Giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di rilevanza della convivenza more uxorio
INDICE
Sentenza n. 2 del 1998 (GRANATA; SANTOSUOSSO)
Sentenza n. 203 del 1997 (GRANATA; ONIDA)
Sentenza n. 127 del 1997 (GRANATA; MIRABELLI)
Sentenza n. 8 del 1996 (FERRI; ZAGREBELSKY) La distinta considerazione costituzionale della convivenza e del rapporto coniugale, come tali, non esclude la comparabilità delle discipline riguardanti aspetti particolari dell'una e dell'altro che possano presentare analogie, ai fini del controllo di ragionevolezza a norma dell'art. 3 della Costituzione: ma sotto questo profilo non può essere accolta la questione che mira, come risultato, ad una decisione additiva che eccede i poteri della Corte costituzionale a danno di quelli riservati al legislatore.
Sentenza n. 281 del 1994 (CASAVOLA; SANTOSUOSSO) Pur considerando il sempre maggior rilievo assunto dalla convivenza nel costume sociale e la funzione che essa potrebbe assumere al fine di comprovare la solidità del vincolo dei coniugi, nell'interesse del minore, una nuova soluzione normativa, in base alla quale, eventualmente, potrebbe richiedersi agli adottanti una durata inferiore del matrimonio, ma un consistente periodo di convivenza precedente, comporterebbe inevitabilmente la necessità di definire i criteri oggettivi svolgenti l'analoga funzione del triennio post-matrimoniale, i quali, tuttavia, per la complessità delle scelte da attuare mediante l'interpretazione dei diversi elementi e valori di una società in continua evoluzione, possono essere ricercati nelle sole competenze del legislatore.
Sentenza n. 559 del 1989 (SAJA; CASAVOLA) Contrasta con il principio di ragionevolezza - e viola altresì il diritto sociale all'abitazione, collocabile fra quelli inviolabili dell'uomo - la normativa regionale che, dopo aver stabilito, ai fini dell'accesso ai concorsi per l'assegnazione di alloggi di edilizia residenziale, l'appartenenza del convivente more uxorio e della prole naturale al nucleo familiare dell'assegnatario, esclude tuttavia il diritto del medesimo convivente affidatario dei figli a succedere nella posizione dell'assegnatario se questi - per il venir meno dell'affectio - abbandoni l'alloggio.
Sentenza n. 310 del 1989 (SAJA; MENGONI) Il mancato riconoscimento della convivenza more uxorio come titolo di vocazione legittima all'eredità è conforme sia ai principi del diritto successorio sia alla natura stessa della suddetta convivenza. È compito del legislatore valutare il grado di meritevolezza della tutela dell'interesse del convivente more uxorio alla conservazione dell'alloggio in caso di morte del partner.
Ordinanza n. 1122 del 1988 (SAJA; CASAVOLA) L'art. 649, primo comma, cod. pen., riguardo ai reati contro il patrimonio, razionalmente collega l'esclusione della punibilità a dati incontrovertibili ed agevolmente riscontrabili (vincoli di parentela, affinità, adozione e coniugio) che non sono presenti nella convivenza more uxorio, rapporto per sua natura intrinsecamente aleatorio in quanto fondato sulla affectio quotidiana di ciascuna delle parti liberamente ed in ogni istante revocabile.
Sentenza n. 644 del 1988 (SAJA; DELL'ANDRO) Fino al momento in cui la famiglia naturale, non fondata sul matrimonio, non avrà un "qualche" riconoscimento giuridico, non è dato equipararla, e neppure giuridicamente "confrontarla", ai fini di verificare eventuali violazioni degli artt. 3, 29 e 31 Cost., con la famiglia legittima.
Sentenza n. 423 del 1988 (SAJA; CASAVOLA) La non punibilità dei delitti contro il patrimonio commessi in danno del coniuge non legalmente separato si fonda sulla presunzione di esistenza di una comunanza di interessi che assorbe il fatto delittuoso, sicché la mancata estensione della suddetta esimente alla diversa fattispecie della convivenza more uxorio - fondata sull'affectio quotidiana, liberamente e in ogni istante revocabile - non sembra contrastare con gli artt. 2 e 3 Cost., se (come nel caso oggetto del giudizio a quo) sussistano atti concludenti che attestano la revocazione dell'affectio e dunque il venir meno della convivenza more uxorio.
Sentenza n. 404 del 1988 (SAJA; CASAVOLA) È irragionevole e viziata da contraddittorietà logica la previsione di legge che, pur tutelando l'abituale convivenza, non include, tuttavia, tra i successibili nel contratto di locazione, chi era già legato more uxorio al titolare originario del contratto; risultando, in pari tempo, leso il diritto fondamentale all'abitazione.
Sentenza n. 237 del 1986 (LA PERGOLA; BORZELLINO) L'art. 29 - come del resto fu pressoché univocamente palesato in sede di Assemblea Costituente - riguarda la famiglia fondata sul matrimonio, cosicché rimane estraneo al contenuto delle garanzie ivi offerte, ogni altro aggregato pur socialmente apprezzabile, divergente tuttavia dal modello che si radica nel rapporto coniugale. Un consolidato rapporto (come la convivenza more uxorio), ancorché di fatto, non appare costituzionalmente irrilevante se si abbia riguardo al riconoscimento delle formazioni sociali e alle conseguenti intrinseche manifestazioni solidaristiche (art. 2 Cost.) e ciò tanto più se vi sia presenza di prole. Siffatti interessi sono indubbiamente meritevoli, nel tessuto delle realtà sociali odierne, di compiuta obiettiva valutazione.
Sentenza n. 45 del 1980 (AMADEI; ROSSANO) La situazione del convivente more uxorio è del tutto diversa da quella degli altri soggetti contemplati dalle norme impugnate, essendo tale convivenza soltanto un mero rapporto di fatto, priva del carattere della stabilità, suscettibile di venir meno in qualsiasi momento e improduttiva di quei diritti e doveri reciproci nascenti dal matrimonio e propri della famiglia legittima.
Sentenza n. 6 del 1977 (ROSSI; TRIMARCHI) La situazione di chi sia legato ad altro soggetto di sesso diverso da una relazione sentimentale e da rapporti sessuali (con la nascita di un figlio dall'unione) è nettamente diversa da quella basata sul vincolo matrimoniale.
Sentenza n. 179 del 1976 (ROSSI; TRIMARCHI) Contrasta con l'art. 31 della Costituzione la normativa in esame in quanto non "agevola con misure economiche ed altre provvidenze la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi" ed anzi dà vita per i nuclei familiari legittimi e nei confronti delle unioni libere, delle famiglie di fatto e di altre convivenze familiari, ad un trattamento deteriore.
Sentenza n. 2 del 1998 (GRANATA; SANTOSUOSSO)
La Corte costituzionale (…) ha pronunciato la seguente sentenza nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2941, numero 1), del codice civile promosso con ordinanza emessa il 3 maggio 1996 dal Tribunale di Bolzano nel procedimento civile vertente tra Karadar Hildegard e Rovari Guerrino iscritta al n. 1193 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell’anno 1996.
Visto l’atto di costituzione di Rovari Guerrino;
udito nella camera di consiglio del 29 ottobre 1997 il Giudice relatore Fernando Santosuosso.
Ritenuto in fatto
1.— Nel corso di un procedimento civile instauratosi tra due ex conviventi more uxorio per questioni di natura patrimoniale, il Tribunale di Bolzano ha sollevato, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 2941, numero 1), del codice civile.
Osserva il giudice a quo che la norma impugnata sarebbe costituzionalmente illegittima in quanto, mentre stabilisce che il corso della prescrizione resti sospeso tra i coniugi, non contiene analoga previsione per i conviventi more uxorio, benché tale tipo di rapporto, ormai comunemente riconosciuto ed accettato, sia sostanzialmente equiparabile a quello tra i coniugi.
In punto di rilevanza il rimettente nota che l'eccezione di prescrizione, sollevata da una delle parti in causa nei confronti della pretesa di carattere economico avanzata dall'altra, deve ritenersi fondata alla luce della norma impugnata così come essa è attualmente, in quanto spostando l'inizio del decorso della prescrizione al momento in cui cessa la convivenza more uxorio, l'eccezione medesima verrebbe a risultare priva di fondamento.
Sotto il profilo della non manifesta infondatezza il Tribunale osserva che questa Corte ha in più occasioni riconosciuto (sentenze n. 237 del 1986, n. 404 del 1988 e n. 559 del 1989) che la cosiddetta famiglia di fatto non è priva di rilevanza costituzionale, anche in considerazione dei profondi cambiamenti intervenuti nel tessuto sociale del nostro paese, a seguito dei quali la famiglia legittima ha perso il carattere di esclusività rivestito in passato. D'altra parte, la giurisprudenza della Cassazione ritiene che la prescrizione rimanga sospesa tra i coniugi anche in caso di intervenuta separazione legale, il che crea un'evidente irragionevole disparità di trattamento rispetto ai conviventi di fatto, per i quali la sospensione non può operare neppure in costanza del rapporto.
E poiché la stessa Corte suprema ha sempre insegnato che le cause di sospensione della prescrizione, siccome eccezionali, sono da ritenersi tassative e, quindi, non suscettibili di interpretazione analogica, è chiaro che estendere la portata della norma impugnata anche ai conviventi more uxorio non è possibile senza l'intervento di questa Corte. Tale intervento, secondo il Tribunale, è tanto più doveroso in quanto la famiglia di fatto è andata acquistando rilievo anche ai sensi dell'art. 2 Cost., come formazione sociale nel cui ambito l'individuo sviluppa la propria personalità.
2.— Nel giudizio davanti alla Corte costituzionale si è costituito Rovari Guerrino, con comparsa depositata fuori termine.
Considerato in diritto
1.— Il Tribunale di Bolzano dubita che l'art. 2941, numero 1), cod. civ., nel prevedere che la prescrizione rimanga sospesa tra i coniugi, violi gli artt. 2 e 3 Cost. in quanto non tiene nella dovuta considerazione la famiglia di fatto, intesa come formazione sociale nella quale si svolge la personalità dell'individuo ed inoltre crea un'irragionevole disparità di trattamento tra coniugi e conviventi more uxorio, tanto più che, per giurisprudenza costante, la prescrizione rimane sospesa tra i coniugi anche in caso di intervenuta separazione legale.
2.— La questione non è fondata.
L'istituto della prescrizione è finalizzato – com’è noto – ad un obiettivo di primaria importanza, che è quello di garantire certezza dei rapporti giuridici, facendo venir meno il diritto non esercitato per un determinato periodo di tempo. In tale prospettiva la sospensione della prescrizione si caratterizza per la peculiarità, rilevata anche dal giudice a quo, costituita dalla tassatività dei casi previsti dalla legge. Se infatti ogni diritto, salvo specifiche eccezioni, "si estingue per prescrizione, quando il titolare non lo esercita per il tempo determinato dalla legge" (art. 2934 cod. civ.), ne deriva coerentemente che non è possibile riconoscere ipotesi di sospensione che non siano espressamente regolate dal codice civile o da altre norme speciali in materia (v., ad esempio, l'art. 168, secondo comma, della legge fallimentare). E’ per questo che l'art. 2941 cod. civ. contiene un elenco ben determinato di casi, enucleabili in base a rigorosi criteri formali e giustificati dalla particolarità delle situazioni ivi previste.
3.— Il carattere eccezionale della sospensione della prescrizione non impedisce, tuttavia, a questa Corte di vagliare la legittimità costituzionale di ingiustificate omissioni da parte del legislatore sotto un diverso profilo ed entro precisi limiti. Già in materia di privilegio – istituto assimilabile a quello in esame sotto l'aspetto della eccezionalità – la Corte ha rilevato che "mentre è possibile, in tesi, sindacare – all'interno di una specifica norma attributiva di un privilegio – la ragionevolezza della mancata inclusione, in essa, di fattispecie identiche od omogenee a quella cui la causa di prelazione è riferita, certamente non consentito è invece utilizzare lo strumento del giudizio di legittimità per introdurre (...) una causa di prelazione ulteriore" (sentenza n. 84 del 1992). In altre parole, se esorbita dai compiti del giudice delle leggi quello di creare una nuova fattispecie di sospensione della prescrizione, deve ritenersi lecito sindacare l'omissione legislativa nell'ambito di un'ipotesi già determinata; ma in questo caso, com'è ovvio, la norma richiamata deve costituire un valido tertium comparationis, tale da rendere illegittima l'omissione e conseguentemente doverosa la sentenza additiva della Corte.
