |
Ci si dedicava inoltre all’attività sportiva: avevamo costituto una
squadra di calcio ed una di pallavolo dopo aver costruito il campo
regolamentare all’aperto, nel giardino posteriore del palazzo di Via
Ganaceto, ove si trovava la nostra sede e che era situato tra il
palazzo, allora sede del PCI, ed il Palazzo Campori.
Le partite di calcio le andavamo a disputare particolarmente contro le
squadre d’altre parrocchie che avevano a disposizione campetti, come
quelli della Chiesa di San Cataldo, di San Domenico e del Tempio. Erano
sempre partite accanitissime.
Gli incontri di pallavolo erano più spesso disputati sul “nostro” campo
di Via Ganaceto.
Nello stesso tempo, avendo frequentato la terza media in quel di
Sassuolo, dopo le traversie della guerra, diventai molto amico (amicizia
rimasta nel tempo) con un ragazzo dell’“altra parrocchia”. Otello
Incerti, comunista doc, anche negli anni a seguire.
Lui era della “Sacca”, rione rosso per eccellenza, io ero spesso a casa
sua per due ragioni. Aveva una splendida sorella che dormiva nella sua
stessa camera, irraggiungibile (anche perché era più grande), inoltre
gli piaceva giocare a calcio; alcune volte aveva indossato la maglia
della mia squadra, quella del TOF (Terz’Ordine Francescano). Si andava a
giocare anche nel “suo” campo alla Sacca, poiché con noi veniva, qualche
volta a giocare, un ragazzo veramente molto bravo, che sapeva darci
utili suggerimenti del come migliorare nel trattamento della palla, un
certo Gianni Seghedoni, diventato poi noto giocatore e allenatore di
squadre di serie A.
Il nostro rapporto di amicizia, scolastica e sportiva, anche se ci
divideva sul piano ideologico e politico, ci univa sul piano sociale e
comportamentale. Entrambi d’origine proletaria, avevamo la stessa
passione per lo sport, per la ricerca del nuovo e per il miglioramento
delle nostre posizioni economiche.
Frequentammo la stessa scuola superiore, andammo assieme a giocare per
un brevissimo periodo nei “ragazzi” del Modena F.C., del mitico
allenatore Mabelli, dove ritrovai tra i coetanei, il mio ex vicino di
casa (eravamo entrambi nati nello stesso anno 1932 e nella stessa via
Cesare Battisti, dove le nostre madri erano ottime amiche) Sergio
Brighenti, anche lui destinato a grandi traguardi calcistici.
Io però, oltre a non essere all’altezza, dal punto di vista calcistico,
dei nomi che ho citato, mi interessavo a tante altre esperienze, il
cinema, le ragazzine, la politica, lo studio, di conseguenza mi
allontanai da quel mondo per passare ad uno sport “individuale”, che
sentivo più consono alle mie caratteristiche che già a quei tempi si
esprimevano in chiave personalistica; mi iscrissi pertanto, con l’amico,
alla Società Sportiva “La Fratellanza” per praticare l’atletica leggera
sotto la sapiente guida dell’allenatore Piero ”Pirein” Baraldi.
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Stadio Braglia:
Gran Premio Giovani Vittoria nei 100 metri piani di Bruno Zucchini
dietro: Tinarelli e Silvestri |
Entravo nel periodo molto difficile per la crescita di un adolescente,
si iniziava a partecipare alla vita e si trattava di fare delle scelte,
di collocarsi ideologicamente o da una parte o dall’altra.
Era come trovarsi, seppure in una dimensione meno pericolosa, nel
periodo tragico e drammatico della guerra civile di pochi anni prima,
dove un giovane era costretto a schierarsi, o con i fascisti che nel
bene o nel male avevano partecipato all’indottrinamento avuto da quel
regime, oppure con coloro che si rifugiavano in montagna per spirito di
contestazione alla formazione ideologica ricevuta, o che si nascondevano
nell’attesa della vittoria di una delle due parti in lotta.
Il dopoguerra ci aveva portato tanti esempi di giovani, di poco più
grandi di noi, che avevano fatto delle scelte che, in concreto, per
molti risultarono vincenti, ma per tanti altri portarono a delle vere e
proprie allucinanti situazioni di vita.
Erano gli stessi giovani, gli stessi fratelli, gli stessi amici o vicini
di casa che, per ragioni a volte imponderabili o semplicemente lasciate
al caso, si arruolavano, o con quelli che indossavano la divisa
militare, o con gli altri che ritenevano giunto il momento di ribellarsi
a quel regime che aveva avuto per venti anni il predominio in Italia e
che li aveva portati ad una guerra che andava via via facendosi sempre
più difficile, intravedendosi, già in quei tempi, la probabilità della
sconfitta.
