Cap. 4 Tra Roma e Modena

MODENA VISTA DA DESTRA

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                                                       Tra Roma e Modena (ISEF)

Al termine degli studi superiori, diploma di Geometra ottenuto nella sessione estiva del 1953, quando ancora l’esame di stato terrorizzava tutti i “maturandi” e quando l’ottenere la promozione a Luglio era un’eccezione, (nella mia classe composta da trentacinque alunni, cinque, compreso l’estensore di queste note, furono promossi nella sessione estiva e gli altri mandati ad ottobre o bocciati), mi trovai ad un bivio. Proseguire l’attività professionale relativamente agli studi appena conclusi o continuare?
Quello che era stato il percorso scolastico di mio fratello, che aveva frequentato l’Accademia di Educazione Fisica (allora “tout court” La Farnesina), non conclusa a causa della guerra, mi aveva sempre affascinato, se non condizionato.
Sarebbero stati altri tre anni di grandi sacrifici per i miei genitori; sobbarcarsi il mantenimento agli studi e in più lontano da casa, non era facile. Fortunatamente si presentava la possibilità di avere (come poi riuscii ad ottenere) la borsa di studio del Coni, in quanto erano appena stati riaperti i corsi di studio all’Istituto Superiore di Educazione Fisica, dopo la lunga sosta causa la guerra e il dopoguerra, essendo stata, l’Accademia Fascista di Educazione Fisica un’istituzione del regime, la sua epurazione durò a lungo, solamente nel 1952 venne riaperta e nel contempo si vollero incentivare i giovani alla professione di insegnante di E. F anche attraverso aiuti economici ai bisognosi e ai meritevoli.
Si pensi che la retta mensile, per il vitto e l’alloggio alla Foresteria Sud del Foro Italico, ammontava a trentamila lire, ma con la borsa di studio più favorevole, vi era una serie di gradazione, potei soggiornare a Roma con la cifra di cinquemila lire, che oltre alle mie spese quotidiane, il vestirsi, i libri, il prezzo del biglietto del treno per i viaggi Modena–Roma andata e ritorno, era pur sempre, per la mia famiglia un impegno economico gravoso, che riuscii a mitigare con il lavoro che svolgevo durante i mesi estivi, in qualità di Geometra presso l’Istituto Autonomo Case Popolari, dove venni assunto, come si dice oggi, a tempo determinato, per tre anni, come assistente tecnico ai cantieri edili; gran parte del tempo del mio impegno in quell’Istituto, venne dedicato alla costruzione delle Case Popolari di Via Bonacini e di quelle del chiamato allora, “rione Corea”.

Gli amici di mio fratello in particolare Franco Anderlini e Fernando Ponzoni mi “supportarono” presso i miei genitori, per far sì che si potesse esaudire questo mio desiderio.
Dopo un severissimo esame di ammissione, 50 ammessi su circa 300 candidati, entrai in quell’agognato Istituto Superiore di Roma assieme ad altri tre colleghi modenesi, due amici di compagnia e di studi, Germano Morandi e Sergio Zanasi e il terzo proveniente dall’Istituto magistrale “Sigonio” e “grande” giocatore di pallavolo, Oddo Federzoni.
  1954 I quattro modenesi all'ISEF di Roma

Germano Morandi, Bruno Zucchini, Sergio Zanasi, Oddo Federzoni.