4.— Poste queste premesse, la Corte osserva che – anche sotto questo profilo – la questione è infondata per un duplice ordine di considerazioni: a) perché la famiglia legittima, essendo una realtà diversa dalla famiglia di fatto, non costituisce un adeguato tertium comparationis; b) perché la sospensione della prescrizione implica precisi elementi formali e temporali che si ravvisano nel coniugio e non nella libera convivenza.
Questa Corte, nel corso degli anni, ha in più occasioni affermato che "la convivenza more uxorio è un rapporto di fatto, privo dei caratteri di stabilità e certezza e della reciprocità e corrispettività dei diritti e dei doveri (...) che nascono soltanto dal matrimonio e sono propri della famiglia legittima" (sentenza n. 45 del 1980, ripresa dalla sentenza n. 237 del 1986 e, più di recente, dalla sentenza n. 127 del 1997). Peraltro in tema di successione nel rapporto di locazione la Corte (sentenza n. 404 del 1988) ha ritenuto illegittima l’omessa estensione di certe norme anche a favore dei conviventi more uxorio.
5.— Nella decisione della presente questione la Corte ribadisce che il rapporto coniugale implica, secondo quanto previsto dalla legge, una serie di potenzialità che non si esauriscono nel mero dato materiale della convivenza accompagnato dall'affectio pur verificabile anche nel rapporto more uxorio. I diritti e i doveri inerenti al matrimonio si caratterizzano per la certezza e la disciplina legale del rapporto su cui si fondano; e da ciò consegue che la non omogeneità delle due situazioni non consente di estendere dall’una all’altra le regole sulla sospensione della prescrizione.
D’altronde la stessa natura della prescrizione – istituto finalizzato a conferire stabilità a rapporti patrimoniali – impone per il decorso dei termini l’adozione di parametri di riferimento certi ed incontestabili, quali possono essere offerti soltanto dall’esistenza o dal venir meno di un vincolo giuridico quale il matrimonio.
Da quanto esposto deriva che nella norma denunziata non sussiste alcuna violazione dell’art. 3 della Costituzione.
6.— In riferimento all'invocato parametro dell'art. 2 Cost. – oltre al rilievo che il carattere patrimoniale dei diritti in esame rende certamente difficile ricomprendere la fattispecie nell'ambito della citata norma, che presuppone l'inviolabilità dei diritti – si osserva che il collegamento compiuto dal rimettente tra la convivenza more uxorio e le formazioni sociali di cui all'art. 2 Cost. si risolve in un'esplicitazione della presunta violazione del principio di eguaglianza, sicché le argomentazioni già svolte valgono a dimostrare l'infondatezza della questione anche in relazione a tale ulteriore parametro.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2941, numero 1), del codice civile sollevata, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, dal Tribunale di Bolzano con l'ordinanza di cui in epigrafe.
(…)
Sentenza n. 203 del 1997 (GRANATA; ONIDA)
La Corte costituzionale (...) ha pronunciato la seguente sentenza nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 1, della legge 30 dicembre 1986, n. 943 (Norme in materia di collocamento e di trattamento dei lavoratori extracomunitari immigrati e contro le immigrazioni clandestine), promosso con ordinanza emessa il 21 settembre 1995 dal T.A.R. del Friuli-Venezia Giulia sul ricorso proposto da Vladimorova Eva contro il Ministero dell'interno, iscritta al n. 149 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale dell'anno 1996.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 12 marzo 1997 il Giudice relatore Valerio Onida.
Ritenuto in fatto
1. - Nel corso di un giudizio promosso da una cittadina bulgara per l'impugnazione di un provvedimento di revoca del permesso di soggiorno per motivi di famiglia, il Tribunale amministrativo regionale per il Friuli-Venezia Giulia, con ordinanza emessa il 21 settembre 1995, pervenuta a questa Corte il 29 gennaio 1996, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 10, 30 e 31 della Costituzione, dell'art. 4, comma 1, della legge 30 dicembre 1986, n. 943 (Norme in materia di collocamento e di trattamento dei lavoratori extracomunitari immigrati e contro le immigrazioni clandestine), "nella parte in cui non consente il ricongiungimento ad un figlio minore di un cittadino extracomunitario non legato all'altro genitore da vincolo di coniugio".
Il giudice a quo premette in fatto che la ricorrente, che convisse more uxorio con altro cittadino extracomunitario, col quale ebbe una figlia, riconosciuta da entrambi i genitori, aveva ottenuto un permesso di soggiorno per motivi di famiglia, in seguito revocato col provvedimento impugnato, poiché la stessa ricorrente non risultava coniugata. Nell'atto introduttivo del giudizio a quo si sosteneva che l'art. 4 della legge n. 943 del 1986 - ai cui sensi "i lavoratori extracomunitari legalmente residenti in Italia ed occupati hanno diritto al ricongiungimento con il coniuge nonché con i figli a carico non coniugati, considerati minori dalla legislazione italiana, i quali sono ammessi nel territorio nazionale e possono soggiornarvi per lo stesso periodo per il quale è ammesso il lavoratore e sempreché quest'ultimo sia in grado di assicurare ad essi normali condizioni di vita" - si applica anche alle famiglie di fatto, e che qualora la norma dovesse interpretarsi diversamente sarebbe contraria alla Costituzione.
Il remittente afferma che l'impugnato provvedimento di revoca del permesso di soggiorno risulta conforme alla norma citata, poiché il termine "coniuge" in essa contenuto fa riferimento ad un vincolo matrimoniale legittimo: di qui discenderebbe la rilevanza della questione di legittimità costituzionale ai fini della decisione definitiva circa la sospensione richiesta (dopo quella provvisoriamente concessa dallo stesso Tribunale), apparendo il provvedimento fondato appunto su detta norma.
Ad avviso del Tribunale l'art. 4, comma 1, della legge n. 943 del 1986, ancorché inserito in una legge relativa al collocamento e al trattamento dei lavoratori extracomunitari, avrebbe l'ulteriore scopo di favorire la riunificazione delle famiglie: ma con questa finalità contrasterebbe la limitazione del ricongiungimento ai soli figli nati nel matrimonio. Con ciò si realizzerebbe una discriminazione tra i figli nati nel matrimonio e quelli nati fuori di esso, si limiterebbe il diritto-dovere dei genitori di educare i figli, e correlativamente il diritto dei figli di essere accuditi da entrambi i genitori, in contrasto con gli articoli 30 e 31 della Costituzione; e si violerebbe la garanzia di speciale protezione dell'infanzia sancita dal citato art. 31.
La disposizione sarebbe inoltre, sempre secondo il giudice a quo, in contrasto con l'art. 10 della Costituzione, che garantisce allo straniero una tutela in conformità ai trattati internazionali: fra questi assumerebbe rilievo in particolare l'art. 8 (concernente il diritto della persona al rispetto della sua vita privata e familiare) della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, cui si è data esecuzione con la legge 4 agosto 1955, n. 848; nonché il principio sesto della dichiarazione dei diritti del fanciullo (New York, 20 novembre 1959), secondo cui "il fanciullo, per lo sviluppo armonioso della sua personalità, ha bisogno di amore e di comprensione. Egli deve, per quanto possibile, crescere sotto le cure e la responsabilità dei genitori e, in ogni caso, in un'atmosfera di affetto e di sicurezza materiale e morale. Salvo circostanze eccezionali, il bambino in tenera età non deve essere separato dalla madre".
2. - E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque infondata.
L'Avvocatura erariale osserva anzitutto che la questione andrebbe riconsiderata, ai fini della rilevanza, dal giudice a quo, dato che in materia di ricongiungimento sono sopravvenuti gli artt. 10 e 11 del d.l. 18 gennaio 1996, n. 22.
Afferma poi che è infondato il sospetto di una discriminazione a danno dei figli nati fuori dal matrimonio: infatti la norma denunciata considera il ricongiungimento con i figli minori a carico non coniugati, indipendentemente dal fatto che essi siano nati o meno nel matrimonio. Quest'ultimo potrebbe venire in rilievo solo in relazione al ricongiungimento con il coniuge, mentre la questione è prospettata con riferimento ai figli minori: ciò che non potrebbe non riflettersi sulla rilevanza della questione medesima.
Parimenti, secondo la difesa del Presidente del Consiglio, si riflette sulla rilevanza la circostanza che nella specie non si è in presenza di un lavoratore extracomunitario residente che abbia chiesto il ricongiungimento con un figlio minore da ammettere al soggiorno in Italia, ma di una cittadina extracomunitaria, non legalmente residente, che vorrebbe essere ammessa al soggiorno in Italia per ricongiungersi ad una figlia minore, non a suo carico, che già vi soggiorna. Si verserebbe quindi nell'ambito di applicabilità non già della norma denunciata, bensì eventualmente dell'art. 2 del d.l. n. 416 del 1989, convertito dalla legge n. 39 del 1990, che disciplina l'ammissione dei cittadini extracomunitari all'ingresso nel territorio nazionale.
Né rileverebbe assumere che, se l'interessata fosse unita in matrimonio con il padre della minore, potrebbe ottenere il ricongiungimento al coniuge e dunque alla figlia. Infatti tale assunto avrebbe potuto venire in rilievo solo nell'ipotesi, nella specie non ricorrente, in cui fosse il convivente more uxorio, legalmente residente in Italia e occupato, che avesse chiesto il ricongiungimento per la sua convivente. In tale caso però il sospetto di incostituzionalità riguarderebbe i limiti del ricongiungimento col coniuge e perciò potrebbe venire in rilievo solo in un giudizio in cui di ciò si discutesse. In ogni caso, secondo l'Avvocatura, ai fini del ricongiungimento sarebbe diversa la situazione di coloro che sono uniti in matrimonio rispetto a quella di coloro che versino in situazione di semplice convivenza, per di più non attuale, come è postulato dalla normativa sul ricongiungimento.
La questione sarebbe dunque inammissibile e comunque infondata sotto il profilo degli artt. 30 e 31 della Costituzione, mentre del tutto non pertinente sarebbe il richiamo all'art. 10 della Costituzione medesima.
Considerato in diritto
1.- La questione sollevata investe l'art. 4, comma 1, della legge 30 dicembre 1986, n. 943 (Norme in materia di collocamento e di trattamento dei lavoratori extracomunitari immigrati e contro le immigrazioni clandestine), che regola il "diritto al ricongiungimento" con il coniuge e con i figli minori non coniugati, spettante ai lavoratori extracomunitari legalmente residenti in Italia ed occupati, alla sola condizione che questi siano in grado di assicurare ai congiunti normali condizioni di vita; ma in realtà evoca una situazione che va al di là di quella contemplata da detta disposizione, e che riguarda il diritto - il cui mancato riconoscimento fonda la censura di incostituzionalità - del cittadino extracomunitario, privo di altro titolo di legale soggiorno in Italia, a rimanere nel territorio nazionale per vivere con un figlio minore nell'ambito della "famiglia di fatto" costituita con l'altro genitore - a sua volta legalmente residente in Italia - con il quale non sia unito in matrimonio. Tale assenza di riconoscimento del diritto alla permanenza nel territorio nazionale appare al giudice remittente in contrasto con le norme degli artt. 30 e 31 della Costituzione, che sanciscono l'eguale tutela dei figli nati fuori dal matrimonio e la speciale protezione dell'infanzia, nonché con l'art. 10, in relazione alle norme convenzionali internazionali che affermano il diritto alla protezione della vita familiare e delle relazioni affettive del minore.
2.- Non vi è motivo per restituire gli atti al giudice a quo per una nuova valutazione della rilevanza, in relazione alla sopravvenuta emanazione del d.l. n. 22 del 1996, e dei successivi decreti legge che ne hanno reiterato la disciplina. Da un lato, infatti, detti decreti sono tutti decaduti per mancata conversione in legge; dall'altro lato, la clausola di sanatoria degli effetti e dei rapporti giuridici sorti sulla loro base, contenuta nell'art. 1, comma 1, della successiva legge 9 dicembre 1996, n. 617, non è in grado di incidere in alcun modo sulla rilevanza della questione nel giudizio a quo, posto che le modifiche apportate da detti decreti alla disciplina dei ricongiungimenti familiari non riguardavano in alcun modo la situazione dedotta in tale giudizio. Infatti essi sostanzialmente riprendevano, quanto al contenuto essenziale, il disposto dell'impugnato art. 4 della legge 30 dicembre 1986, n. 943, pur estendendo il diritto al ricongiungimento ai "cittadini", anziché ai soli "lavoratori", extracomunitari legalmente residenti in Italia, e dettando una disciplina parzialmente diversa delle condizioni per il ricongiungimento con il coniuge e con i figli minori.