Chi aveva indossato la divisa militare, alla quale era stato educato e/o
condizionato, si trovò al termine del conflitto, se era riuscito a
salvarsi la vita dopo i massacri indiscriminati del dopo “liberazione”,
ad essere emarginato, allontanato, dalla società con condanne di morte
civile propinate attraverso, epurazioni, allontanamenti dai posti di
lavoro e dai pubblici uffici che rendevano loro impossibile un regolare
reinserimento nella vita lavorativa del dopo guerra.
Mentre gli uni (la maggioranza a guerra ultimata) che, a parte pochi per
vera e propria convinta ideologia, si trovarono, fortunosamente
schierati con lo schieramento che aveva seguito gli anglo-americani, in
realtà i veri vincitori di quel tremendo conflitto mondiale, ebbero poi
facile accesso alle arrampicate sociali di qualsiasi tipo.
Anche noi, della generazione successiva a quella che aveva vinto o perso
la guerra, che fossero della “generazione che non si è arresa “ o di
quella che ha conquistato il potere per meriti altrui, ci siamo trovati
nella difficile situazione, seppure a guerra conclusa, di fare delle
scelte che ugualmente risultarono, vincenti o penalizzanti, dal punto di
vista economico e sociale.
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Anno 1952 davanti alla Chiesa di San Giorgio Amici
;
Germano Morandi, Tiziano Feretti e Argeo Tedeschi |
La mia estrazione avrebbe dovuto condurmi sulla barricata proletaria e
socialista, dove in realtà mi sono sempre trovato e mi ci trovo tuttora,
come mio padre mi aveva indicato (non ebbe mai in tasca, durante il
ventennio, la tessera del partito) e dove si è sempre collocato mio
fratello, che andò a combattere, e a lasciarci la vita, per quell’ideologia
che prometteva la giustizia sociale senza le storture del comunismo e
del massimalismo socialista.
E’ difficile oggi, a distanza di oltre mezzo secolo, valutare nel modo
giusto, le scelte fatte in giovane età nell’immediato dopoguerra. Col
passare degli anni, avrei potuto, come hanno fatto tanti amici e
camerati degli anni giovanili, “voltare gabbana” e avere tutti i
privilegi, partecipando alle celebrazioni resistenziali, che lo stare
con il potere comporta.
N’avrei tratto vantaggio io, la mia famiglia, i miei figli: al
contrario, ho continuato sulla strada più difficile e scomoda.
Il sacrificio del fratello maggiore? Lo dovevo completamente annullare e
dimenticare dai miei ricordi? Ci fosse stato da parte dei “nuovi” al
potere il riconoscimento, almeno formale, di “coloro che si sono trovati
dalla parte sbagliata” in buona fede, oppure per circostanze fortuite, e
poi avviati a quella scelta dall’educazione ricevuta da parte di tanti
adulti che, intravista “l’aria” che tirava, passarono immediatamente con
i nuovi padroni.
Quei giovani sono stati completamenti demonizzati e si è voluta
cancellare completamente la memoria storica delle loro esistenze. Forse
in quel modo si poteva evitare di procrastinare negli anni e sino ad
oggi, il concetto di guerra “di liberazione” per i vincitori e di guerra
civile per tutti gli italiani.
Non era possibile per un ragazzo di quindici–sedici anni valutare, come
grave ed imperdonabile errore, quello che aveva fatto il fratello
maggiore, oltretutto convinto delle sue scelte.
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Sestola 1951
Da sinistra a destra:
Adelmo Lancellotti, “Nini” Grandi
Gianni Severi, Bruno Zucchini, Gianfranco Prandini
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Mi trovavo in quest’enorme dilemma quando, terminate le scuole medie, mi
iscrissi, con grande sacrificio dei miei genitori, alla scuola superiore
e precisamente all’Istituto Tecnico per Geometri e Ragionieri che aveva
sede in Corso Cavour.
La mia scelta cadde sulla sezione per Geometri. Voluta con tutte le mie
forze, poiché, con la casa distrutta dal secondo e pesante bombardamento
di Modena e dopo lo sfollamento nelle campagne di Ravarino, ritornammo
in città al termine della guerra, ospiti di una famiglia in una bella
villetta in Via Celestino Cavedoni, (la strada di fronte alle ex Aziende
Municipalizzate).
Erano state emanate disposizioni per aiutare le famiglie in difficoltà,
coloro che avevano abitazioni con molti locali dovevano cederne alcuni
alle famiglie, private di un tetto, a causa dei bombardamenti.