      Durante gli anni all’Istituto J. Barozzi, continuai, con fasi alterne, a frequentare la Società Sportiva Fratellanza sotto la guida di “Pirein” Baraldi. Le mie specialità erano il salto in lungo e la velocità, 80, 100 e 200 m. con unica eccezione, una gara sui 400m ad ostacoli a Bologna durante i Campionati di società, dove l’allenatore, in quanto avevo un buon passaggio sull’ostacolo, in sostituzione del titolare ammalato, mi fece fare quella “durissima” prova, che terminai dignitosamente, pur abbattendo gli ultimi due ostacoli, in un tempo, 1’07”, che per un principiante non era del tutto male.
Anche sulla velocità, pur avendo vinto parecchie gare, quali il Gran Premio Giovani e altre, mi trovai spesso a competere con altri ragazzi più forti, quali il potente Giulio Reggianini, in seguito noto avvocato, l’elegante e sciolto Vittorio Bargellini, poi valente imprenditore, il futuro medico psicologo Giovanni Pedrazzi, forte ed elegante nella corsa come l’altro velocista,Tosi.
In Fratellanza trovai tantissimi amici, alcuni con qualche anno in più, come il mitico “Carlo Rinaldi” campione italiano di salto con l’asta e nazionale di pallavolo, (quando, durante gli allenamenti allo Stadio Braglia saltava lui, tutti si fermavano per seguire le sue splendide evoluzioni sull’asticella) e in seguito stimatissimo collega nell’insegnamento dell’Educazione Fisica. Subii anche la sua immane tragedia quando, per un incidente stradale gli morì il giovanissimo figlio minore, che era mio allievo, e atleta molto promettente, in una prima classe al Liceo Scientifico “Tassoni” dove allora insegnavo.
In Fratellanza, in quegli anni, ebbi altri carissimi amici, allora ottimi se non grandi personaggi dello sport e in seguito, uomini di punta della vita sociale modenese.
Ne cito solamente alcuni, il forte quattrocentista “Jack” Bertolini, il triplista Nando Romagnoli, il saltatore in alto e campione italiano, il medico Giulio Magnoni, oltre all’altro potente quattrocentista, Franco Squadrini poi medico anche lui, scusandomi con tutti gli altri che non ho citato.
Il mio confronto con tanti forti atleti modenesi, essendo il sottoscritto relativamente dotato da madre natura, mi ha messo a volte in seria difficoltà come in occasione dei Campionati Studenteschi del 1951. Ero il favorito per la vittoria finale nel salto in lungo avendo, in quel periodo raggiunto buoni risultati complessivi: tali campionati si svolgevano in un pomeriggio di sabato, nel mese di Maggio, verso la fine dell’anno scolastico, allo Stadio Braglia con la tribuna coperta strapiena di studenti che tifavano rumorosamente per i loro coetanei impegnati nelle gare e in particolare quelli che vedevano impegnati, nella lotta per la supremazia sulle scuole di Modena e Provincia, il mio Istituto “Barozzi” e il Liceo Tassoni. Per le varie specialità ogni scuola presentava due atleti, nella mia si fece la selezione per trovare il secondo per il salto in lungo, dato che il primo era occupato dal sottoscritto.
La spuntò un certo Franco Bortolamasi che, al suo primo salto, fece quasi la mia miglior misura di sempre, (eravamo attorno ai sei metri), aggiudicandosi il merito di partecipare alla gara. Ma quel giorno mi superò in bellezza, e arrivai nettamente dietro di lui. Mi misurai con un grande atleta, che eccelleva in tutte le discipline, e per molti anni fu campione d’Italia di pallavolo con la squadra della Ciam di Modena, oltre a rivestire numerosissime volte la maglia della nazionale italiana e in seguito insegnante di Ed. Fisica e carissimo amico collega.
La mia volubilità e la mia incostanza fecero molto spesso arrabbiare il Prof. Agide Magnoni mio insegnante e responsabile del settore atletica della nostra scuola. In alcune occasioni, sia per le gare sia per gli allenamenti, dovette venire a casa mia (allora non c’era telefono tantomeno i cellulari) a “prelevarmi” di forza poiché, o mi dimenticavo dell’impegno, o mi trovavo a letto completamente “distrutto” per aver passato la serata precedente a fare le ore piccole o nelle sale da ballo, o in giro per comizi elettorali oppure a fare l’”attacchino” dei manifesti politici.
Tutte quelle frenetiche attività non si conciliavano bene con lo sport e nemmeno con lo studio, ma una volta entrato all’ISEF di Roma, mi tranquillizai per cercare di fare in modo di uscire da quell’Istituto Universitario, nei termini previsti dal regolare corso di studi e quantomeno nel modo migliore per iniziare quella professione, alla quale tenevo moltissimo, e che in seguito mi diede enormi soddisfazioni.
I tre anni a Roma passarono, tra l’immersione negli studi e nell’intensissima attività fisica che svolgevamo nelle palestre e negli stadi del Foro Italico (ex Foro Mussolini). Tantissimi furono gli episodi, di un certo rilevo, che sottolinearono la vita in comunione di giovani ventenni, in una splendida città come Roma e portati a svolgere una sana vita sportiva oltre che di Studio.
La nostra vita si svolgeva con le attività fisiche tutte le mattine. Tutti i pomeriggi si andava a frequentare le aule universitarie della Facoltà di Medicina dell’Università romana, le nostre materie e i nostri esami, almeno per le materie più importanti (anatomia, fisiologia, costituzionalistica, psicologia, biologia) non variavano da quelle degli studenti di medicina. Alcuni episodi divertenti, che ebbero come protagonisti due dei modenesi frequentanti il Corso B dell’Isef, suscitarono le simpatie dei colleghi e anche degli insegnanti, per la goliardia, seppur provinciale, che ci portammo dalla nostra città.
Era il primo anno, anzi, erano i primissimi mesi di vita all’Isef. Le giornate trascorrevano tranquille e monotone: vita di palestra e di università tutti i giorni, alla sera rientro in Foresteria entro le ore 10. Il custode ”Sig. Felli”, gran brava persona, non transigeva. Le domeniche, giorno finalmente di libertà, trascorrevano tra le visite mattutine alle bellezze della città di Roma e i pomeriggi, a volte, in qualche locale (più o meno “balere) a ballare per cercare di “rimorchiare”.
Dato che, le “nostre ragazze”, le isefine, ci snobbavano, noi cercavamo qualche “improbabile avventura” con le ragazze romane. Beh, in realtà molti di noi, qualche conquista, l’hanno avuta. Successe che una domenica, il sottoscritto ed il suo “compare” di tanti episodi, Germano Morandi, riuscissero a strappare un incontro con due colleghe, che però, dopo un paio d’ore trascorse a girovagare per Roma, dovettero rientrare al “Tufello” (la località dove erano alloggiate le ragazze dell’Isef) poiché il loro tempo di “libera uscita” stava per scadere.
Erano circa le 19,30, l’ora di cena in foresteria. I due pensarono bene di fare uno strappo alla regola, (le finanze erano sempre scarse) e restarono fuori a cena (era tra l’altro una delle primissime occasioni). Trovarono una tipica trattoria romana dove, senz’altro, cenarono meglio che in foresteria. Arrivò così l’orario del rientro; salirono sull’autobus, il solito 32, per rientrare al foro Italico, quando, passando per Via Nazionale, forse perché avevano bevuto un bicchiere di Frascati in più, lessero un’insegna luminosa che diceva “Night Club Nirvanetta”; uno sguardo rapido, un commento reciproco e alla prima fermata i due scesero e s’incamminarono verso il “luogo della perdizione”; entrarono che non erano ancora scoccate le ore 22. Il locale aveva, ovviamente, appena aperto i battenti, sedute ai tavoli vi erano solamente delle ragazze che, appena ci videro, ad un’ora così insolita per loro, si precipitarono su di noi: incredibile, a quell’ora due clienti!
Frastornati ne scegliemmo due, o ci scelsero loro, ed ebbe così inizio una serata, veramente “indimenticabile”.
Si cominciò con il bere “qualche cosa” e poi, la musica, il sorriso delle ragazze che ci sembravano bellissime, le promesse del “dopo”, il vinello che avevamo bevuto a cena in trattoria, ecc. ci fecero perdere completamente il senso della realtà.
Le ore fuggivano e il tavolo si riempiva sempre più di bevande, si rideva, si scherzava ci solleticavano le proposte allentanti delle ragazze e ciò che sarebbe accaduto alla chiusura del locale; intanto arrivavano altri clienti e verso l’una e mezza, dopo lo “spettacolino” al quale avevano partecipato anche le nostre due ragazze, ordinammo una cenetta per quattro e al termine o durante, una bella bottiglia di champagne. Verso le tre o le quattro le ragazze, così, tra una chiacchera e l’altra, ci chiesero se eravamo sicuri di avere il danaro per pagare tutto quello che avevamo consumato. Rimanemmo perplessi: difatti dopo poco si avvicinò il gestore del locale e ci presentò il conto “Parbleù” e chi aveva tanti soldi in tasca?
Il locale stava per chiudere, il gestore ci chiedeva di saldare il conto, finalmente la situazione si sbloccò, al momento, quando al Morandi venne in mente di aver appena ricevuto da casa un vaglia che avrebbe senz’altro risolto il problema. Era però nella valigia, sopra all’armadietto, nella camerata della Foresteria al Foro.
Il gestore “ascoltò” la nostra posizione: uno di noi doveva restare come “ostaggio” mentre l’altro, il sottoscritto, fu accompagnato dalla macchina del Nirvanetta (con sopra un grosso cartellone pubblicitario) in Foresteria: ma come entrare alle 4,30 del mattino