3.- L'eccezione di irrilevanza della questione, sollevata dalla difesa del Presidente del Consiglio, non merita accoglimento.
E' ben vero, infatti, che - come si è accennato - la situazione della ricorrente nel giudizio a quo è diversa da quella presa in considerazione dalla norma denunciata, e che lo stesso impugnato provvedimento di revoca del permesso di soggiorno non si identifica con un provvedimento di diniego del ricongiungimento, e non si fonda direttamente sull'art. 4, comma 1, della legge n. 943 del 1986, ma piuttosto sull'asserita erroneità, nella specie, di un permesso di soggiorno per motivi familiari rilasciato alla cittadina extracomunitaria non coniugata.
Ma è altrettanto vero che la situazione giuridica fatta valere dalla ricorrente nel giudizio dinanzi al TAR altro non è che quel "diritto al ricongiungimento" - visto ex parte dello straniero che intenda raggiungere nel territorio italiano il familiare ivi legalmente residente - che proprio e solo la norma impugnata contempla, ma appunto esclusivamente in capo al coniuge e ai figli minori dello straniero legalmente residente, non prevedendolo invece in capo al genitore di figlio minore a sua volta legalmente residente in Italia con l'altro genitore, al primo non coniugato ma con lui convivente more uxorio, nell'ambito dunque di una "famiglia di fatto".
In effetti il provvedimento di revoca del permesso di soggiorno, e dunque il diniego del titolo a permanere nel territorio nazionale, adottato a carico della ricorrente, è motivato dal fatto che essa "è nubile e non ha qui formato una famiglia, né ci sono elementi per ritenere che intenda farlo in futuro"; è cioè motivato proprio in relazione alla differenza che sussiste tra coniuge e convivente more uxorio, prescindendo del tutto dalla presenza di figli minori che vivano o per i quali si chiede che possano vivere con entrambi i genitori, nell'ambito della stessa "famiglia di fatto".
Appare quindi sostanzialmente corretta la motivazione con cui il giudice a quo ha sostenuto la rilevanza della questione, con la quale si denuncia l'esistenza di una lacuna nella norma vigente sul diritto al ricongiungimento, e dunque al soggiorno nel territorio nazionale, dei congiunti dello straniero legalmente residente in Italia. Essendo il citato art. 4 della legge n. 943 del 1986 l'unica norma che disciplina tale diritto al ricongiungimento, è proprio ad esso che va riferita la censura di incompletezza.
Altre sono infatti le finalità e la ratio delle norme che prevedono il rilascio di permessi di soggiorno "per motivi di famiglia", come l'art. 2 del d.l. 30 dicembre 1989, n. 416: il quale - come la Corte ha osservato nella sentenza n. 28 del 1995, proprio al fine di respingere una analoga eccezione di irrilevanza della questione allora sollevata - lascia alla discrezionalità dell'amministrazione l'apprezzamento della consistenza di tali motivi, e non collega la durata del permesso di soggiorno a quella del legale soggiorno del familiare rispetto a cui il ricongiungimento si opera (e anzi prevede che il permesso possa avere durata inferiore a due anni quando è concesso "per visite a familiari di primo grado": art. 2 cit., comma 4, secondo periodo).
Nella specie, ciò che viene in considerazione non sono, viceversa, i parametri normativi offerti dall'ordinamento per l'uso di tale potere discrezionale dell'amministrazione, ma un vero e proprio diritto fondamentale - in ipotesi illegittimamente disconosciuto - del genitore straniero di figlio minore legalmente residente in Italia con l'altro genitore, non legato al primo da vincolo matrimoniale, ad entrare e rimanere nel territorio nazionale al fine di poter realizzare e mantenere quella comunità di vita fra figli e genitori, che è appunto l'oggetto sostanziale del diritto invocato. Ed è in questa prospettiva che la Corte ritiene debba essere esaminata la questione sollevata.
4.- Nel merito, la questione è fondata.
Questa Corte ha già avuto modo di affermare che la garanzia della "convivenza del nucleo familiare" si radica "nelle norme costituzionali che assicurano protezione alla famiglia e in particolare, nell'ambito di questa, ai figli minori"; e che "il diritto e il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli, e perciò di tenerli con sé, e il diritto dei genitori e dei figli minori ad una vita comune nel segno dell'unità della famiglia, sono (...) diritti fondamentali della persona che perciò spettano in via di principio anche agli stranieri", cui si riferisce l'art. 4 della legge n. 943 del 1986 (sentenza n. 28 del 1995).
Nella specie allora decisa, l'affermazione di questi principi (unitamente al richiamo al carattere generale del principio costituzionale di tutela del lavoro "in tutte le sue forme", di cui all'art. 35 Cost.) condusse la Corte ad interpretare l'art. 4 citato nel senso che il diritto al ricongiungimento con il figlio minore residente all'estero riguarda anche gli stranieri legalmente residenti che in Italia svolgano attività lavorativa nell'ambito della propria famiglia.
La presente questione riguarda un profilo in un certo senso simmetrico: è il genitore straniero di un figlio minore legalmente residente in Italia con l'altro genitore che invoca il diritto a ricongiungersi con il figlio.
In entrambi i casi, tuttavia, vengono in considerazione tanto il diritto fondamentale del minore a poter vivere, ove possibile, con entrambi i genitori, titolari del diritto-dovere di mantenerlo, istruirlo ed educarlo; quanto il conseguente diritto dei genitori a realizzare il ricongiungimento con il figlio.
Tali diritti sono violati da una disciplina normativa che, ai fini del ricongiungimento, ignora la situazione di coloro che, pur non essendo coniugati, siano titolari dei diritti-doveri derivanti dalla loro condizione di genitori.
La situazione, dunque, alla quale si collega il diritto al ricongiungimento familiare qui affermato non concerne il rapporto dei genitori fra di loro, bensì il rapporto tra i genitori e il figlio minore, in funzione della tutela costituzionale di quest'ultimo.
5.- La Corte ha già osservato che la legge può legittimamente sottoporre l'esercizio del diritto al ricongiungimento a condizioni volte ad assicurare "un corretto bilanciamento con altri valori dotati di pari tutela costituzionale" (sentenza n. 28 del 1995), e così alla condizione che sussista la possibilità di assicurare al familiare, con cui si opera il ricongiungimento, condizioni di vita che consentano un'esistenza libera e dignitosa. In tal senso, com'è noto, provvede proprio l'art. 4 della legge n. 943 del 1986, che subordina il diritto al ricongiungimento alla condizione che lo straniero residente legalmente in Italia sia in grado di assicurare al familiare "normali condizioni di vita". Nel caso in cui il ricongiungimento riguardi il genitore straniero di figlio minore legalmente residente in Italia, la medesima condizione potrà essere assolta sia attraverso le disponibilità economiche dell'altro genitore, sia attraverso le eventuali disponibilità economiche di cui possa godere il medesimo genitore straniero che chiede di ricongiungersi al figlio minore.
6. - Restano assorbiti gli altri profili della questione sollevata.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 4, comma 1, della legge 30 dicembre 1986, n. 943 (Norme in materia di collocamento e di trattamento dei lavoratori extracomunitari immigrati e contro le immigrazioni clandestine), nella parte in cui non prevede, a favore del genitore straniero extracomunitario, il diritto al soggiorno in Italia, sempreché possa godere di normali condizioni di vita, per ricongiungersi al figlio, considerato minore secondo la legislazione italiana, legalmente residente e convivente in Italia con l'altro genitore, ancorché non unito al primo in matrimonio.
(...)
Sentenza n. 127 del 1997 (GRANATA; MIRABELLI)
(...)
Considerato in diritto
1. -- La questione di legittimità costituzionale investe la disciplina della integrazione al minimo del trattamento pensionistico, che prevede, se il titolare della pensione è coniugato e non legalmente ed effettivamente separato, che l'integrazione non spetta a chi possegga redditi propri o cumulati con quelli del coniuge per un importo superiore da tre a cinque volte, a seconda delle disposizioni che si sono succedute nel tempo, il trattamento minimo.
Il Pretore di Genova denuncia il combinato disposto: dell'art. 6, primo comma, lettera b), del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463 (Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica amministrazione e proroga di taluni termini), convertito, con modificazioni, nella legge 11 novembre 1983, n. 638; dell'art. 4, comma 1, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell'art. 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), come modificato dall'art. 11, comma 38, della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (Interventi correttivi di finanza pubblica), e dall'art. 2, comma 14, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare); dell'art. 3, comma 1, lettera s), della legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale), nella parte in cui dà rilievo, ai fini dell'attribuzione dell'integrazione della pensione al trattamento minimo, al reddito del coniuge dell'assicurato. Il giudice rimettente ritiene che tener conto dei redditi del coniuge, oltre che dei redditi propri del titolare di pensione diretta, sia in contrasto con gli artt. 36, primo comma, 38, secondo comma, 3 e 31, primo comma, della Costituzione, giacché:
a) l'importo della pensione dovrebbe essere proporzionato alla qualità e quantità del lavoro prestato ed assicurare mezzi adeguati alle condizioni di vita del lavoratore; l'integrazione al trattamento minimo, avendo natura previdenziale, dovrebbe considerare il singolo lavoratore e non essere condizionata da redditi di altri componenti della famiglia, rilevanti solo per l'erogazione di prestazioni assistenziali;
b) si determinerebbe una palese irrazionalità ed una ingiustificata disparità di trattamento tra titolari di pensione diretta con identica situazione contributiva, a seconda che siano o meno coniugati; sotto altro profilo, ignorare i redditi dell'intero nucleo familiare, in relazione al numero di persone che lo compongono, lederebbe il principio di eguaglianza;
c) non verrebbe agevolata la formazione della famiglia, mentre sarebbero incoraggiate le separazioni tra coniugi e le famiglie di fatto.
(...)
7. -- La questione di legittimità costituzionale non è fondata neppure in riferimento all'art. 31, primo comma, della Costituzione, il quale, secondo l'ordinanza di rimessione, sarebbe violato dal cumulo dei redditi propri del titolare della pensione e del coniuge ai fini della integrazione al trattamento minimo, che non agevolerebbe la formazione della famiglia ma incoraggerebbe le famiglie di fatto e la separazione tra coniugi.
Riconoscendo i diritti della famiglia fondata sul matrimonio, la Costituzione impegna ad agevolarne la formazione e l'adempimento dei compiti (rispettivamente artt. 29, primo comma, e 31, primo comma, Cost.), con misure in ordine alle quali si dispiega la valutazione discrezionale del legislatore (v. sentenze n. 1067 del 1988 e n. 81 del 1966).
Il principio di favore e di sostegno per la famiglia non è contraddetto quando, nell'esercizio di tale discrezionalità, il legislatore condiziona l'attribuzione di una prestazione solidaristica, quale è l'integrazione della pensione al trattamento minimo, ai redditi non solo del titolare della pensione ma anche del coniuge, purché l'importo dei redditi cumulati che escludono l'integrazione sia ragionevolmente determinato in misura adeguatamente superiore a quello dei redditi propri del pensionato che determinano analoga esclusione.
Non si può, infine, ritenere di minore favore per la famiglia il cumulo dei redditi dei coniugi, non legalmente ed effettivamente separati, ai fini dell'integrazione al minimo, cumulo che non opera in caso di convivenza di fatto o di separazione coniugale. Difatti la mancanza o il diverso atteggiarsi dell'obbligo giuridico di assistenza diversifica le altre situazioni considerate dal giudice rimettente dalla condizione della famiglia legittima e non ne consente il raffronto (sentenze n. 75 del 1991 e n. 644 del 1988), giacché solo il rapporto coniugale è caratterizzato da stabilità e certezza e dalla reciprocità e corrispettività di diritti e doveri che nascono dal matrimonio (sentenza n. 8 del 1996).