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1951
Sestola ai giardini - amiche e amici |
La proprietà nella quale arrivai da sfollato era quella del Direttore
della Cassa di Risparmio di Modena, Rag. Giovanni Pederzini, che fu,
assieme a tutta la sua famiglia, veramente disponibile nei nostri
confronti. Al momento dell’iscrizione alle scuole Superiori mi venne
proposto di iscrivermi a Ragioneria; la possibilità di una carriera di
impiegato di banca era quasi assicurata (a quei tempi l’impiego bancario
era, come si diceva, “un terno al lotto”). Rifiutai categoricamente,
perché allora, ritenevo il rinchiudermi in un ufficio, una specie di
“morte civile”.
Optai per la strada del Geometra che, in teoria, mi avrebbe dato la
possibilità di svolgere un lavoro “all’aria aperta”. Va rilevato che per
la mia famiglia, in quei bui anni, quella era una scelta difficile e
dispendiosa e inoltre non avrei potuto mai scegliere una scuola tipo
liceo che avrebbe obbligato ad una continuazione universitaria. Troppo
lunga e costosa.
Qui, all’Istituto Barozzi, ebbi la possibilità di formarmi tante
amicizie e conoscenze che mi avrebbero poi dato la possibilità di
inserirmi in un mondo che a quei tempi nemmeno sognavo. Le mie origini,
come già detto, erano sicuramente “proletarie” e povere. Sin d’allora la
mia ideologia era decisamente, come poi è rimasta, socialisteggiante,
anche quando mi trovai a frequentare il mondo borghese e del capitale,
della cosiddetta “buona” società modenese, anche per la mia professione
definitiva, quella di insegnante e di libero professionista.
Ma perché, mi chiedevano i conoscenti e i parenti, non ti sei collocato
in quell’area emergente social-comunista che, con il potere politico
prima ed economico poi, come si intuiva, ti avrebbe dato la possibilità
di costruirti con sicurezza il futuro?
I contatti e le proposte c’erano stati, molti miei amici borghesi
passavano, gradualmente, dalla parte dei nuovi padroni, le carriere
politiche, sociali ed economiche erano alla portata di mano. Lo stato di
conflitto interno era di conseguenza enorme: le frequenze nel mondo
cattolico, con tutte le contraddizioni che vi avevo trovato, avevano
creato in me una crisi religiosa di notevoli dimensioni. Le amicizie con
ragazzi d’altro pensiero politico, la presenza in famiglia di concezioni
etico-politiche di sinistra, mio padre socialista, uno zio materno
comunista, mi mettevano in continuazione di fronte a queste crisi
esistenziali e di pensiero.
Ero pertanto nel pieno della crescita e della difficoltà nelle scelte
quando entrai all’Istituto Tecnico J. Barozzi. In quelle aule feci un
incontro e trovai una sincera e duratura amicizia con un ragazzo
d’estrazione tipicamente borghese, figlio di un noto medico, situazione
socio economica decisamente alta per quei tempi; aveva avuto un fratello
ucciso dai partigiani nel maggio del 1945 (la sua salma non è mai stata
ritrovata), molte cose ci univano, seppure con una certa visione
divergente su alcune problematiche. Amico allora ed ancor più oggi.
Maurizio Rebucci.
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L'amico Maurizio Rebucci a Roma con l'estensore di
queste note in visita al Foro Italico (ex Foro Mussolini) |
Si frequentava insieme la compagnia del centro, le aule scolastiche, il
cinema e i tanti altri aspetti di una giovinezza, che in realtà per la
maggioranza della nostra generazione è stata allegra e divertente,
contrariamente a quella che ci aveva appena preceduto.
Assieme all’amico si andò una sera ad una riunione che si svolgeva alla
trattoria del “Bersagliere” in Via Gallucci, dove si incontravano i
primi uomini, ex fascisti, postfascisti, e uomini liberi che da poco
tempo avevano costituito a Modena la sezione del Movimento Sociale
Italiano.
Forse attratto dal nome della trattoria che ricordava il trascorso di
mio fratello, convinto dall’amico e desideroso di approfondire i temi
che questo partito enunciava, oltre che per cercare di conoscere alcuni
dei personaggi della “generazione che non si era arresa”, mi recai a
quell’incontro, dal quale ne uscii alquanto perplesso.
Né critico, né entusiasta per quello che avevo sentito. Si parlava di
Patria, di conquiste sociali di equidistanza da capitalismo e comunismo,
insomma tutti temi che, a grandi linee, si potevano condividere. Nello
stesso tempo consideravo velleitario e anacronistico il ricordo
esasperato del periodo del ventennio, anche perché la mia famiglia aveva
subito le conseguenze devastanti del conflitto appena terminato. La casa
distrutta, lo sfollamento, il fratello morto in Russia, la miseria degli
anni del dopoguerra, non potevano certo portarmi ad entusiasmarmi per un
regime sconfitto.