Allievi ISEF  a Gubbio
 

Da sinistra: Oddo Federzoni, GermanoMorandi, Bruno Zucchini,
Luciano Gigliotti, Angelo Di
Martino

 


Il custode non avrebbe aperto. Gettai allora un sasso o vari sassetti, contro la finestra della mia camerata, finalmente qualcuno si svegliò e con l’aiuto di un lenzuolo salii a prendere il vaglia nella valigia e a ritornare al locale notturno. La cosa ovviamente si regolarizzò; venne pagato il “salatissimo conto” e data l’ora ormai tarda, erano le cinque del mattino, le ragazze andarono a dormire e noi rimanemmo con un palmo di naso.
Si pensò dunque al rientro, mezzi non ce n’erano, per il taxi non avevamo i soldi, avevamo dilapidato tutti i nostri averi, finalmente, verso le sei, riuscimmo a trovare un autobus che ci fece arrivare al Foro. Eravamo appena rientrati dalla finestra che dopo circa dieci minuti suonò la sveglia. E’ chiaro che i due “sprovveduti modenesi” rimasero a letto “marcando visita” accusando malattie incredibili.
Verso le 10 arrivò il medico che s’accorse immediatamente della ragione della “nostra malattia”, come cura ci ordinò un bel bicchiere di “olio di ricino” (e poi si affermava che era somministrato solamente nel ’22 all’epoca della rivoluzione fascista), che dovemmo bere in sua presenza. Tralascio il racconto delle continue corse ai bagni nella giornata che avrebbe dovuto essere di tutto riposo. Il giorno dopo eravamo già in pista. Poi, per circa un mese, dovemmo “tirare la cinghia”, poiché eravamo rimasti senza una lira.

Modenesi su di uno "strano" aereo

Gita dell'ISEF a Gubbio

alla guid: ODDO FEDERZONI,

DIETRO: BRUNO ZUCCHINI, GERMANO MORANDI, SERGIO ZANASI

 