(...)
Sentenza n. 8 del 1996 (FERRI; ZAGREBELSKY) La distinta considerazione costituzionale della convivenza e del rapporto coniugale, come tali, non esclude la comparabilità delle discipline riguardanti aspetti particolari dell'una e dell'altro che possano presentare analogie, ai fini del controllo di ragionevolezza a norma dell'art. 3 della Costituzione: ma sotto questo profilo non può essere accolta la questione che mira, come risultato, ad una decisione additiva che eccede i poteri della Corte costituzionale a danno di quelli riservati al legislatore.
La Corte costituzionale (...) ha pronunciato la seguente sentenza nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 384, 378 e 307 del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 16 febbraio 1995 dal Tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di Brussolo Anna Maria, iscritta al n. 249 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 19, prima serie speciale, dell'anno 1995.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 22 novembre 1995 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky.
Ritenuto in fatto
1.- Il Tribunale di Torino ha sollevato, con ordinanza del 16 febbraio 1995, questione di legittimità costituzionale degli artt. 384, 378 e 307 del codice penale "nella parte in cui non prevedono che la causa di non punibilità prevista a favore dei prossimi congiunti sia estesa al convivente more uxorio", in riferimento agli articoli 3, primo comma, e 29 della Costituzione.
Il giudizio penale a quo riguarda, tra l'altro, un'imputata di reato di favoreggiamento personale in favore del convivente; la questione, osserva il Tribunale, è dunque rilevante: l'imputata non può giovarsi della causa di non punibilità stabilita nell'art. 384, primo comma, del codice penale, che esonera dalla pena per diversi illeciti, tra cui appunto il favoreggiamento personale, chi sia costretto al fatto-reato dalla necessità di salvare un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore, giacché, agli effetti della legge penale, l'art. 307, quarto comma, dello stesso codice fornisce una indicazione tassativa dei "prossimi congiunti", ricomprendendovi il coniuge ma non anche il convivente di fatto.
2.- Posto che la "ratio dell'esimente di cui all'art. 384 va individuata nell'esistenza di un profondo vincolo affettivo, coltivato quotidianamente, e non certo nella sanzione legale di tale vincolo", il giudice a quo ritiene che l'esclusione del convivente dall'ambito di applicazione della speciale causa di non punibilità non sia giustificata, perché la situazione della convivenza in nulla si distingue da quella del coniugio se non per la mancanza, appunto, di una "sanzione legale" del vincolo; la relazione coniugale, infatti, si fonda su taluni elementi essenziali, rappresentati da un legame affettivo stabile, con disponibilità reciproca ai rapporti sessuali, e da una base di reciproca assistenza e solidarietà, elementi questi che danno fondamento anche al rapporto di convivenza, improntato pure esso ai principi della "società naturale" cui ha riguardo l'art. 29 della Costituzione. D'altra parte, un consolidato rapporto di fatto non può dirsi costituzionalmente irrilevante, specialmente alla luce della crescente diffusione sociale del fenomeno, come è stato riconosciuto anche nella giurisprudenza della Corte costituzionale con riguardo al rilievo delle formazioni sociali (art. 2 della Costituzione).
Se quindi relazione matrimoniale e convivenza di fatto rivestono identiche connotazioni, la diversa disciplina delle rispettive "garanzie" comporta una violazione del principio di eguaglianza.
"Non si ignora" - prosegue il rimettente - che la Corte ha già affrontato e risolto in senso negativo la questione, con la sentenza n. 237 del 1986 e con l'ordinanza n. 352 del 1989; ma, rispetto all'emanazione di quelle pronunce, il quadro normativo è mutato. Il nuovo codice di procedura penale, infatti, stabilisce, nell'art. 199, comma 3, lettera a), il rilievo della relazione - attuale o anche pregressa - di convivenza di fatto sul piano della facoltà di astenersi dal testimoniare (limitatamente ai fatti verificatisi o appresi dall'imputato durante la convivenza). Questa previsione, che implica il relativo avviso da parte del giudice circa la facoltà di avvalersene (assistito dalla sanzione di nullità dell'atto, in caso di omissione), comporta altresì effetti sul piano sostanziale: l'art. 384, secondo comma, del codice penale esclude la punibilità per i reati di falsa testimonianza e false informazioni al pubblico ministero in caso di omesso avviso, da parte del giudice, della facoltà di astenersi dal rendere la testimonianza o le informazioni.
La citata nuova previsione processuale enuclea, ad avviso del giudice a quo, un ulteriore profilo di "incongruenza" e di disparità di trattamento a svantaggio della posizione del convivente imputato di favoreggiamento personale, rispetto all'imputato di falsa testimonianza o di false informazioni al pubblico ministero. Se è infatti vero che diversa è l'obiettività giuridica dei reati di favoreggiamento e di falsa testimonianza, perché quest'ultima tutela la giusta definizione del processo, mentre il primo tutela le investigazioni anche pre-processuali, questa differenza risulta ben più "sfumata" quando il raffronto sia istituito tra favoreggiamento (a mezzo dichiarazioni alla polizia giudiziaria) e reato di false informazioni al pubblico ministero, essendosi in tutti e due i casi in presenza di dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari.
Osserva il Tribunale che tutte le ipotesi riconducibili all'art. 384 del codice penale si fondano, oltre che sul principio nemo tenetur se detegere, sul riconoscimento della forza degli affetti e dei legami di solidarietà familiare, che si basano sulle caratteristiche proprie di quei vincoli interpersonali e non sull'esistenza dell'atto di matrimonio; questa stessa ratio ha trovato emersione, sia pure parziale, nella richiamata disposizione del nuovo codice di procedura penale dalla cui applicazione, peraltro, discende - conclude il rimettente - un ulteriore sostegno alla fondatezza della questione, per la ingiustificata disparità di trattamento che al medesimo soggetto (convivente di fatto) viene accordata a seconda che si abbia riguardo alle dichiarazioni da lui rese alla polizia giudiziaria - come è nel caso del processo a quo - ovvero a quelle rese al pubblico ministero, essendo ricomprese queste ultime e non le prime nell'ambito di applicabilità dell'art. 384, secondo comma, del codice penale, in virtù della detta regola processuale.
3.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato.
L'Avvocatura ricorda i precedenti della Corte costituzionale (sentenza n. 237 del 1986 e ordinanza n. 352 del 1989) che avevano escluso il contrasto con la Costituzione della normativa impugnata, anche con riguardo all'art. 2 della Costituzione, affermando che la eventuale parificazione della convivenza al coniugio è compito, articolato e complesso, proprio del legislatore. Questo quadro non può dirsi ora cambiato solo in virtù dell'intervento, specifico e mirato, sulla facoltà di astensione del convivente di fatto dal rendere testimonianza, sia pure con riverberi sulla punibilità del testimone assunto senza osservare le regole; l'accennato intervento è indice di una scelta selettiva e ragionevole del legislatore, mentre la parificazione generalizzata delle situazioni poste a raffronto dal Tribunale propone una richiesta additiva in materia penale, che contrasta con gli enunciati delle decisioni già citate.
L'interveniente conclude quindi per una declaratoria di non fondatezza della questione.
Considerato in diritto
1.- Il Tribunale di Torino ritiene incostituzionale la mancata estensione al convivente della causa di non punibilità prevista nel caso di favoreggiamento personale quando il fatto sia stato commesso essendo costretti dalla necessità di salvare il coniuge da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore. In effetti, l'art. 384, primo comma, del codice penale prevede la menzionata causa di non punibilità per una serie di delitti contro l'amministrazione della giustizia, tra i quali il favoreggiamento personale di cui all'art. 378 del medesimo codice, quando essi siano stati commessi, nelle condizioni sopra dette di necessità, a favore di un "prossimo congiunto" e questa nozione è determinata in generale, ai fini della legge penale, dall'art. 307, quarto comma, del codice penale, con una definizione che include il coniuge ma esclude il convivente. Da questa mancata equiparazione del convivente al coniuge, la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 384, 378 e 307, quarto comma, del codice penale, per violazione degli articoli 3, primo comma, e 29 della Costituzione.
La sollevata questione non può essere accolta in riferimento ad alcuno dei parametri invocati, per i concorrenti motivi di infondatezza e di inammissibilità esposti qui di seguito.
2.- Per quanto attiene alla censura sollevata in riferimento all'art. 29 della Costituzione, a ragione l'ordinanza del Tribunale rimettente sottolinea la notevole diffusione della convivenza di fatto, quale rapporto tra uomo e donna ormai entrato nell'uso e comunemente accettato, accanto a quello fondato sul vincolo coniugale. Ma questa trasformazione della coscienza e dei costumi sociali, cui la giurisprudenza di questa Corte non è indifferente, non autorizza peraltro la perdita dei contorni caratteristici delle due figure in una visione unificante come quella che risulta dalla radicale ed eccessiva affermazione, contenuta nell'ordinanza di rimessione, secondo la quale la convivenza di fatto rivestirebbe oggettivamente connotazioni identiche a quelle che scaturiscono dal rapporto matrimoniale e dunque le due situazioni in nulla differirebbero, se non per il dato estrinseco della sanzione formale del vincolo. Questa Corte, al contrario, in diverse decisioni il cui orientamento non può che essere qui confermato (sentenze nn. 310 del 1989, 423 e 404 del 1988 e 45 del 1980), ha posto in luce la netta diversità della convivenza di fatto, "fondata sull'affectio quotidiana - liberamente e in ogni istante revocabile - di ciascuna delle parti" rispetto al rapporto coniugale, caratterizzato da "stabilità e certezza e dalla reciprocità e corrispettività di diritti e doveri ... che nascono soltanto dal matrimonio".
Ma ciò che nel giudizio di legittimità costituzionale più conta è che la Costituzione stessa ha dato delle due situazioni una valutazione differenziatrice.
Tale valutazione esclude l'ammissibilità, secondo un punto di vista giuridico-costituzionale, di affermazioni omologanti, del tipo di quella sopra riferita. Questa Corte, nella sentenza n. 237 del 1986 - che costituisce precedente specifico per la decisione della questione in esame -, riconosciuta la rilevanza costituzionale del "consolidato rapporto" di convivenza, ancorché rapporto di fatto, lo ha tuttavia distinto dal rapporto coniugale, secondo quanto impongono il dettato della Costituzione e gli orientamenti emergenti dai lavori preparatori. Conseguentemente, ha ricondotto il primo all'ambito della protezione, offerta dall'art. 2, dei diritti inviolabili dell'uomo nelle formazioni sociali e il secondo a quello dell'art. 29 della Costituzione. Tenendo distinta l'una dall'altra forma di vita comune tra uomo e donna, si rende possibile riconoscere a entrambe la loro propria specifica dignità; si evita di configurare la convivenza come forma minore del rapporto coniugale, riprovata o appena tollerata e non si innesca alcuna impropria "rincorsa" verso la disciplina del matrimonio da parte di coloro che abbiano scelto di liberamente convivere. Soprattutto si pongono le premesse per una considerazione giuridica dei rapporti personali e patrimoniali di coppia nelle due diverse situazioni, considerazione la quale - fermi in ogni caso i doveri e i diritti che ne derivano verso i figli e i terzi - tenga presente e quindi rispetti il maggior spazio da riconoscersi, nella convivenza, alla soggettività individuale dei conviventi; e viceversa dia, nel rapporto di coniugio, maggior rilievo alle esigenze obiettive della famiglia come tale, cioè come stabile istituzione sovraindividuale.
Questa valutazione costituzionale del rapporto di convivenza rispetto al vincolo coniugale non può essere contraddetta da opposte visioni dell'interprete. I punti di vista di principio assunti dalla Costituzione valgono innanzitutto come criteri vincolanti di comprensione e classificazione, e quindi di assimilazione o differenziazione dei fatti sociali giuridicamente rilevanti.
La pretesa equiparazione della convivenza di fatto al rapporto di coniugio, nel segno della riconduzione di tutte e due le situazioni sotto la medesima protezione dell'art. 29 della Costituzione, risulta così infondata.