L’arrivo poi degli americani, con la loro ricchezza e spavalderia, con i
loro film e la loro musica, portavano noi, della generazione successiva
a quella del periodo fascista, ad entusiasmarci facilmente per tutte
queste nuove conoscenze e per questo nuovo mondo che sembrava
promettere, a breve, una società ricca e aperta ad ogni possibile
iniziativa. Tutte queste nuove conoscenze, che ti arrivavano addosso
nell’età in cui ti appresti a conoscere e ad affrontare il mondo e tutto
quello che incontri ti sembra bello e ineguagliabile, possono veramente
condizionare le scelte di un giovane.
Allora gli entusiasmi di mio fratello e di tutti gli altri giovani, per
non dire della stragrande maggioranza del popolo italiano, per quel
mondo che io avevo appena intravisto e del quale parlava con entusiasmo
nei suoi scritti: e le scelte che aveva fatto, erano stati solamente
degli abbagli, delle chimere o dei falsi miti?
Rimasi perplesso per un certo periodo, poi, a distanza di alcuni mesi,
presi la decisione di iscrivermi a quel partito senza darne
comunicazione, se non dopo parecchio tempo, ai miei familiari.
In quel periodo frequentavo costantemente, la casa dell’Ing. Mario
Camerini che, assieme alla sorella Lia, mi seguirono nella preparazione
dei miei studi e dei miei esami per alcuni anni. Era stato ottimo amico
di mio fratello e prese a volermi bene come si fa con un fratello
minore. Assieme a lui ebbi la fortuna di essere seguito e “controllato”
da altri carissimi amici di mio fratello che, quali “tutori”, cercarono,
laddove era loro possibile, di seguire i miei primi passi da adolescente
e da studente delle scuole superiori e nello sport, erano i miei futuri
colleghi Franco Anderlini, Ferdinando Ponzoni, Luciano Gambetti e Nino
Bertacchini.
Il Sig. Mario, come lo chiamavamo, io e gli altri due cari amici, Otello
Incerti e Alberto Paltrinieri con i quali si frequentava quella casa per
prendere lezioni in alcune materie è stato, certamente, un personaggio
eccezionale.
Di vastissima cultura, come la sorella Lia che c’insegnava la lingua
francese, dotato di grande umanità e di una personalità spiccatissima,
personaggio eclettico ed estroverso, ci istruiva nelle scienze fisiche e
matematiche e nel disegno tecnico; è stato, tra l’altro, un grande
progettista, mi ha dato sicuramente, delle grandi lezioni di vita. Debbo
tantissimo alla sua umanità, alla sua disponibilità, alla sua pazienza
nel cercare di indirizzarmi nel modo migliore, nel controllare le mie
ribellioni e il mio carattere a volte esuberante, ma incostante e
volubile, per far sì di incanalarlo sulla strada dello studio e nella
perseveranza della ricerca di brillanti risultati anche nella vita
sociale. Di frequente, si alternava, nell’insegnamento ai tre
giovincelli, il cugino dell’ingegnere, studente universitario, anche lui
dotato di grande intelligenza e personalità: il Dott. Mario “Cicci”
Roganti, diventato poi uno dei più noti cardiologi modenesi. Una
famiglia dunque, di grandi ingegni, che lasciò in me un bagaglio di
cultura e di vita che mi è servito tantissimo. Abitavano in piena Via
Emilia Centro, con entrata da Via Torre, in un bell’appartamento
esattamente di fronte alla Ghirlandina. Durante le ore di lezione o in
quelle di relax, che si passavano in quella casa, dalle ampie finestre
potevi quasi toccare con mano lo splendido spettacolo dell’abside
romanico del nostro Duomo e la snella figura della torre.
Ebbi anche il piacere negli anni successivi, mentre frequentavo la
quarta e la quinta classe, di svolgere un praticantato della professione
di Geometra, con l’ing. Camerini, disegnando alcuni dei progetti più
importanti della sua vastissima attività di progettista, quali la Casa
di Cura “Villa Laura” del prof. Sergio Ferrari in Via Prampolini, la
villa “Hansberg” in Via Archirola, e di alcuni palazzi di Viale Verdi e
Via Bellinzona.
Mi permise, tra l’altro, in alcune occasioni, di usufruire della sua
abitazione per l’organizzazione di alcune “festine private” al
pomeriggio del sabato o della domenica, assieme ai miei amici e amiche,
dato che non avrei potuto farlo a casa mia.