    
Il Primo esame “non si scorda mai”, potrebbe titolare quest’aneddoto del primo anno di Università. Erano passati alcuni mesi di vita all’Isef romano, con alterne vicissitudini, attraverso lo scorrere delle lezioni pratiche al mattino e quelle teoriche pomeridiane all’Università nella sede romana di Viale Regina Margherita.
Durante i mesi di Febbraio, Marzo, si dovevano sostenere gli esami della prima sessione del nostro Corso. Erano in programma esami tosti, quali, Anatomia, Biologia e altri, tra questi anche quello di Italiano e Storia con il Prof. Giorgio Petrocchi. Per il sottoscritto fù il primissimo dei tanti esami, tra teorici e pratici, che avremmo sostenuto durante il corso degli studi.
Bene, arriva il mio turno, ero uno dei primi, se non il primo in assoluto; è ovvio che vi era un po’ di agitazione, anche se in realtà questo non era tra i più importanti e non destava eccessiva preoccupazione. Ugualmente avevo cercato di prepararmi al meglio delle mie possibilità. Entro, con un po’ di tremarella, il Prof. con un bel sorriso, che segnalava la sua buona disponibilità, mi fa accomodare e, in modo molto corretto, mi chiede: “lo statino”.
Il sottoscritto, anche per precedenti esperienze, reputava che l’esaminando per ottenere interesse e per fare buona impressione all’esaminatore dovesse, se vi fossero state le possibilità, quasi aggredirlo, con un profluvio di parole, onde mettersi in condizioni di sicurezza per il prosieguo dell’interrogazione. Premesso questo, al sentirmi chiedere, “Lo statino” partii come si suol dire “in quarta” e cominciai a sciorinare una serie di dati e di considerazioni sulla situazione dei piccoli stati italiani, quali San Marino, Il Vaticano ecc. che si trovavano in una situazione socio-politica particolare in quel determinato momento storico.
Dovevamo difatti studiare quel periodo del 1800; il Prof. mi stava guardando sbalordito, io ritenevo fosse rimasto colpito dal mio “sapere”; mi lasciò andare avanti per un po’, e finalmente decise d’intervenire interrompendo il mio dire. Mi disse: “Guardi che io le ho semplicemente chiesto lo statino, cioè il foglietto rilasciato dalla segreteria per sostenere l’esame”. Rimasi perplesso e mi ricordai di averlo in mezzo a un libro, un po’ mortificato lo estrassi e lo consegnai all’esaminatore.
Sistemato il fatto burocratico l’esame continuò e andò anche bene, mi “beccai”, malgrado il piccolo incidente iniziale un bel 28. Al termine dell’interrogazione si fece un po’ di conversazione libera, mi chiese da quale parte d’Italia provenivo: Modena risposi. Uscii soddisfatto. Ma l’episodio non si ferma a questo punto.
Subito dopo entra l’amico di tante avventure scolastiche ed anche “extra” (eravamo sempre assieme già dai tempi delle scuole superiori) Germano Morandi. Appena entrato, il Prof. allungò la mano per prendere il “famoso statino” dall’allievo, il quale pensò bene, vedendo quella mano protesa, ma guarda com’è gentile questo Prof. gliela prese con la sua e stringendola fortemente, da buon isefino, disse “piacere Morandi”.
A quel punto il Prof. lo guardò allibito, si ripetè più o meno la scena dell’allievo che aveva preceduto il Morandi e d’istinto gli venne di chiedere: “ma Lei di dov’è”, di Modena disse l’allievo, al chè il Prof. si mise le mani nei capelli dicendo, ma proprio oggi e uno dopo l’altro dovevate capitare voi modenesi!
Anche in quella circostanza tutto andò per il meglio. In fondo i “modenesi”, con la loro carica di simpatia, e se vuoi anche di ingenuità, seppero dare, in quel luogo austero, un “tocco” di “estemporaneità” che a quei tempi non era abituale nei classici “templi del sapere”.
Il secondo anno fu istituito un corso d’equitazione, al quale parteciparono una ventina di allievi. Le lezioni si tenevano tutti i giovedì pomeriggio, (giorno di non frequenza all’Università) a Tor di Quinto, località ad alcuni chilometri da Roma, al maneggio militare. Ordinaria amministrazione verrebbe da dire, ma l’episodio del primo approccio con i cavalli necessita un breve ricordo.
Il giorno del “battesimo” della sella, gli istruttori, tra i quali i notissimi Col. Oppes e Tenente D’Inzeo, dopo averci illustrato, a terra, le caratteristiche del Cavallo, del come stare in sella, dei finimenti, insomma tutte le informazioni necessarie, fecero entrare, guidati dai soldati addetti, i cavalli nel recinto.
Ciascuno di noi si avvicinò al quadrupede che gli era stato aggiudicato, altre informazioni, poi, tutti in sella. Sempre con il “soldatino” che teneva il cavallo per il morso, cominciammo a girare nel maneggio.
L’istruttore al centro continuava nelle sue istruzioni; dopo cinque-sei giri, ordinò agli addetti di uscire dal recinto; rimanemmo soli in sella ai nostri splendidi animali continuando i giri, per trovare la giusta postura, per sentire bene le redini, accarezzando il collo del cavallo per far sentire la nostra presenza amichevole quando, improvvisamente, un cavallo diede o un morso, o una forte testata, a quello che lo precedeva, che partì subito in un galoppo sfrenato, seguito da tutti gli altri.
Iniziò così il “rodeo”; nessuno di noi, ovviamente, sapeva come fermare un cavallo scatenato, chi fu scaraventato per l’arresto improvviso dell’animale di là dalla palizzata, chi cadde rovinosamente per gli improvvisi scarti, chi come il sottoscritto scivolò gradualmente sui fianchi e quasi sotto l’addome, per finire rotolando per le terre. Vista da fuori, come ci dissero i comandanti e gli istruttori, che assistevano alla nostra prima lezione, fu veramente una scena comica alla “Ridolini”.
Fortunatamente andò bene, eravamo tutti ben preparati e nessuno si fece male. Le lezioni continuarono e tutti partecipanti a quel corso, iniziato in modo così disastroso, furono soddisfatti al termine per il traguardo raggiunto, sapevamo andare a cavallo.
Un altro momento molto importante fu quello delle Olimpiadi di Cortina del 1956. Un gruppo di noi isefini del Corso B fu scelto per collaborare all’organizzazione di quell’evento. Partimmo da Roma quindici giorni prima dell’inizio dell’Olimpiade per prepararci ai nostri compiti. L’inaugurazione avvenne allo Stadio del Ghiaccio il 26 Gennaio, ebbi l’onore, assieme ad un gruppo di colleghi, di sfilare durante la Cerimonia d’apertura dei giochi, portando la bandiera del Comitato Olimpico Internazionale.

Cerimonia Inaugurale delle

Olimpiadi di Cortina. Febbraio 1956

in primo piano,  con le bandiere del CIO

gli allievi dell'Isef; il terzo da destra Bruno Zucchini

  


Collaborai, per tutto il periodo, con l’Ufficio Stampa che aveva sede presso l’Hotel Savoia nel centro di Cortina recandomi, quotidianamente sui vari campi di gara, dalle gare di sci alpino a quelle del fondo, dal salto dal trampolino a Zuel, alle partite di hockey su ghiaccio, allo stadio olimpico. Al termine dei Giochi, rimanemmo a Cortina per altri quindici giorni, per partecipare ad un corso di sci. Fu quello il mio primo vero contatto con la neve, che negli anni successivi ebbe tanta parte della mia attività professionale.