3.- La distinta considerazione costituzionale della convivenza e del rapporto coniugale, come tali, non esclude affatto, tuttavia, la comparabilità delle discipline riguardanti aspetti particolari dell'una e dell'altro che possano presentare analogie, ai fini del controllo di ragionevolezza a norma dell'invocato art. 3 della Costituzione: un controllo, già in passato esercitato numerose volte dalla Corte costituzionale, il quale, senza intaccare l'essenziale diversità delle due situazioni, ha tuttavia condotto talora a censurare l'ingiustificata disparità di trattamento (a danno ora della famiglia di fatto, ora della famiglia legittima) delle analoghe condizioni di vita che derivano dalla convivenza e dal coniugio (sentenze nn. 559 del 1989, 404 del 1988 e 179 del 1976).
Nella prospettiva della ragionevolezza delle determinazioni legislative, il Tribunale rimettente fonda la sua richiesta sulla ratio comune alle cause di non punibilità previste dall'art. 384 del codice penale - in riferimento a ciascuno dei titoli di reato ivi elencati - a favore dei prossimi congiunti, ratio di tutela del legame di solidarietà tra i componenti il nucleo familiare e del sentimento che li unisce. Poiché tale sentimento e tale legame possono valere con la stessa intensità tanto per i componenti della famiglia legittima quanto per quelli della famiglia di fatto, non vi sarebbe alcun ragionevole motivo - ad avviso del Tribunale rimettente - per discriminare questi ultimi dalla protezione accordata ai primi.
Ma neppure sotto questo profilo - che pur si basa innegabilmente su un dato di fatto incontestabile - la questione può essere accolta. Essa infatti mira, come risultato, a una decisione additiva che manifestamente eccede i poteri della Corte costituzionale a danno di quelli riservati al legislatore.
Innanzitutto, l'estensione di cause di non punibilità, le quali costituiscono altrettante deroghe a norme penali generali, comporta strutturalmente un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra ragioni diverse e confliggenti, in primo luogo quelle che sorreggono la norma generale e quelle che viceversa sorreggono la norma derogatoria: un giudizio che è da riconoscersi ed è stato riconosciuto da questa Corte appartenere primariamente al legislatore (sentenze nn. 385, 267 e 32 del 1992, quest'ultima in tema di cause di improcedibilità; n. 1063 del 1988; ordinanza n. 475 del 1987; sentenza n. 241 del 1983).
Nel caso di specie, si tratterebbe di mettere a confronto l'esigenza della repressione di delitti contro l'amministrazione della giustizia, e quindi la garanzia di efficacia della funzione giudiziaria penale, da un lato, e la tutela di beni afferenti la vita familiare, dall'altro. Ma non è detto che i beni di quest'ultima natura debbano avere esattamente lo stesso peso, a seconda che si tratti della famiglia di fatto e della famiglia legittima. Per la famiglia legittima, non esiste soltanto un'esigenza di tutela delle relazioni affettive individuali e dei rapporti di solidarietà personali. A questa esigenza, può sommarsi quella di tutela dell'istituzione familiare come tale, di cui elemento essenziale e caratterizzante è la stabilità, un bene che i coniugi ricercano attraverso il matrimonio, mentre i conviventi affidano al solo loro impegno bilaterale quotidiano. Posto che la posizione del convivente meriti riconoscimento, essa non necessariamente deve dunque coincidere con quella del coniuge dal punto di vista della protezione dei vincoli affettivi e solidaristici. Ciò legittima, nel settore dell'ordinamento penale che qui interessa, soluzioni legislative differenziate, della cui possibile varietà dà abbondante dimostrazione la comparazione tra le legislazioni di numerosi Paesi.
In più, un'eventuale dichiarazione di incostituzionalità che assumesse in ipotesi la pretesa identità della posizione spirituale del convivente e del coniuge, rispetto all'altro convivente o all'altro coniuge, oltre a rappresentare la premessa di quella totale equiparazione delle due situazioni che - come si è detto - non corrisponde alla visione fatta propria dalla Costituzione, determinerebbe ricadute normative conseguenziali di portata generale che trascendono l'ambito del giudizio incidentale di legittimità costituzionale.
Non ci sarebbe motivo, infatti, per limitare l'equiparazione del convivente al coniuge, nell'ambito del primo comma dell'art. 384 del codice penale, al solo caso del favoreggiamento personale, anche perché una tale limitazione determinerebbe di per sé ulteriori problemi di costituzionalità, sotto il profilo dell'irrazionalità, all'interno delle stesse fattispecie previste dal medesimo articolo. Ma soprattutto si dovrebbe aprire il problema dell'equiparazione in tutti gli altri numerosi casi di previsioni legislative, talora anche in malam partem (ad es. articoli 570, 577, ultimo comma, 605 del codice penale), che danno rilievo, ai più diversi fini e nei più diversi campi del diritto, all'esistenza di rapporti di comunanza di vita di tipo familiare.
Sotto il profilo dell'irragionevolezza, la dedotta questione di costituzionalità è dunque inammissibile.
4.- Le sopra esposte ragioni di infondatezza e di inammissibilità conducono così a confermare gli orientamenti espressi nella precedente sentenza n. 237 del 1986 di questa Corte. Senonché, il Tribunale rimettente rileva la novità dell'ordine normativo nel quale la questione ora riproposta viene a collocarsi. Tale novità è rappresentata dalla norma del vigente codice di procedura penale (art. 199) che estende la facoltà di astensione dal prestare testimonianza (facoltà cui corrisponde il dovere del giudice, a pena di nullità, di darne avviso all'interessato), dai prossimi congiunti (comma 1) a chi (comma 3, lettera a)), "pur non essendo coniuge dell'imputato, come tale conviva o abbia convissuto con esso...", sia pure limitatamente ai fatti verificatisi o appresi dall'imputato durante la convivenza: una disciplina applicabile altresì alle informazioni assunte da parte del pubblico ministero nelle indagini preliminari (art. 362 del codice di procedura penale, come novellato dall'art. 5 del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito in legge 7 agosto 1992, n. 356) e alle sommarie informazioni assunte a iniziativa della polizia giudiziaria (art. 351, comma 1, del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 4 della predetta novella). Da tale nuova disciplina processuale, che prevede dunque un'ampia, anche se non totale, assimilazione del convivente al coniuge rispetto alle dichiarazioni rese all'autorità, discendono poi conseguenze sostanziali per entrambi. L'art. 384, secondo comma, del codice penale prevede una causa di non punibilità relativamente ai reati di falsa testimonianza (art. 372 cod. pen.) e di false informazioni al pubblico ministero (art. 371-bis cod. pen.) - ma non anche relativamente alle false dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria: comportamento non previsto come reato specifico ma suscettibile di integrare, in presenza degli altri elementi previsti dalla legge, la fattispecie del favoreggiamento personale - quando il soggetto richiesto di fornire informazioni o assunto come teste avrebbe dovuto essere avvertito della sua facoltà di astenersi; ipotesi, quest'ultima, che oggi, a causa della suddetta estensione operata dall'art. 199 del nuovo codice di procedura penale, riguarda, oltre che il coniuge, anche il convivente.
Dalla descritta evoluzione dell'ordinamento nel senso dell'avvicinamento della posizione del convivente a quella del coniuge rispetto alla facoltà di astensione, nonché rispetto all'obbligo del relativo avviso e alla causa di non punibilità prevista nel caso di omesso avviso, il Tribunale rimettente trae ragione per ribadire l'incongruenza della disciplina riguardante le dichiarazioni rese dal convivente in sede di sommarie informazioni assunte a iniziativa della polizia giudiziaria. Il fatto materiale, infatti, potrebbe essere il medesimo, consistendo in false dichiarazioni, dichiarazioni rilevanti però a titolo di favoreggiamento personale davanti alla polizia giudiziaria e a titolo di false informazioni o di falsa testimonianza davanti al pubblico ministero o al giudice. Ma solo in questi due ultimi casi e non nel primo valendo la causa di non punibilità prevista dal secondo comma dell'art. 384 del codice penale, analogo comportamento - le false dichiarazioni nel caso di omesso avviso della facoltà di astensione - può andare esente da pena se tenuto davanti al pubblico ministero o al giudice, ma non se tenuto davanti alla polizia giudiziaria, pur nell'identità delle norme processuali presupposte.
Affinché tali rilievi critici del giudice rimettente, in ordine all'accennato motivo di irrazionalità della normativa vigente, possano avere accesso all'esame di questa Corte, dovrebbero tuttavia essere formulati nell'ambito di una questione di costituzionalità essenzialmente diversa da quella presente, l'ipotizzata discriminazione concernendo non più soggetti distinti (il coniuge e il convivente) ma il medesimo soggetto (nella specie: un convivente), a seconda dell'autorità ricevente le sue dichiarazioni, e riguardando una diversa causa di non punibilità: non quella prevista nel primo, ma quella apprestata dal secondo comma dell'art. 384 del codice penale. Pertanto, se tale era l'intento del giudice rimettente, la via non poteva certo essere quella effettivamente percorsa della richiesta equiparazione del convivente al coniuge sotto il profilo del primo comma dell'art. 384 del codice penale: una via, oltre che infondata e inammissibile per i motivi predetti, anche artificiosa.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 384, primo comma, 378 e 307, quarto comma, del codice penale, sollevata, in riferimento all'art. 3, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Torino, con l'ordinanza indicata in epigrafe;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 384, primo comma, 378 e 307, quarto comma, del codice penale, sollevata, in riferimento all'art. 29 della Costituzione, dal Tribunale di Torino con la medesima ordinanza.
(...)
Sentenza n. 281 del 1994 (CASAVOLA; SANTOSUOSSO) Pur considerando il sempre maggior rilievo assunto dalla convivenza nel costume sociale e la funzione che essa potrebbe assumere al fine di comprovare la solidità del vincolo dei coniugi, nell'interesse del minore, una nuova soluzione normativa, in base alla quale, eventualmente, potrebbe richiedersi agli adottanti una durata inferiore del matrimonio, ma un consistente periodo di convivenza precedente, comporterebbe inevitabilmente la necessità di definire i criteri oggettivi svolgenti l'analoga funzione del triennio post-matrimoniale, i quali, tuttavia, per la complessità delle scelte da attuare mediante l'interpretazione dei diversi elementi e valori di una società in continua evoluzione, possono essere ricercati nelle sole competenze del legislatore.
La Corte costituzionale (...) ha pronunciato la seguente sentenza nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 6, primo comma, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Disciplina dell'adozione e dell'affidamento dei minori), promosso con ordinanza emessa l'11 gennaio 1993 dal Tribunale per i minorenni di Genova sull'istanza proposta da Parodi Roberto ed altra, iscritta al n. 130 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell'anno 1993.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 9 febbraio 1994 il Giudice relatore Fernando Santosuosso.
Ritenuto in fatto
1. - Chiamato a giudicare sull'ammissibilità della domanda di adozione nazionale ed internazionale presentata in data 30 maggio 1992 dai coniugi Roberto Giovanni Parodi e Anna Laura Burattini, il Tribunale per i minorenni di Genova ha sollevato, con ordinanza emessa l'11 gennaio 1993, questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, primo comma, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Disciplina dell'adozione e dell'affidamento dei minori), in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione.
In fatto, rileva il Tribunale che i coniugi istanti, regolarmente coniugati dal giorno 26 marzo 1992, non possono aver accolta la domanda de qua, richiedendo la disposizione impugnata un minimo di tre anni di matrimonio.
Il giudice a quo rileva tuttavia che il Parodi e la Burattini deducono di essere conviventi dal 17 marzo 1982, come risultante dai certificati di convivenza e di residenza storici allegati all'istanza. Poiché l'art. 6 della legge prevede come condizione per l'idoneità degli adottanti la durata triennale post-matrimoniale e non della convivenza, il Tribunale solleva la suddetta questione di costituzionalità, nella parte in cui la disposizione impugnata "non consente di dare rilevanza, nei confronti dei coniugi uniti in matrimonio, alla durata della pregressa stabile e prolungata convivenza more uxorio comprovata dalle acquisizioni documentali".