Quella delle festine private fu, per un certo periodo, una delle tante
esperienze fatte in quegli anni con la “compagnia del Centro” nelle case
di molti amici tra i quali vorrei citare l’indimenticabile Ivan
Manicardi (scomparso per un incidente stradale a poco più di venti
anni), Giacomo Manni, Maurizio Rebucci e tanti altri.
Ma poi prese il soppravento la passione per le sale da ballo o “balere”:
per lunghi periodi, praticamente tutte le sere e i sabati pomeriggio
(the studenteschi) si andavano a passare con varie compagnie, (non solo
per conoscere le ragazze con le quali iniziavano le prime avventure, ma
fondamentalmente per stare sempre in allegria), ore su ore nei vari
locali quali: il Ragno Azzurro (nell’ex casa del Mutilato in Viale
Muratori), il Rifugio Verde (a San Faustino), l’Astoria (il salone delle
Feste dell’Hotel Fini), il Circolo Centrale (o dei Postelegrafonici), il
Tombolo (alla Crocetta), il mitico Settimo Cielo (sia estivo che
invernale, sopra al Cinema Principe in Piazzale Natale Bruni), il
Sirenella (nella ex casa del fascio di Via Montegrappa), il Garden
(prima estivo poi anche nella versione invernale, di proprietà del mio
Prof. di Matematica e Fisica, “Poldo” Piccagliani, del quale avrò modo
di parlarne più diffusamente) e poi negli anni a seguire il Mocambo,
l’Eden in Piazza Matteotti e ancora a Cognento da “Aicardi” oltre ai
locali della Provincia, in particolare quelli di Sassuolo, Formigine e
Vignola, facilmente raggiungibili con il trenino della Sefta, solamente
alla domenica pomeriggio, poiché a quei tempi, alla sera, i trenini
delle Ferrovie Provinciali non viaggiavano.
Tutto questo, però, andava a scapito dello studio e dello sport. La mia
situazione scolastica, in certi periodi, è stata abbastanza precaria,
anche se poi nei vari “rush” finali o a giugno e qualche volta ad
ottobre, riuscivo sempre a venirne fuori dignitosamente.
Una delle situazioni più delicate nelle quali mi trovai, fu quella del
terzo anno all’Istituto. Era abitudine per il nostro gruppo di amici, a
scuola e fuori, farci in continuazione scherzi e prese in giro.
Era nella norma, in quel periodo, riempire le pagine dei quaderni di
alcuni “malcapitati” con figurazioni “oscene”. Disegnavamo, sui fogli
intonsi, enormi figure dell’organo genitale maschile che, in ultima
analisi, altro non facevano, che rendere inservibili i quaderni o i
fogli da disegno dove venivano raffigurate queste “opere d’arte”.
Accadde, un bel giorno a metà anno scolastico, che durante l’ora di
disegno nell’aula apposita, andai a siglare con una di quelle opere, il
foglio di un compagno di classe. L’insegnante, una professoressa già
anziana, se ne accorse, scoperto il colpevole del misfatto e
“scandalizzata” lo spedì dritto, dritto in Presidenza.
Il Preside, sconvolto da un simile comportamento, convocò urgentemente
il Consiglio d’Istituto e il povero ragazzo, autore di quell’”atroce
misfatto”, venne condannato a 15 giorni (quindici) di sospensione. Da
notare che oggi un simile episodio costerebbe più all’insegnante che
all’allievo. Oltre ai quindici giorni di allontanamento dalla scuola
(per poco non fui radiato da ogni ordine e grado della scuola italiana)
ci fu anche il cinque in condotta nel secondo trimestre.
Mi trovai in un vicolo cieco, non dissi nulla ai miei genitori fingendo,
ogni mattina, di recarmi a scuola, ma in realtà andavo ai giardini
pubblici, luogo d’incontro di tutti i “cabottisti” (coloro che
marinavano la scuola). Ma un giorno arrivò a casa la comunicazione della
scuola che annunciava ai miei genitori il comportamento disdicevole del
loro maldestro figliolo.
Convinto ormai della mia sicura bocciatura mi lasciai completamente
“andare” e sino alla fine dell’anno scolastico non toccai più un libro.
Fortunatamente alcuni insegnanti, che mi volevano bene, non accettarono
quel verdetto e capirono il mio piccolo o grande dramma, mi aiutarono
dandomi la sufficienza anche se non la meritavo, mentre quattro tra i
più intransigenti mi rimandarono ad ottobre nelle loro materie. Riuscii
ugualmente a salvarmi, dopo una “sgobbata” estiva non indifferente.