All’arrivo della pista del Faloria, l’allievo Bruno Zucchini


Ritornato a Modena al mio primo anno d’insegnamento mi dedicai con grande passione a due sport che all’Isef non erano stati trattati: Judo e Tennis. L’arte marziale giapponese andai ad iniziarla, sotto la guida del Maestro Stefano Scantamburlo, alla palestra dell’ex Gil ancora perfettamente funzionante. Mi dedicai con molto impegno a quella disciplina perché il Maestro aveva notato in me una buona disposizione oltre a buone doti per quello sport, avrebbe voluto portarmi a raggiungere, nei tempi possibilmente più brevi, il traguardo della “cintura nera” per passare subito dopo all’insegnamento. Molte ore, ogni giorno, erano dedicate a quegli allenamenti, ero già vicino al traguardo quando morì mio padre, dovetti, per forza di cose, tralasciare alcune delle attività intraprese, judo compreso, per ricercare motivazioni economiche soddisfacenti. Di quel periodo ricordo alcuni amici del “tatami”, inizialmente, Salvaterra, Ivan Vaccari e Franco Belletti in seguito, il Prof. Emilio Tosatti e Franco Zanasi.
Durante il periodo estivo (allora non esistevano campi coperti), assieme all’amico e collega Germano Morandi, ci dedicammo all’altro sport. Il Circolo del Tennis di Viale Monte Kosica, l’unico a quei tempi a Modena, era un Club esclusivo, non era facile entrarvi, se non facevi parte di una certa “elite” modenese; con l’aiuto di alcuni amici, in particolare del Prof. Orazio Coggi, Maestro di Tennis in quel circolo, riuscimmo ad iscriverci.
Iniziò così un’attività frenetica per cercare, in tempi brevi, di acquisire una discreta tecnica che ci potesse permettere di affrontare corsi qualificati per proseguire in un’eventuale carriera professionale. Purtroppo, causa le ragioni per le quali avevo dovuto abbandonare lo Judo, interruppi quella disciplina che ripresi, a distanza di parecchi anni, con un certo interesse, ma senza le motivazioni iniziali.
Di un altro aneddoto che inquadra la situazione della società italiana di quei tempi, devo darne testimonianza. Un amico di quegli anni tentò, l’anno dopo il mio ingresso all’Isef, di entrare in quell’Istituto. Non passò l’esame e, purtroppo toccò a me dargli quella notizia non gradita.
Passarono alcuni anni, transitavo un giorno in “Vespa”, lungo Corso Canalgrande quando sento alcuni colpi di clacson dietro di me, mi giro, vedo una gran Maserati con il braccio del guidatore che mi faceva cenno di fermarmi. Era l’amico dell’esame, il noto industriale Giancarlo Lei; saluti, convenevoli poi lui sbotta: “Tè ve te bein fortunè, che te fat l’Isef” in dialetto modenese, “tu sei ben fortunato che hai fatto l’Isef”. Rimasi perplesso per questa sua battuta e risposi: ”vè, Giancarlo ma vot torem per al cul o dit daboun, tè cun na gran Maserati e mè in Vespa, c’a dev ancara finir ed pagher” (Giancarlo mi vuoi prendere per i fondelli o dici sul serio, tu con una gran Maserati e io con una Vespa che devo ancora finire di pagare).
Difatti, la sua non entrata alla “Farnesina” fu in realtà la sua fortuna dato che, con la “Glem Gas” aveva iniziato la sua carriera di industriale delle cucine creandosi una bella fortuna. Fui in seguito grato a Giancarlo, il quale, avendo la passione dei cavalli, ne teneva uno nei box allora in Piazza d’armi (ex ippodromo), mi permise di proseguire per un certo tempo l’esperienza fatta a Roma anni prima.
Le attività sportive non frequentate durante gli studi a Roma mi interessavano sempre di più. Venni a conoscenza che un collega di Pesaro, Washington Patrignani, avrebbe tenuto in quella località, un corso d’iniziazione alla vela. Mi iscrissi subito e presi così contatto con questa affascinante disciplina, che portai avanti per parecchi anni, si iniziò a parlare di “mure a dritta”, di “spinnaker”, di “strambate”, di “poppa di prua” e così via, con tutta la terminologia marinara, appresa su quelle piccole, ma estremamente versatili barche, che sono i “Flyng Junior”.
Ne fui inebriato. L’anno successivo, assieme ad un collega di Forlì, organizzammo un corso di Vela all’Isola di Lussino in Dalmazia. Furono quindici giorni entusiasmanti; avevamo come capo istruttore, al corso partecipavamo, come allievi, anche noi organizzatori, un certo Giano di Trieste. Espertissimo, con alle spalle anche la famosa scuola dei “Glenans” francese, si rivelò, oltre che ottimo maestro, velista impareggiabile.

Corso di vela all'Isola di Lussino

il "Gozzo"

        