A parere del giudice a quo, la norma si porrebbe in contrasto con l'art. 2 della Costituzione, in quanto detta disposizione non tutela sufficientemente la famiglia di fatto come formazione sociale, e con l'art. 3 della Costituzione, in quanto verrebbero disciplinate in modo diverso le coppie che, accomunate dal fatto di essere unite in matrimonio, dovrebbero ricevere analoga forma di tutela anche relativamente alla materia delle procedure adozionali. Rileva infatti il giudice a quo che, pur dovendosi riconoscere diversità tra la famiglia di fatto e quella legittima, appare tuttavia irragionevole un trattamento differenziato tra una coppia di coniugi unita in matrimonio da due mesi, e tuttavia forte di una convivenza more uxorio protrattasi senza interruzione per dieci anni, ed una coppia di coniugi che al momento della presentazione della domanda al Tribunale possano vantare esclusivamente il requisito del richiesto triennio matrimoniale.
2. - E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l'infondatezza della questione sotto entrambi i profili prospettati dall'ordinanza di rimessione.
In relazione al presunto contrasto con l'art. 2 della Costituzione, osserva la difesa erariale che, sebbene sia da riconoscere alla famiglia di fatto la dignità di formazione sociale, è viceversa da escludersi la configurabilità di un diritto (inviolabile) dei richiedenti ad ottenere un provvedimento positivo di adozione, essendo tale istituto finalizzato principalmente ad assicurare la più conveniente forma di assistenza ai minori abbandonati. Quanto alla ritenuta violazione dell'art. 3 della Costituzione, la difesa erariale rileva la non equiparabilità tra famiglia di fatto e famiglia legittima, essendo indubitabile che la Costituzione, pur non negando qualche considerazione per forme naturali di rapporto di coppia diverse dalla struttura giuridica del matrimonio, riconosce una dignità superiore alla famiglia legittima.
In merito infine al rilievo mosso dal giudice a quo circa la razionalità della disposizione impugnata, osserva l'Avvocatura dello Stato che il requisito della durata almeno triennale del rapporto matrimoniale non è richiesto solo come garanzia di stabilità, ma anche "come garanzia che il comune progetto di disponibilità all'adozione nasca anche in relazione all'esperienza maturata per un dato tempo in ordine al fatto primario della filiazione secondo natura in costanza di matrimonio".
E' per questo che l'istituto è stato modellato dal legislatore in forma quanto più possibile vicina alla struttura di una famiglia regolare, sulla base del principio della imitatio naturae: ed il termine di tre anni rappresenta pertanto il periodo minimo durante il quale il progetto di famiglia formulato in comune dai coniugi può maturare anche a seguito dell'esperienza avuta ed ai propositi di vivere stabilmente insieme in un nucleo vincolato dal diritto.
Considerato in diritto
1. - Il Tribunale per i minorenni di Genova dubita della legittimità costituzionale dell'art. 6, primo comma, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Disciplina dell'adozione e dell'affidamento dei minori) nella parte in cui dispone che ai fini dell'idoneità ad adottare gli aspiranti siano uniti in matrimonio da almeno tre anni. A parere del giudice a quo, si ravviserebbe un contrasto con l'art. 2 della Costituzione, per violazione della tutela che deve riconoscersi alla famiglia di fatto come formazione sociale, e con l'art. 3, per disparità di trattamento e irragionevolezza, posto che la tenuta di coppia dei coniugi da poco tempo sposati, ma conviventi da dieci anni, appare superiore a quella offerta da coniugi uniti in matrimonio da un triennio.
2. - Va premesso che la Convenzione in materia di adozione dei minori, firmata a Strasburgo il 24 aprile 1967 (alla quale l'Italia ha dato esecuzione con legge 22 maggio 1974, n. 357) stabilisce che quando sia una coppia a far domanda di adozione, essa sia unita in matrimonio (art. 6), e che compito delle autorità competenti è di provvedere "a che l'adozione procuri al minore un ambiente familiare stabile ed armonioso" (art. 8).
La norma della legge italiana n. 184 del 1983 recepisce tale indicazione, ed è coerente col principio, riconosciuto da questa Corte (sentenze n. 89 del 1993; n. 310 del 1989; n. 404 del 1988; nn. 198 e 237 del 1986; n. 11 del 1981; n. 45 del 1980), secondo cui l'istituto dell'adozione è finalizzato alla tutela prevalente dell'interesse del minore. Tale principio comporta, fra l'altro, che, ai fini della complessa opera di selezione dei soggetti idonei a svolgere il delicatissimo compito di educare ed accogliere un bambino abbandonato, costituisce criterio fondamentale quello che la doppia figura genitoriale sia unita dal "vincolo giuridico che garantisce stabilità, certezza, reciprocità e corrispettività di diritti e doveri del nucleo in cui il minore sarà accolto" (sentenza n. 310 del 1989).
Il giudice a quo non pone in discussione sul punto la scelta adottata dal legislatore italiano, che, al pari di numerosi legislatori europei, intende il matrimonio, a tal fine, non solo come "atto costitutivo" ma anche come "rapporto giuridico", vale a dire come vincolo rafforzato da un periodo di esperienza matrimoniale, in cui sia perdurante la volontà di vivere insieme in un nucleo caratterizzato da diritti e doveri. Né l'ordinanza di rimessione lamenta che il criterio dei tre anni successivi alle nozze si configuri come requisito minimo presuntivo a dimostrazione della stabilità del rapporto matrimoniale, giustificato dall'esigenza di rafforzare il delicato compito del Tribunale nella scelta delle coppie più idonee all'adozione, con la precisazione legale di criteri il più possibile obiettivi ed uniformi.
3. - Il giudice a quo pone invece una diversa questione di legittimità costituzionale, legata alla prospettazione sulla fungibilità al triennio post-matrimoniale di un uguale o superiore periodo - anteriore al matrimonio - di convivenza more uxorio: dubita infatti il giudice rimettente che l'esclusione di tale fungibilità ponga la disposizione in contrasto con gli artt. 2 e 3 della Costituzione.
In relazione al primo parametro invocato la questione è infondata.
Non si può invero ravvisare la violazione dell'art. 2 della Costituzione, atteso che, da un lato, l'aspirazione dei singoli ad adottare non può ricomprendersi tra i diritti inviolabili dell'uomo, e, dall'altro, che anche qualificando la famiglia di fatto come formazione sociale, non per questo deriverebbe che alla stessa sia riconosciuto il diritto all'adozione, come previsto per la famiglia fondata sul matrimonio (art. 29 della Costituzione: cfr. sentenza n. 310 del 1989, n. 404 del 1988, n. 237 del 1986).
La questione è invece inammissibile in ordine alla denunziata violazione dell'art. 3 della Costituzione. Al riguardo il giudice a quo rileva che, se "lo scopo della norma è quello di poter fare affidamento su potenziali genitori forti di un rapporto di coppia già sperimentato come stabile", la tenuta della coppia sposata da poco tempo, ma garantita da un lungo periodo precedente di convivenza potrebbe risultare "superiore a quella offerta da coniugi uniti in matrimonio da più di tre, cinque o sette anni". Di qui la doglianza di discriminazione irragionevole.
4. - In proposito questa Corte non può ignorare, per un verso, il sempre maggiore rilievo che, nel mutamento del costume sociale, sta acquistando la convivenza more uxorio, alla quale sono state collegate alcune conseguenze giuridiche (cfr. sentenza n. 404 del 1988). Né può per altro verso negarsi validità alla suggestiva considerazione che, proprio ai fini della tutela dell'interesse del minore, la solidità di una vita matrimoniale potrebbe risultare, oltre che da una convivenza successiva alle nozze protratta per alcuni anni, anche da un più lungo periodo, anteriore alle nozze, caratterizzato da una stabile e completa comunione materiale e spirituale di vita della coppia stessa, che assuma poi col matrimonio forza vincolante.
Pertanto, fermo restando questo primo e indeclinabile presupposto matrimoniale (con i diritti e doveri che ne conseguono), la scelta potrebbe, eventualmente, cadere anche su coniugi sposati da meno di tre anni, ma con una consistente convivenza more uxorio precedente alle nozze.
Tuttavia, affinché l'esercizio di questo potere di scelta sia garantito da una certa uniformità di ponderato comportamento su tutto il territorio nazionale, tale da evitare, nella delicata materia de qua, possibili disparità di trattamento tra adottandi o tra coniugi, occorrerebbe definire alcuni criteri oggettivi, svolgenti l'analoga funzione sopra ricordata del triennio di convivenza matrimoniale, in ordine - ad esempio - alla durata ed alle caratteristiche del rapporto, soprattutto affinché la convivenza non sia meramente occasionale, ma prodromica alla creazione di un "ambiente familiare stabile e armonioso" (cfr. anche sentenza n. 184 del 1994).
Ma ciò appartiene alla competenza del legislatore, cui spetta operare scelte così complesse attraverso una interpretazione combinata di diversi elementi e valori di una società in continua evoluzione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, primo comma, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Disciplina dell'adozione e dell'affidamento dei minori), sollevata, in riferimento all'art. 2 della Costituzione, dal Tribunale per i minorenni di Genova con l'ordinanza indicata in epigrafe;
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, primo comma, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Disciplina dell'adozione e dell'affidamento dei minori), sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Tribunale per i minorenni di Genova con l'ordinanza indicata in epigrafe.
(...)
Sentenza n. 559 del 1989 (SAJA; CASAVOLA) Contrasta con il principio di ragionevolezza - e viola altresì il diritto sociale all'abitazione, collocabile fra quelli inviolabili dell'uomo - la normativa regionale che, dopo aver stabilito, ai fini dell'accesso ai concorsi per l'assegnazione di alloggi di edilizia residenziale, l'appartenenza del convivente more uxorio e della prole naturale al nucleo familiare dell'assegnatario, esclude tuttavia il diritto del medesimo convivente affidatario dei figli a succedere nella posizione dell'assegnatario se questi - per il venir meno dell'affectio - abbandoni l'alloggio.
(...)
Considerato in diritto
1. - Il Pretore di Torino, con ordinanza del 18 marzo 1989 (R.O. n. 354 del 1989), solleva questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 21, primo comma, lett. b), e 18, primo e secondo comma, della legge della Regione Piemonte 10 dicembre 1984, n. 64 (Disciplina delle assegnazioni degli alloggi di edilizia residenziale pubblica ai sensi dell'art. 2, comma secondo, della legge 5 agosto 1978, n. 457, in attuazione della deliberazione C.I.P.E. pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 348 in data 19 dicembre 1981), in riferimento agli artt. 3 e 2 della Costituzione, nella parte in cui:
"a) limitano la possibilità di succedere nella assegnazione dell'immobile alle sole ipotesi di decesso dell'assegnatario ovvero di separazione, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio;
b) prevedono, in difetto di tali ipotesi, la decadenza dalla assegnazione;
c) non tutelano la posizione del convivente more uxorio, rimasto nell'immobile a seguito di abbandono del medesimo da parte dell'assegnatario, in particolar modo quando vi sia prole naturale affidata al convivente, rimasto nell'immobile, con decisione dell'organo competente".
2.-La questione è fondata, nei limiti di cui appresso.
Occorre preliminarmente negare l'utilizzabilità del tertium comparationis, prospettato dal giudice a quo, e che consisterebbe nell'art. 6 della legge n. 392 del 27 luglio 1978, nel testo risultante dalla sentenza interpretativa di accoglimento della Corte costituzionale n. 404 del 7 aprile 1988, vale a dire "nella parte in cui non prevede la successione nel contratto di locazione al conduttore che abbia cessato la convivenza, a favore del già convivente quando vi sia prole naturale".
La ipotesi di cui alla sentenza citata si inserisce nel contesto privatistico del rapporto contrattuale di locazione, laddove la questione sollevata è caratterizzata in termini pubblicistici e per la natura amministrativa del procedimento di assegnazione d'alloggio in regime di edilizia residenziale pubblica e per la qualità degli Enti Comune, I.A.C.P. e loro fini e funzioni.
Inoltre la successione al conduttore è là prevista quale esigenza di conservare il tetto nei limiti della consumazione della durata residua del contratto, mentre nel caso in questione si tratterebbe di successione nell'assegnazione dell'alloggio senza limiti temporali.
3. - Ha invece particolare considerazione ai fini del rinvenimento della ratio decidendi il duplice dato che il convivente della assegnataria, dichiarata decaduta per abbandono dell'alloggio, risulti rivestire la qualifica anagrafica di capofamiglia ed essere padre naturale nonché affidatario del minore, figlio riconosciuto della donna.
Trattasi di un nucleo familiare che la citata legge della Regione Piemonte 10 dicembre 1984, n. 64 prevede all'art. 2, comma terzo, per la esplicita menzione della prole naturale riconosciuta e del convivente more uxorio.