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Classe 4 A Geom. ai Giardini pubblici a lezione
di Topografia a l centro l'Ing, Cattaneo docente della materia. |
Quell’episodio, oggi da considerarsi veramente banale, avrebbe potuto
portarmi ben più gravi conseguenze se avessi messo in atto un progetto
che si stava preparando in quei giorni. Due amici di partito, Enzo
Beltrami e Brenno Moretti avevano preso la decisione di partire per la
Legione Straniera (mito di tanti giovani di destra a quel tempo) e io
avrei dovuto aggregarmi a loro. Anche perché subivo, in parte, (erano
più vecchi di me di due o tre anni), la loro audacia e la loro forte
personalità. Nel frattempo, nel mio intimo, sentivo fortemente la
responsabilità per il gran dispiacere che avrei portato ai miei
genitori, unico figlio rimasto, in quanto erano ancora sotto pressione
per il fratello maggiore scomparso in Russia che i giornali, a otto anni
di distanza davano ancora come prigioniero, di conseguenza feci marcia
indietro all’ultimo istante.
Dei due “avventurieri” uno, Brenno, si rifugiò in Svizzera prima
dell’arruolamento; l’altro Enzo Beltrami si arruolò, si fece tutto il
servizio di addestramento, prima di esser “spedito” in Indocina a
rimpolpare le truppe francesi a Dien Bien Phu.
Il legionario però, in vista delle coste indocinesi, assieme ad un
commilitone si gettò dalla nave (se fosse stato ripreso dai francesi
sarebbe stato fucilato come disertore), rimase quattro giorni in mare,
per essere “ripescato”, fortunatamente, seppure in condizioni disperate,
da pescatori indocinesi. Dopo qualche tempo riuscì a rientrare in
Italia.
Un episodio analogo per le conseguenze, un giorno di sospensione, mi
capitò in quinta classe, ultimo anno di scuola ed anche questo durante
il secondo trimestre. Di fronte al portone d’ingresso dell’Istituto
Jacopo Barozzi, in Corso Cavour, vi era un deposito di biciclette che
ovviamente serviva, in gran parte, alla popolazione studentesca di
quella scuola. Eravamo diventati amici del proprietario o gestore il
quale aveva un bimbo piccolo, di tre-quattro anni, spesso con sé. Una
mattina chiedemmo al padre la possibilità di condurre con noi in classe
il figlioletto, il quale era ben contento di una simile avventura. Il
genitore diede il suo consenso di buon grado e noi portammo il bimbetto
nell’aula di Topografia, al secondo piano dell’Istituto, dove quella
mattina avevamo lezione.
Insegnante della materia era l’Ing. Cattaneo, un bravissimo insegnante e
una buonissima persona che, molto spesso, aveva difficoltà a tenere
sotto controllo la nostra classe, 5°A, la quale, usando un eufemismo,
era alquanto esuberante. Il bambino fu tenuto buono e tranquillo,
nascosto dietro gli ultimi grandi banchi per il disegno, con caramelle e
lecca lecca, ma dopo mezz’ora iniziò a fare i capricci.
L’Ingegnere sentendo quella voce querula di bambino, “in primis” cercò
di far smettere quello di noi che si stava divertendo nel fare quelle
“vocine”, poi, incuriosito si avvicinò agli ultimi banchi e con enorme
sorpresa si trovò di fronte il “fantolino”. “Cosa ci fa in quest’aula
quel bambino?” chiese, e noi a supplicarlo che non si poteva lasciare
sulla strada un trovatello, forse orfano, dovevamo per forza tenerlo con
noi, ecc.ecc.
Per un po’ rimase perplesso, ripeto era un uomo buonissimo, ma subito ci
invitò a riportalo dove l’avevamo trovato o quanto meno a consegnarlo ai
bidelli. Presi il bambino in braccio e al momento di uscire dall’aula
gli dissi di salutare con la manina; lui lanciò un fortissimo “ciao
nonno” che fece sbellicare dalle risate, tutta la numerosa classe. Io
con il bambino in braccio mi trovai nel corridoio di fronte al Vice
Preside Prof. Vandini, insegnante di tedesco che stava facendo lezione
nella classe vicino alla nostra, alla sezione ragionieri.
Era considerato un insegnante intransigente un “duro” e difatti era
solito entrare, a volte, improvvisamente nei gabinetti dove, durante
l’intervallo, (avvolti in una nuvola di fumo, si andava a fumare,
passandocela l’uno con l’altro una sigaretta), alla ricerca, con
relativa punizione, del malcapitato che veniva trovato con la sigaretta
in bocca.