La scuola la tenevamo su di una vecchia “stella”, barca velocissima di 9 metri con un albero di dodici, la “star”una delle classi olimpiche più belle e impegnative, appoggiati da un “Gozzo” che ci serviva come base. Il marinaio triestino riusciva a portarla con una facilità e una destrezza tali da far impallidire, oggi, il più esperto timoniere di “Luna Rossa”. Non posso trascurare, di quei giorni a Lussino, un fatto significativo della situazione politica in quel paese. Imperava in Yugoslavia il comunismo di Tito.
Il secondo Istruttore della nostra “equipe”, era un ragazzo indigeno di Lussinpiccolo, anche lui esperto velista. Non per niente eravamo nella terra delle medaglie olimpiche Straulino e Rode. Per alcuni giorni, con quel ragazzo che parlava solamente yugoslavo, non era facile intendersi; un bel giorno, in alto mare, lontanissimi dalla costa, uscì con una perfetta frase in italiano seppure con la classica cadenza veneto-dalmata che ci lasciò “basiti”.
“Ma come, allora tu…..! “Mi raccomando ragazzi” ci disse in tono implorante, “quando torniamo a terra e anche nei prossimi giorni, non rivolgetemi la parola in italiano, fate in modo che non possa essere scoperto, perché, se qui si accorgono che parlo e sono d’origini italiane, vado incontro a guai, molto ma molto seri!”
Vi fu, nell’organizzazione delle mie vacanze un altro corso di vela, nuoto e tennis a Cesenatico all’inizio degli anni ’60, che vide la partecipazione, tra gli altri, di due ragazzi provenienti dalla Sardegna. “Ma come, voi, con il vostro mare e le vostre coste venite in Adriatico?” Chiedemmo loro. A qui tempi in Sardegna non vi era ancora niente d’organizzato, anche se, in seguito, fu istituita all’arcipelago della Maddalena e precisamente all’Isola di Caprera, una delle più importanti scuole di vela europee.
La possibilità di praticare questo sport mi venne data anni dopo quando l’amico fraterno, con qualche mezzo a disposizione superiore al mio, il Dott. Luciano Della Casa acquistò, a Cesenatico, un “catamarano”. Ecco che vi fu nuovamente la possibilità di andar per mare, seppure sulla costa Adriatica e in seguito anche sul Lago d’Iseo dove l’amico tenne la barca per un certo periodo.
Un giorno abbiamo corso un’avventura che avrebbe potuto avere conseguenze ben più gravi. Ci si telefonava al mattino, se era una bella giornata e se si riusciva a trovare spazio dallo svolgimento del nostro lavoro, si partiva immediatamente per arrivare celermente al rimessaggio della barca a Cesenatico, portarla in acqua e….via, con il favore del vento a godere della bellezza e del fascino dell’andar per mare a vela.
Che cosa successe quel giorno? Il vento tesissimo, il mare più che increspato, una splendida giornata di sole; il catamarano filava che era un piacere, le nostre manovre al “trapezio” si succedevano alle “strambate”, eravamo al largo e la costa una linea lontana. Tutto procedeva regolarmente, all’improvviso ci trovammo scaraventati da poppa, al centro della barca, abbracciati all’albero. La barca si era “letteralmente” piantata e si era messa in verticale rispetto alla linea d’acqua. Cos’era avvenuto? Il catamarano ha due scafi: nella parte posteriore di ciascuno di questi vi erano due fori, chiusi da tappi. Il fatto lo imparammo una volta ritornati a terra, dopo alcune ore; nel cantiere dove l’amico teneva la barca, vedendo che da alcuni giorni “al dutour” non la usava, pensarono, avendone necessità, di togliere i due tappi, “tanto poi li rimettiamo al loro posto”: noi arrivammo quel giorno, con la frenesia dell’uscita in mare, prelevammo la barca velocemente senza controllare, non ve ne era mai stato bisogno, se tutto era a posto. Al largo, fatte alcune miglia, l’acqua entrò nei due scafi che si riempirono a prua tanto da farci fare quella repentina impennata. Lascio a voi pensare cosa fu detto a coloro che dovevano tenere ben controllata e custodita, la barca.
Alcuni anni dopo mi prese anche la passione per il volo, cosa che avevo già “addosso” da tempo. Ai primi anni ’50 avevo preso parte ad un corso di paracadutismo tenuto dall’appassionato ed esperto di quello sport, il modenese Mazzacurati, alla palestra dell’ex Gil.
Il primo lancio lo effettuammo all’aeroporto di Bologna, in un pomeriggio settembrino che ci diede la soddisfazione di assaporare tutta l’ebbrezza e l’emozione di volteggiare nell’aria.
A bordo di un vecchio, e traballante “Savoia Marchetti” salì il gruppetto di paracadutisti modenesi che, dopo circa un’ora di volo sul cielo di Bologna per trovare il momento e la posizione giusti per uscire dall’aereo, si gettarono, uno dietro l’altro, nel vuoto, per toccare terra dopo pochi minuti. Entusiasmante! Arrivato a casa, parlai dell’esperienza avuta a mia madre dicendole: “Sai mamma, oggi sono andato in aeroplano”. “Cosa hai fatto?” e giù una serie di considerazioni sulla mia leggerezza ecc.ecc. Quando le ho detto: “Ma non sono atterrato con l’aereo, sono sceso con il paracadute”, per poco, non sviene.
All’aero Club ebbi come istruttore, per l’acquisizione del brevetto di primo grado, uno dei “grandi” dell’aviazione modenese, il maresciallo Danilo Billi, pilota di aerei da caccia nel secondo conflitto mondiale. Feci anche parecchi voli assieme all’amico pilota Franco Mazzi, titolare del negozio “Pirelli” nelle vicinanze del Duomo, uno dei più esperti piloti dell’Aereo Club modenese, scomparso anni addietro in un incidente di volo: Franco mi fece assaporare quelle evoluzioni che io non sarei mai riuscito a fare, “looping, tonneau”, poiché dovetti rinunciare a quella passione: avevo già famiglia e un figlio, arrivavano a casa conti salati, per le mie tasche, dall’aereo Club per le ore di volo effettuate; non era più possibile frequentarlo.
Ebbi la soddisfazione, relativa se si vuole, di tenere in mano per circa un ora i comandi di un aereo di linea, un “Boeing 707”. Successe durante un volo a New York, con un gruppo di amici e allievi da me organizzato: feci amicizia con il pilota di quell’aereo che, imparato che stavo facendo la scuola per il brevetto di pilota, mi ospitò in cabina di pilotaggio, facendomi accomodare sulla poltrona del secondo pilota, lasciandomi, ovviamente a 10.000 metri d’altezza e con pilota automatico inserito, i comandi di quell’enorme bestione. Era un napoletano simpaticissimo che, mi diceva, quando voleva veramente divertirsi con il volo, andava all’aereoclub della sua città a pilotare uno di quei piccoli aerei sui quali, anch’io, stavo apprendendo i segreti del volo.