è contrario al principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 della Costituzione, che il legislatore regionale nel contesto della stessa legge non abbia esteso integralmente la previsione di cui all'art. 2, comma terzo, anche all'art. 18, commi primo e secondo, riconoscendo accanto alle ivi elencate cause di successione nella domanda e nella convenzione di assegnazione decesso, separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili del matrimonio anche la cessazione della convivenza. In tal caso l'abbandono dell'alloggio da parte del convivente non potrebbe valere come causa di decadenza dell'assegnazione perché non l'animus derelinquendi rispetto alla res ne qualificherebbe l'elemento soggettivo ma la cessazione della mutua affectio, che tocca l'abitazione solo strumentalmente come segno esteriore della conclusione della convivenza.
Pertanto resta esclusa dalla questione di costituzionalità la disciplina della decadenza di cui all'impugnato art. 21, primo comma, lett. b).
La ratio decidendi, alla luce dell'altro parametro invocato, l'art. 2 della Costituzione, si manifesta anche come esigenza di "garantire un fondamentale diritto sociale, quale quello all'abitazione (sentenza n. 217 del 1988)", riscontrabile nell'art. 25 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (New York, 10 dicembre 1948) e nell'art. 11 del Patto internazionale dei diritti economici sociali e culturali (approvato a New York il 16 dicembre 1966 dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite e ratificato dall'Italia il 15 settembre 1978, in seguito ad autorizzazione disposta con legge 25 ottobre 1977, n. 881).
Questa Corte ha già altra volta riconosciuto "indubbiamente doveroso da parte della collettività intera impedire che delle persone possano rimanere prive di abitazione", e ha individuato in tale dovere, cui corrisponde il diritto sociale all'abitazione, collocabile tra i diritti inviolabili dell'uomo di cui all'art. 2 della Costituzione, un connotato della forma costituzionale di Stato sociale (cfr. sentenze n. 404 del 1988 e n. 49 del 1987).
Il dovere collettivo di impedire che singole persone, e a maggior ragione se inserite in un nucleo familiare, come quello rappresentato dal genitore affidatario del figlio minore, restino prive di abitazione è tanto più cogente quando si rapporta ad un Ente esponenziale della collettività, quale il Comune, nella specifica competenza dell'assegnazione di alloggi in regime di edilizia residenziale pubblica.
Il provvedimento di affidamento al genitore naturale del figlio minore, pronunciato dal Tribunale per i minorenni di Torino, consente peraltro di richiamare per analogia iuris quanto statuito da questa Corte in tema di titolo ad abitare per il coniuge affidatario della prole (cfr. sentenza n. 454 del 1989).
Il diritto umano a non perdere il tetto sotto cui si è protratta la convivenza è dunque rafforzato dal munus a provvedere all'interesse morale e materiale della prole generata mediante la conservazione della compagine domestica nella stabilità della dimora.
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 18, primo e secondo comma, della legge della Regione Piemonte 10 dicembre 1984, n. 64 (Disciplina delle assegnazioni degli alloggi di edilizia residenziale pubblica ai sensi dell'art. 2, comma secondo, della legge 5 agosto 1978, n. 457, in attuazione della deliberazione C.I.P.E. pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 348 in data 19 dicembre 1981), nella parte in cui non prevede la cessazione della stabile convivenza come causa di successione nella assegnazione ovvero come presupposto della voltura della convenzione a favore del convivente affidatario della prole.
(...)
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Sentenza n. 310 del 1989 (SAJA; MENGONI) Il mancato riconoscimento della convivenza more uxorio come titolo di vocazione legittima all'eredità è conforme sia ai principi del diritto successorio sia alla natura stessa della suddetta convivenza. È compito del legislatore valutare il grado di meritevolezza della tutela dell'interesse del convivente more uxorio alla conservazione dell'alloggio in caso di morte del partner.
(...)
Considerato in diritto
1.-Sebbene accomuni le tre norme impugnate in un'unica questione di legittimità costituzionale, in realtà il giudice a quo solleva due questioni distinte:
la prima, in linea principale, impugna gli artt. 565 e 582 cod. civ. nella parte in cui non includono tra i successibili ab intestato, parificandolo al coniuge, il convivente more uxorio;
la seconda, in linea subordinata, impugna l'art. 540, secondo comma, in quanto non riserva al convivente, anche se escluso dal novero dei successibili a titolo di erede, almeno il diritto di abitazione sulla casa adibita a residenza della coppia, se di proprietà del defunto o comune.
Entrambe le questioni sono prospettate con riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione.
2. - La prima questione non è fondata.
Sotto il profilo del principio di eguaglianza la pretesa violazione dell'art. 3 è contraddetta dal rilievo, ripetutamente espresso da questa Corte, che "la situazione del convivente more uxorio è nettamente diversa da quella del coniuge" (sentenze n. 45 del 1980, n. 404 del 1988).
è vero che l'art. 29 Cost. non nega dignità a forme naturali del rapporto di coppia diverse dalla struttura giuridica del matrimonio, ma è altrettanto vero che riconosce alla famiglia legittima una dignità superiore, in ragione "dei caratteri di stabilità e certezza e della reciprocità e corrispettività di diritti e doveri, che nascono soltanto dal matrimonio".
Lo stesso giudice remittente, là dove fa "salve eventuali, future differenziazioni riservate al legislatore", ammette in definitiva che l'art. 3 non può essere invocato nella sua portata eguagliatrice.
Ma le norme in esame non meritano censura neppure sotto il profilo del principio di razionalità.
Il riconoscimento della convivenza more uxorio come titolo di vocazione legittima all'eredità, da un lato, contrasterebbe con le ragioni del diritto successorio, il quale esige che le categorie dei successibili siano individuate in base a rapporti giuridici certi e incontestabili (quali i rapporti di coniugio, di parentela legittima, di adozione, di filiazione naturale riconosciuta o dichiarata), dall'altro, per le conseguenze che comporterebbe nei rapporti tra i due partners (non solo l'obbligazione alimentare, ma anche qualcosa di simile all'obbligo di fedeltà), contraddirebbe alla stessa natura della convivenza, che è un rapporto di fatto per definizione rifuggente da qualificazioni giuridiche di diritti e obblighi reciproci.
Nemmeno può dirsi violato il principio di tutela delle formazioni sociali in cui si sviluppa la persona umana. Ammesso, come pure questa Corte ha ritenuto (sent. n. 237 del 1986), che l'art. 2 Cost. sia riferibile "anche alle convivenze di fatto, purché caratterizzate da un grado accertato di stabilità", ciò non implica la garanzia ai conviventi del diritto reciproco di successione mortis causa, il quale certo non appartiene ai diritti inviolabili dell'uomo, i soli presidiati dall'art. 2. In ordine alla famiglia naturale la discrezionalità lasciata al legislatore ordinario dall'art. 42, quarto comma, Cost. per la determinazione delle categorie dei successibili incontra soltanto il vincolo derivante dalla direttiva di equiparazione dei figli naturali ai figli legittimi nei rapporti con i genitori che li hanno riconosciuti o nei confronti dei quali la filiazione è stata dichiarata, sancita dall'art. 30, terzo comma.
3. - La seconda questione è inammissibile.
Il giudice a quo non ha considerato che i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano, attribuiti al coniuge dall'art. 540, secondo comma, cod. civ., sono oggetto di una vocazione a titolo particolare collegata alla vocazione (a titolo universale) a una quota di eredità, cioè presuppongono nel legatario la qualità di legittimario al quale la legge riserva una quota di eredità.
Tale collegamento, per cui i detti diritti formano un'appendice della legittima in quota, si spiega sul riflesso che oggetto della tutela dell'art. 540, se- condo comma, non è il bisogno dell'alloggio (che da questa norma riceve protezione solo in via indiretta ed eventuale), ma sono altri interessi di natura non patrimoniale, riconoscibili solo in connessione con la qualità di erede del coniuge, quali la conservazione della memoria del coniuge scomparso, il mantenimento del tenore di vita, delle relazioni sociali e degli status symbols goduti durante il matrimonio, con conseguente inapplicabilità, tra l'altro, dell'art. 1022 cod. civ., che regola l'ampiezza del diritto di abitazione in rapporto al bisogno dell'abitatore.
Pertanto il giudice remittente non chiede alla Corte semplicemente di inserire il convivente more uxorio nella previsione dell'art. 540, secondo comma, ammettendo anche questa forma del rapporto di coppia quale possibile referente della nozione di "casa adibita a residenza familiare", bensì sollecita l'introduzione nell'ordinamento della legittima di una nuova fattispecie strutturalmente e funzionalmente diversa da quella portata a modello: strutturalmente, perché il diritto di abitazione sarebbe attribuito al convivente indipendentemente dalla qualità di chiamato all'eredità; funzionalmente, perché, secondo la prospettazione dell'ordinanza di rimessione, il diritto di abitazione sarebbe qui destinato a tutelare direttamente e specificamente l'interesse alla conservazione dell'alloggio.
Una siffatta innovazione nel sistema normativo esula dai poteri della Corte. Spetta al legislatore valutare il grado di meritevolezza di tutela dell'interesse all'abitazione nell'ipotesi in esame, e quindi decidere tra le due forme di tutela possibili, quella - gravemente limitatrice del diritto di proprietà degli eredi - del diritto (reale) di abitazione, ovvero, in assenza di una disposizione testamentaria più favorevole del de cuius, quella più moderata di un diritto personale di godimento temporalmente limitato.
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 565 e 582 del codice civile, sollevata, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, dal Tribunale di Roma con l'ordinanza indicata in epigrafe;
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 540, secondo comma, del codice civile, sollevata, in riferimento ai citati articoli della Costituzione, dal detto Tribunale con la medesima ordinanza.
(...)
Ordinanza n. 1122 del 1988 (SAJA; CASAVOLA) L'art. 649, primo comma, cod. pen., riguardo ai reati contro il patrimonio, razionalmente collega l'esclusione della punibilità a dati incontrovertibili ed agevolmente riscontrabili (vincoli di parentela, affinità, adozione e coniugio) che non sono presenti nella convivenza more uxorio, rapporto per sua natura intrinsecamente aleatorio in quanto fondato sulla affectio quotidiana di ciascuna delle parti liberamente ed in ogni istante revocabile.
(...)
Ritenuto che nel corso di procedimento penale a carico di soggetto im- putato del delitto previsto e punito dagli artt. 624 - 61, n. 11, del codice penale, per aver sottratto assegno bancario alla propria convivente, il Pretore di Bologna, con ordinanza emessa il 23 febbraio 1988, ha sollevato, in relazione agli artt. 3 e 31 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 649 del codice penale;
che il giudice a quo dubita della legittimità della norma citata laddove esclude dai soggetti che possono beneficiare della non punibilità il convivente more uxorio, in quanto la tutela della famiglia di fatto trarrebbe il suo presupposto dall'art. 31 della Costituzione, e per altre ipotesi (cfr. art. 572 c.p.) la rilevanza di legame familiare di fatto è stata variamente considerata dalla giurisprudenza;
che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura dello Stato, che ha concluso per la declaratoria d'infondatezza, richiamando in particolare la sentenza di questa Corte n. 237 del 13 novembre 1986.
Considerato che questa Corte, con la sentenza n. 423 del 24 marzo 1988, ha già dichiarato la non fondatezza di analoga questione, osservando, in particolare, come la convivenza more uxorio sia per sua natura fondata sulla affectio quotidiana - liberamente ed in ogni istante revocabile - di ciascuna delle parti; che il richiamo, operato dal giudice a quo, all'art. 31 della Costituzione, non concreta un argomento nuovo rispetto a quelli a suo tempo esaminati onde vale, a riguardo, il medesimo ordine di considerazioni circa l'intrinseca aleatorietà di tale rapporto e la conseguente razionalità del collegamento operato dall'art. 649, primo comma, del codice penale tra l'esclusione della punibilità e i dati incontrovertibili ed agevolmente riscontrabili, quali i vincoli di parentela, affinità, adozione ed, appunto, coniugio;
che del pari non appropriato è il riferimento all'art. 572 del codice penale, posto che l'estensione del concetto di famiglia operata dalla giurisprudenza da un lato e dall'altro l'esclusione della necessità della coabitazione si collegano necessariamente all'esigenza di tutelare un soggetto passivo in posizione di intrinseca, peculiare debolezza a fronte dell'ampia accezione dell'elemento materiale proprio di una fattispecie criminosa la quale, anche per la particolarità della sua struttura (reato abituale e condotta plurima), non può sicuramente proporsi quale tertium comparationis.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 649 del codice penale, sollevata, in relazione agli artt. 3 e 31 della Costituzione, dal Pretore di Bologna con l'ordinanza indicata in epigrafe.