Era uscito dalla sua aula, sentendo tutto quel baccano, e mi trovò come
si suol dire, “in castagna”; andammo immediatamente in Presidenza e il
bambino venne consegnato ai bidelli per esser riportato al genitore. Io
rimasi in quell’ufficio, seduto di fronte alla scrivania del Preside, il
Prof. Mario Negri, per l’interrogatorio, quando, dopo circa un quarto
d’ora si sentì bussare alla porta, vidi entrare, a capo chino, il mio
compagno di tante avventure e carissimo amico e poi collega, Argeo
Tedeschi, il quale, in classe durante la mia assenza, si era preso il
compito di fare una petizione con le firme di tutti gli alunni per
dichiarare che tutta la classe era responsabile dell’accaduto. Ci fu un
intoppo, uno della classe, che in realtà era sempre stato ai margini
delle varie iniziative che intraprendevamo, si rifiutò, prendendosi due
sonori ceffoni dall’amico, alquanto “focoso”.
Il buon ingegnere non potè far altro che mandare l’amico in Presidenza.
Fummo sospesi per un giorno, in considerazione del fatto che si era in
ultima classe e che a distanza di pochi mesi avremmo dovuto sostenere
l’Esame di Stato.
La conclusione fu che a Luglio, (allora l’esame durava quasi tutto il
mese) io e l’amico fummo promossi (con grande sorpresa di tutti gli
altri, mentre la quasi totalità della classe dovette riparare ad ottobre
ed alcuni furono anche bocciati (cinque promossi su trentacinque era
veramente una percentuale assai ridotta).
Gli anni ’50 furono, per i giovani modenesi, tempi di “vacche magre”;
già erano pochissime le lire che giravano nelle tasche dei
diciotto-ventenni quando, all’inizio di quell’anno di mezzo secolo, una
“illusa” senatrice socialista propose una legge che avrebbe dovuto
redimere le donne che si dedicavano al mercimonio del loro corpo,
attraverso la chiusura delle case di tolleranza.
Qualche volta, noi sedici-diciasettenni, facevamo il tentativo di
entrare in uno dei “casini” di Via Catecumeno, ma la maitresse alla
porta ci pizzicava sempre nei nostri ridicoli tentativi di “camuffare”
la data di nascita sulla carta d’identità di conseguenza venivamo
metodicamente rinviati a casa.
Attendevamo l’alba dei nostri diciotto anni per avere la possibilità di
fare de nostre prime esperienze “legali” quando la senatrice socialista,
quasi come “la signora” che ci chiudeva in faccia il portone della casa
del “piacere”, mise un freno alle nostre aspettative. Modena e Palermo
furono, in quell’anno, le due città “cavie” in tutta Italia, per la
sperimentazione di quella che poi è rimasta bollata come la “famigerata
“Legge Merlin”, dal nome appunto della senatrice socialista.
La nostra città e quella del profondo Sud, dovevano dare la risposta
esaustiva che, la chiusura delle “case chiuse”, era un atto dovuto
all’emancipazione femminile e non avrebbe creato problemi di sorta per
l’ordine pubblico. Per otto anni, modenesi e palermitani furono,
contrariamente a tutti gli altri italiani, salassati nelle loro tasche
per la strana applicazione di quell’ “esperimento”. Sì, perché la
chiusura definitiva delle case, celebrate in un film di Tinto Brass,
“Paprika”, avvenne il 19 Settembre del 1958. Noi ci siamo sempre
chiesti, senza averne mai avuto una risposta esauriente, perché furono
“penalizzati” i modenesi, in particolare, studenti, disoccupati, insomma
le classi meno abbienti, che dovettero aggiungere una “tangente” in più,
alle famose “marchette” che si andavano a consumare nelle vicine città
di Bologna e Reggio Emilia. Di “Quegli antichi luoghi perduti…” ne ha
fatto uno splendido “spaccato” il noto “oste” modenese, Claudio Camola,
in una delle pubblicazioni del “raccoglitore di cose modenesi”, Beppe
Zagaglia.
I concittadini che non ebbero la possibilità di frequentare le case di
Via Catecumeno, oggi Via dei Tintori, impararono perfettamente la
toponomastica delle zone “off limits” delle città vicine e si “passavano
parola” delle “variazioni” che avvenivano ogni quindici giorni in Via
dell’Orso, in Via Clavature ecc. Le processioni dei geminiani verso i
territori limitrofi sarebbero da raccontare per esteso; chi in treno,
chi in motoretta, qualche “appassionato” anche in bicicletta, nelle
poche auto stracariche, per spendere meno, in un quotidiano, pomeridiano
e serale, pellegrinaggio, furono il tributo aggiuntivo che i modenesi
diedero a quella legge.