Nei primi anni ’60, esattamente nel 1962, mi si offerse la possibilità di ritornare a Roma, città che è sempre rimasta nel mio cuore. La Federazione Italiana Scherma, in collaborazione con il Coni e il Ministero della Pubblica Istruzione, con l’intenzione di sviluppare, sia scolasticamente sia per la componente agonistica nelle società sportive, la conoscenza di questa disciplina che tante soddisfazioni ha dato, con medaglie olimpiche, mondiali ed europee, allo sport italiano, lanciò un corso residenziale per Maestri di Scherma in favore di un gruppo di Insegnanti di Educazione Fisica già inseriti nel mondo della scuola.
L’offerta era abbastanza vantaggiosa, a casa correva lo stipendio regolare e, a Roma era corrisposta una cifra equivalente per il sostentamento fuori casa. La situazione personale di quel periodo era abbastanza “ingarbugliata”. Mia madre stava ancora bene e non avevo problemi a lasciarla sola a Modena; colsi la “palla al balzo” e approffitai della possibilità offertami per ritornare nella Capitale a “lavorare” in modo piacevole, in una situazione economica abbastanza favorevole, dando nello stesso tempo la possibilità ad uno o più colleghi giovani, di fare una serie di lunghe “supplenze”, poiché restai a Roma, in pratica per tutto l’anno scolastico 1962-63.
Eravamo 20 insegnanti di E.F. provenienti da ogni parte d’Italia, alloggiati nelle foresterie dell’impianto sportivo dell’Acqua Acetosa, praticamente un ritorno ai vecchi tempi della Foresteria al Foro Italico. La zona era, come penso la sia ancora, molto bella, da poco tempo era stato inaugurato quel complesso in previsione delle Olimpiadi del 1964 e, con noi vi erano frequentemente i raduni dei P.O. (probabili olimpici) di molti sport.
Non ero più un “giovincello”, andavo verso i “trenta” ero a Roma con la mia macchina, da poco acquistata, una “Ford Capri” abbastanza appariscente, un coupè americaneggiante, di conseguenza la vita in comunità mi andava un po’ stretta. Gli impianti dell’Acqua Acetosa chiudevano i battenti di sera, verso le 22,30, massimo le 23, ed erano “sguinzagliati” una decina di cani “doberman”, particolarmente addestrati per la guardia, che scorrazzavano all’interno della struttura in quanto, qualche tempo prima vi erano state delle intrusioni dall’esterno, di malintenzionati. Una notte ritornai in ritardo, il custode al cancello aprì ugualmente, dato che mi conosceva, con l’auto potevo arrivare vicinissimo all’ingresso della mia camerata, dove eravamo alloggiati in cinque.
Parcheggiata la macchina, un attimo, prima di scendere, mi vidi circondato da sei o sette di quelle “simpatiche bestiole”, ringhianti e ben poco disponibili nei miei riguardi. Ovviamente restai dentro l’abitacolo a lungo, fintanto che un guardiano addetto a quelle bestie, facendo il suo giro d’ispezione e di controllo mi trovò, in quella situazione, assediato dai suoi bravi doberman.
Li condusse nei loro box così potei, finalmente, andarmene a riposare. Tempo dopo ci fu la notizia che, in alcune occasioni si verificarono, colpa di quei cani da guardia, episodi cruenti con feriti gravi e mi par di ricordare anche un caso di morte, penso, che dopo quei fatti le guardie canine siano state eliminate.
Quell’episodio mi convinse che non era più il caso di restare in quell’impianto, malgrado qualche difficoltà con i dirigenti del Coni e del M.P.I. che non volevano, in un primo tempo, versare lo stipendio a un esterno, mi trovai una bella stanza con pensione, nelle vicinanze di Piazza Ungheria da dove poi, tutte le mattine mi recavo alla sala scherma per acquisire le tecniche schermistiche.
Ritornato a Modena, da allora non toccai più un “fioretto” o una spada perché, come detto per altre situazioni analoghe, ancora si doveva fare, in certi sport, del “volontariato” cosa che per me non era possibile, la mia professione era quella e desideravo che ci fosse un corrispettivo alle mie prestazioni. Ripresi in mano l’arma occasionalmente, dopo tantissimi anni, con l’amico della sezione Scherma della Società Panaro di Modena, Vittorio Cucchiara, ma non ricordavo assolutamente, o quasi, nulla.
All’inizio degli anni 90 fui nominato Delegato Provinciale della Federazione Italiana Canottaggio, in ricordo del Prof. Rubens Pedrazzi con il quale durante gli anni giovanili provai quella spendida disciplina sulle acque, ancora praticabili del fiume Secchia, e per cercare di dare impulso a questo sport, praticato dalla gloriosa Società “Canottieri Mutina”, accettai l’incarico quando mi venne proposto, dall’allora presidente, l’amico Ing. Turno Sbrozzi.
La FIC, in quegli anni, si era separata in due: la canoa e il Kajak, costituirono una loro Federazione, e il canottaggio rimase sotto la sigla originaria. A Modena, ai laghetti di Campogalliano si pratica, e con grande successo, per merito principalmente del Prof. Riccardo Pedrazzi, di Gianni Anderlini e di Livno Bettelli, la canoa e il kajak, con l’ottenimento di risultati eccellenti a tutti i livelli e ne fanno fede le presenze olimpioniche di, Andrea Covi e di Josefa Idem.
La scuola modenese ha portato tanti atleti a livello di eccellenza a dimostrazione di una impostazione e di una preparazione atletica di grande rispetto: i laghetti si prestano bene per l’attività canoistica, malgrado le precarie condizioni degli spogliatoi della Sede e del rimessaggio barche, per il canottaggio il discorso cambia completamente, dato che le barche del remo (il canottaggio) contrariamente a quelle della pagaia (canoa), non hanno la possibilità di manovrare al meglio.
Da oltre venticinque anni, l’Amministrazione Provinciale, aveva programmato, con tanto di stanziamenti pubblici la costruzione di un bacino d canottaggio ai laghetti. Era stato più che pubblicizzato dalla stampa, tante riunioni si sono tenute in Provincia, sul posto insistono ancora i cartelli che prevedono la costruzione del bacino (lunghezza due chilometri, non è il campetto da tennis o da pallavolo), ancora ad oggi, 2007, non si riescono a fare passi avanti.
A chi addossare la responsabilità ai Comuni di Campogalliano o di Rubiera? All’Amministrazione Provinciale? Al Coni? Alle strutture commerciali che insistono su quel territorio? La matassa non si riesce a dipanare. Alcuni anni or sono scrissi un articolo che rilevava lo stato di quella mancata realizzazione, che tanti vantaggi porterebbe non solo alla zona, ma a tutto il territorio modenese, e che qui vorrei proporre.