Le “case di piacere” chiuse diedero, in pratica, un eccezionale
contributo alla proliferazione della “libera prostituzione” con relativi
“magnaccia” e malattie veneree che da allora sono aumentate in una
progressione geometrica per arrivare alle forme di allucinante
mercimonio sulle strade che quotidianamente abbiamo sotto i nostri
occhi. “Alla faccia” dell’emancipazione femminile ricercata,
utopisticamente, da quell’innovatrice senatrice socialista.
Nel Novembre 1951 vi fu la drammatica rotta del Po’ nel Polesine. Di
questo avvenimento ne sono stato testimone diretto. Quando arrivò la
notizia a Modena, noi studenti dell’Istituto “Barozzi” ci mobilitammo
immediatamente per cercare di portare il nostro aiuto a quelle
popolazioni. Ero tra gli organizzatori di questa mobilitazione e, nel
giro di poche ore riuscimmo a richiamare alla nostra iniziativa una
trentina di studenti; si partì immediatamente nel tardo pomeriggio, per
raggiungere la zona in quel momento più minacciata nelle vicinanze di
Rovigo e fummo subito inviati ad aiutare militari e volontari che
lavoravano per la costruzione di alcune “coronelle” sull’Adigetto, fiume
vicino a Rovigo affluente del Po’, che minacciava la città.
Lavorammo in modo febbrile per alcune ore quando ci fù un richiamo di
“all’erta” immediato con l’invito a lasciare immediatamente il lavoro
intrapreso perché, a monte della nostra zona, il fiume aveva rotto gli
argini; dovemmo così ritornare immediatamente in città dove, in
un’atmosfera allucinante, strade deserte, solamente fasci di luce delle
cellule fotoelettriche che s’incrociavano nel cielo nero, le auto della
polizia che invitavano la popolazione ad evacuare le case, ci trovammo
sperduti e spaesati.
Riuscimmo a raggiungere un punto di concentramento per i soccorritori,
volontari, esercito e quant’altro, quando c’imbattemmo in un gruppo
gestito dalla CGIL (Camera Confederale del Lavoro) ovviamente di marca
comunista, e vennero a sapere che noi eravamo un gruppo di studenti, di
conseguenza “nemici del popolo”, iniziarono un feroce boicottaggio, con
atteggiamenti provocatori e violenti. Dovemmo ripiegare su altre
postazioni dove, durante quella notte di tregenda, riuscimmo a portare
il nostro piccolo contributo a quel martoriato territorio devastato
dalle acque, ma nell’animo c’era rimasta la rabbia per lo scontro
avvenuto con le formazioni comuniste che, in quei drammatici momenti,
quando differenziazioni ideologiche e politiche dovevano essere messe in
disparte, cercavano di dimostrare alle povere popolazioni del Polesine,
che erano solamente “loro” e le loro “organizzazioni” a portare gli
aiuti. Dopo due giorni, attraverso un viaggio rocambolesco, ritornammo a
Modena.
Nelle settimane successive per cercare di dare un ulteriore contributo a
quelle popolazioni così duramente colpite , organizzammo, noi studenti,
allo Stadio Braglia un incontro di calcio “estemporaneo”. La partita
“Pigiami” contro Camicie da notte” servì appunto a raccogliere qualche
fondo.
Le due formazioni si presentarono in campo con le seguenti formazioni:
con i nomi che mi ricordo e non sono tutti:
Pigiami: Franco Belletti, Ninì Spigolon, Bruno Zucchini, Vittorio
Giannotti, Giorgio Libra, Carlo Poggio, Vittorio Lippolis, Luciano
Poggioli, Giancarlo Bergomi.
Camicie da Notte: Vittorio Bargellini, Giorgio Alessandrini, Ermanno
Bertolini, Zanasi, Alfonsino Bolognesi, Umberto Giannotti, Piero
Lippolis, Giorgio Sandoni.
Arbitri: Renzo Rossini e Giulio Piccinini.
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Squadra Pigiami: In piedi da sinistra,
Franco Belletti, Nini
Spigolon, Giorgio Libra, Renzo Rossigni, ?, Luciano Poggioli,
Giocarlo Bergomi – Accosciati: Vittorio Giannotti, Bruno
Zucchini, Giulio Piccinini, Carlo Poggio, Pippo, Vittorio Lippolis. |
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Squadra Camicie da notte:
In piedi: Vittorio Bargellini, Ermanno Bertolini, Catena, Renzo Rossini, (arbitro) Bianchini, Umberto
Giannotti, ?,
Accosciati: Giorgio Alessandrini, Giorgio Zanasi, Giulio Piccinini,
Alfonsino Bolognesi, Piero Lippolis, ?, Giorgio Sandoni. |
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