REMO CONTRO DEGRADO

I molti modenesi che hanno frequentato i laghetti di Campogalliano in cerca di pace e di tranquillità per andare a pescare o alla ricerca del fresco durante i mesi estivi avranno senz'altro notato i due grandi cartelloni installati dalla Provincia e che pubblicizzano la costruzione nel Parco Fluviale di un bacino di canottaggio. Quei cartelli sono sul posto da una quindicina d'anni, e della costruzione del bacino se ne parlava anche dieci anni prima di quella data. E' trascorso dunque un quarto di secolo ma di quei progetti, che in realtà avevano avuto un inizio, non se se ne è mai più parlato e tanto meno oggi non si riesce a sapere dove e come siano stati spesi gli stanziamenti e se vi è ancora la volontà di proseguire.
L'importo devoluto per il primo stralcio dei lavori comportava una cifra di L. 1.017.436.500. Le imprese che dovevano e che in parte hanno svolto lavori erano : SISTEMA - INCAM e ACEA costruzioni;il progetto dell studio CUPPINI e Associati di Bologna e lo Studio Tecnico dell'Ing. Bambini e Ing. Lusvarghi di Campogalliano.
All'inizio degli anni novanta numerose riunioni si sono tenute nella sede della Provincia di Modena con la presenza di assessori, esperti, progettisti, rappresentanti di Federazioni Sportive e sembrava che il progetto prendesse veramente consistenza poi tutto si è fermato.
L'attività sportiva che attualmente si svolge ai laghetti è quella della canoa che tra l'altro ha dato tantissime soddisfazioni allo sport modenese dato che gli atleti allenati dal Prof. Riccardo Pedrazzi e condotti dal Presidente della Canottieri Mutina Livno Bettelli hanno raggiunto prestigiosi traguardi anche a livello nazionale. Ma a costo di tantissimi sacrifici: Avete mai visto i piccoli locali dove sono accatastate le canoe e un solo skiff per il canottaggio? oppure i locali dove gli atleti si spogliano o dove fanno allenamento con i pesi?
Non è possibile che negli anni duemila, con sport ricchissimi e stramiliardari, altri sport, quali quelli della canoa e del canottaggio per i quali la stampa si entusiasma solo quando vincono medaglie d'oro alle olimpiadi o ai mondiali, debbano arrancare per avere il minimo indispensabile per cercare di far gareggiare i loro atleti e non sempre ci riescono. Ai laghetti di canoa se ne è fatta e se ne stà facendo tanta; ma per il canottaggio niente. Le lunghe barche dei canottieri non hanno lo possibilità di manovrare negli spazi ristretti dove invece la canoa si muove con disinvoltura.
Di conseguenza da decenni, dopo che nel fiume Secchia dove vi era la sede della Canottieri Mutina sino agli anni '50, la scuola modenese del remo che negli anni anteguerra era vivacissima non ha più avuto alcuna possibilità di esprimere quei talenti sportivi che la nostra terra produce da sempre.
Non è poi da sottovalutare la situazione aria, acqua, territorio, ambiente. Sono elementi che la natura ci offre per vivere, ma che l'uomo d'oggi, malgrado le tante chiacchere, tende a trascurare se non a distruggere. Si assiste sempre di più al degrado ed allo scempio di questi elementi pur facendo enunciazione continua di principio nei confronti della salvaguardia degli stessi e si promulgano leggi che molto spesso sono in contrasto con i principi dichiarati. Non vi è mai stata nella storia nessuna civiltà come la nostra che ha prelevato tanto dall'ambiente rendendolo sempre più povero. Si commettono gravissimi atti d’inquinamento che turbano sempre più l'equilibrio biologico.
Il mondo dello sport ha sempre dato molta importanza alle tematiche ambientalistiche nel momento in cui il delicato equilibrio ecologico rischia di essere seriamente compromesso da modelli di sviluppo spesso inadeguati, e sopratutto nel concepire l'attività sportiva non solo come pura espressione agonistica ma fondamentalmente come mezzo di formazione educativo-culturale.
Lo sport del remo pertanto tra le varie attività sportive , più di ogni altra, vive e fà sua la natura e introduce un discorso pedagogico che non passa attraverso elucubrazioni sofisticate in dibattiti e discussioni, ma attraverso la pratica, la presenza, l'esempio che deriva dall'attività giornaliera sugli specchi d'acqua siano essi lacustri, fluviali o marini si pone come assoluto protagonista di un tal modo di concepire la vita.
Il Canottaggio si pone pertanto all'attenzione di chi ama natura , sport, vita sana e all'aria aperta come promotore di una cultura nuova che proviene da un confronto che ha suscitato due percezioni ormai consolidate: che l'ambiente è una realtà viva ,fragile, complessa e che l'azione dell'uomo proprio perchè consapevole e dunque responsabile, è essenziale per il il recupero e la conservazione, oltre che del patrimonio culturale, anche di quello naturale.
L'area naturalistica di Campogalliano dove insiste una flora ed una fauna di notevole interesse è sconvolta al momento attuale da un’irrazionale situazione. A fronte dei cartelli, anche numerosi, dove si consiglia di tutelare l'ambiente, si invitano i cittadini a comportarsi in modo adeguato per la difesa della natura in tutti i suoi aspetti, si lascia che sulla strada che attraversa i laghetti, dove vi sono pure ai bordi questa due maneggi dove si esercitano bambini e non, passino in continuazione ed anche a velocità sostenuta enormi autocarri adibiti al trasporto di ghiaia e quant'altro sollevando enormi polveroni alla faccia di chi và alla ricerca dell'aria pulita e della tranquillità.
E' assurdo che,in un’area di riequlibrio ecologico,continuino ad insistervi sopra varie attività di tipo industriale,e che nello stesso tempo nelle varie pubblicazioni o nei siti internet dei vari comuni del comprensorio e della Provincia si continui a reclamizzare l'area naturalistica. Altro discorso bisognerebbe fare sul degrado degli edifici che sorgono nelle adiacenze dei laghetti alcuni dei quali riportano ancora la cartellonistica relativa agli scopi ai quali erano destinati
Prof. Bruno Zucchini - Delegato Provinciale Federazione Italiana Canottaggio
Così scriveva la rivista della Provincia di Modena, 20 anni or sono e cioè nella primavera del 1988, relativamente alla sistemazione della riserva naturale della Cassa di Espansione del fiume Secchia nella zona dei laghetti di Campogalliano.
Campogalliano: presto bacino di canottaggio e piscina di nuoto
Sono stati approvati con il voto favorevole di tutti i gruppi nella seduta dell'11 Maggio del Consiglio Provinciale, i due progetti di massima riguardanti il bacino di canottaggio e la piscina coperta per sport acquatici che verranno allestititi nella zona di Campogalliano nell'ambito degli interventi previsti per la realizzazione del Parco Fluviale del Secchia.
Il primo progetto presentato dall'assessore allo sport Patrizia Guidetti, prevede la costruzione di un bacino con relativo campo di regata all'interno del Parco con uno specchio d'acqua complessivo di circa due chilometri.
L'impianto sportivo nel complesso costituirà un centro agonistico per gare di canoa e canottaggio assolutamente unico in Italia, dove impianti attrezzati si hanno solo a Roma e Milano, e di sicura caratura europea. Intale senso le Federazioni Nazionali di sport acquatici hanno espresso giudizi lusinghieri a favore del progetto che consentirebbe alla zona del bacino di proiettarsi nel grande scenario continentale di gare agonistiche.
Come corollario importante dell'impianto, verrà costruita in prossimità del bacino presso il centro polivalente di sport acquatici di Campogalliano una piscina coperta per nuoto e pallanuoto.
Il complesso, oltre a consentire la pratica delle diverse discipline , rappresenterà l'indispensabile appendice del campo di regata permettendo l'allenamento degli atleti anche durante la stagione invernale.
Promesse non mantenute!

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