(...)
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Sentenza n. 644 del 1988 (SAJA; DELL'ANDRO) Fino al momento in cui la famiglia naturale, non fondata sul matrimonio, non avrà un "qualche" riconoscimento giuridico, non è dato equipararla, e neppure giuridicamente "confrontarla", ai fini di verificare eventuali violazioni degli artt. 3, 29 e 31 Cost., con la famiglia legittima.
(...)
Considerato in diritto
1. - Va anzitutto rigettata la richiesta di dichiarazione d'inammissibilità della proposta questione di legittimità costituzionale. Se e' vero che nell'ordinanza di rimessione s'impugna, nel dispositivo, l'art. 4 della legge 12 giugno 1984, n. 222, è anche vero che si tratta, ed in maniera evidente, d'un errore materiale. Sempre, infatti, ci si riferisce, nell'ordinanza in discussione, al contenuto del quarto comma dell'art. 1 della citata legge e mai a quello dell'art. 4 della stessa legge. E' certamente da escludere, in ogni caso, che sorgano incertezze, nell'interpretazione dell'ordinanza di rimessione, evidentissima palesandosi, in essa, la volontà del giudice a quo di sollevare questione di legittimità costituzionale in ordine alla disposizione di cui all'art. 1, quarto comma, e non a quella di cui all'art. 4, della legge n. 222 del 1984. 2. - La premessa sulla quale va fondata la valutazione della proposta questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, quarto comma, della legge 12 giugno 1984, n. 222, è costituita dall'indagine sulla natura dell'assegno d'invalidità di cui alla citata legge.
Si può, invero, anche prescindere dallo stabilire se sia corretto o meno etichettare l'integrazione dell'assegno ordinario d'invalidità, di cui in narrativa, come "integrabilità al minimo": e' ben vero, infatti, che nel terzo comma dell'art. 1 della legge in esame è prevista (insieme al rinvio, ai fini della determinazione dell'ammontare dell'assegno ordinario, alle norme relative all'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti ovvero alle gestioni speciali dei lavoratori autonomi) un'integrazione, a carico del fondo sociale, dell'assegno d'invalidità fino alla concorrenza d'un importo, al massimo, pari a quello della pensione sociale; ma è del pari vero che non sono in discussione, nel giudizio a quo, né il fatto che tale integrazione non avvenga secondo la disciplina generale sui minimi di pensione né il fatto che il trattamento pensionistico legale minimo delle singole gestioni costituisca il limite massimo dell'ammontare dell'integrazione in esame; e, d'altra parte, la discrezionalità del legislatore nella determinazione della situazione economico-finanziaria dell'invalido, quale condizione per la sua esclusione dal diritto all'integrazione, discende dalla natura, almeno anche assistenziale e sussidiaria, dell'assegno d'invalidità. In conseguenza, risulta superata ogni utilità interpretativa dell'"etichetta" da assegnare all'integrazione in esame.
Va rilevato che può anche discutersi sulle proposte di mutamenti relativi alla natura giuridica dell'assegno d'invalidità e sulle "tendenze" che, in proposito, vanno manifestandosi: ma oggi, nell'interpretare la legge n. 222 del 1984, va sottolineata la natura assistenziale, od almeno mista, dell'assegno in esame. Il quarto comma dell'art. 1 della citata legge, prima ancora dell'esclusione del soggetto coniugato dal diritto all'integrazione dell'assegno (qualora il reddito del medesimo, cumulato con quello del coniuge, sia superiore a tre volte l'importo della pensione sociale) esclude dalla stessa integrazione coloro che posseggono redditi propri assoggettabili all'imposta sul reddito delle persone fisiche per un importo superiore a due volte (e non a tre, come per i coniugati) l'ammontare annuo della pensione sociale. Non v'e' dubbio, pertanto, che il legislatore del 1984 e' partito dalla concezione "sussidiaria" dell'assegno d'invalidità, discendente appunto dalla natura almeno parzialmente assistenziale dell'assegno stesso. Quest'ultimo, fra l'altro, non trova corrispondenza in alcuna provvista contributiva; sicche', e' certamente da allontanare l'idea d'una prevalente natura previdenziale dell'assegno di cui qui si discute.
Deriva che spetta al legislatore scegliere, in base alla generale politica economico-sociale perseguita, le condizioni economico-finanziarie alle quali subordinare l'intervento solidaristico pubblico. Ne' ci si puo' esimere dal sottolineare che l'onere finanziario relativo all'integrazione dell'assegno grava sul fondo sociale di cui alla legge 21 luglio 1965, n.903 e, cioe', in sostanza, sull'intera collettività nazionale e non su particolari comunità di lavoratori. Non puo', dunque, indiscriminatamente, senza riferimento alcuno al reddito in effettiva disposizione dell'invalido, consentirsi l'integrazione in discussione: cio' equivarrebbe ad irrazionalmente estendere il principio solidaristico pubblico oltre i limiti entro i quali lo stesso principio ha fondamento.
3. - Per quanto attiene, specificamente, alla seconda parte del quarto comma dell'art. 1 della legge in esame, va sottolineato che la norma impugnata, in tanto fa riferimento all'invalido coniugato, in quanto, attraverso l'ammontare del cumulo dei redditi tra l'invalido ed il coniuge, la stessa norma ritiene esclusa l'effettiva situazione di relativa non abbienza dell'invalido, alla quale la legge condiziona l'integrazione qui in esame: non si tratta, pertanto, di discriminazione o di diverso trattamento tra invalidi coniugati e non coniugati ma di determinazione d'un criterio, quello dell'ammontare del cumulo dei redditi dei coniugi, attraverso il quale escludere la (relativa) non abbienza dell'invalido.
E tal criterio non puo' ritenersi irrazionale: poiche', come si e' osservato, l'istituto dell'integrazione dell'assegno d'invalidità trova la sua giustificazione (almeno anche) in un effettivo stato di bisogno della categoria protetta, non sono rilevanti, al fine di determinare le condizioni del sorgere del diritto all'integrazione, ne' la qualità ne' la provenienza delle diverse voci che compongono il reddito mentre determinante e' il livello, derivante dal cumulo, del reddito stesso, tenuto conto soprattutto dell'obbligo d'assistenza reciproca fra coniugi. Non soltanto e' presumibile che, dato un determinato livello del reddito, cumulato, dei coniugi, anche l'invalido venga a godere, oltre che d'una normale riduzione delle spese, anche dell'apporto e della collaborazione del consorte, ma quel che piu' conta e' l'obbligo d'assistenza che incombe su quest'ultimo; rispetto a tale obbligo, quello d'assistenza dello Stato, della collettività tutta, e' sussidiario.
Come potrebbe, diversamente, ritenersi razionale un intervento dello Stato nei confronti d'un invalido che, benche' privo di redditi propri superiori ai limiti di legge, versi effettivamente in floridissima situazione economico-finanziaria a causa della convivenza con un coniuge assai abbiente?
Sono certamente ipotizzabili, data la variabilità ed irripetibilità del concreto, situazioni anomale in cui gli oneri connessi all'andamento della famiglia compensino (e superino, forse) il risparmio dovuto alla convivenza: ma al legislatore non e' dato seguire la non raggiungibile varietà del concreto, dovendosi lo stesso legislatore limitare a prevedere situazioni tipiche e ricorrenti nella quasi totalità dei casi. Poiche' l'opposta disciplina dell'integrazione dell'assegno in discussione e cioe' il tener conto, ai fini dell'integrazione, del solo reddito dell'invalido, e non anche di quelli del coniuge di quest'ultimo, produrrebbe anche gli effetti perversi ai quali si e' innanzi accennato, mentre la scelta effettuata con la norma di cui alla seconda parte del quarto comma dell'art. 1 della legge in discussione tien conto della quasi totalità dei casi di convivenza familiare, si deve escludere ogni censura d'irrazionalità della scelta legislativa operata con la disposizione impugnata.
Le sentenze di questa Corte citate nell'ordinanza di rimessione non valgono a sostenere l'assunto del giudice a quo, riguardando esse situazioni del tutto diverse da quelle qui in esame: non v'è chi non veda che la materia che si va trattando in questa sede, attenendo alla natura ed ai limiti dell'intervento solidaristico-assistenziale dello Stato, non consente analogia con materie diversissime, quali, ad es., quella del cumulo dei redditi tra coniugi ai fini della tassazione dei redditi stessi.
Esistendo, dunque, particolare diversità tra la situazione dell'invalido non coniugato il cui reddito e' inferiore al minimo della pensione sociale e la situazione dell'invalido il cui reddito, cumulato con quello del coniuge, e' superiore a tre volte la stessa pensione sociale, la diversità di disciplina tra le predette situazioni non soltanto non e' ingiustificata ma, per le ragioni sopra specificate, si manifesta razionale.
4. - Come non risulta violato, dalla norma impugnata, l'art. 3 Cost. cosi', e per le stesse ragioni innanzi indicate, non risultano disattesi i principi di cui all'art. 38 Cost.: la limitazione contenuta nella seconda parte del quarto comma dell'art. 1 della legge 12 giugno 1984, n. 222 non vanifica ma determina in concreto, per la materia ivi prevista, talune condizioni del sorgere dell'obbligo statale al mantenimento ed all'assistenza di cui al primo comma dell'art. 38 Cost.: quest'ultimo, infatti, prevede che il cittadino, oltre ad essere inabile al lavoro, ha diritto al mantenimento ed all'assistenza sociale allorche' manchi dei "mezzi necessari per vivere"; ed e' compito del legislatore precisare, nelle diverse realtà, le situazioni nelle quali e' razionalmente ravvisabile la predetta mancanza.
5. - La norma impugnata non viola neppure gli artt. 29 e 31 Cost. A parere del giudice a quo la seconda parte del quarto comma dell'art. 1 della legge n. 222 del 1984 penalizzerebbe la famiglia legittima a vantaggio di quella di fatto (non fondata sul matrimonio) in contrasto con gli artt. 29 e 31 Cost. e potrebbe costituire incentivo alla separazione legale dei coniugi o, comunque, a separazioni fittizie idonee ad eludere gli effetti del cumulo dei redditi di cui al comma in esame.
Di contro va osservato che, fino al momento in cui la famiglia naturale, non fondata sul matrimonio, non avrà un "qualche" riconoscimento giuridico, non e' dato equipararla, e neppure giuridicamente "confrontarla", ai fini di verificare eventuali violazioni degli artt. 3, 29 e 31 Cost., con la famiglia legittima. E, d'altra parte, come s'è già osservato, il legislatore opera su presupposti e situazioni tipiche e non su anomale situazioni concrete.
In ordine alle indicate "frodi" alla legge, va ricordato che non e' in funzione delle stesse ipotetiche "frodi" che va giudicata la legittimità costituzionale d'una norma: non potrebbe, peraltro, ritenersi razionale una disciplina legislativa che, allo scopo d'ovviare alle predette eventuali "frodi", scegliesse di non tener conto, nella materia qui esaminata, del cumulo dei redditi tra coniugi e, pertanto, consentisse, certamente contro la Costituzione, l'intervento assistenziale dello Stato anche nelle ipotesi-limite in cui non solo non risulti la "non abbienza" dell'invalido ma sia provata una notevole sua agiatezza a causa dell'alto reddito del consorte.
6. - In relazione all'ultima eccezione sollevata dal giudice a quo, secondo la quale la limitazione dell'intervento assistenziale dello Stato a favore dell'invalido, in relazione alla consistenza reddituale del coniuge, impedirebbe all'invalido stesso di contribuire in misura rilevante all'educazione, istruzione, mantenimento dei figli (tale contribuzione costituisce, ex art. 30, primo comma, Cost., oltre che dovere, anche diritto) ponendolo in una situazione d'inferiorità nell'ambito della famiglia, va ancora ribadito che l'intervento assistenziale dello Stato trova, nelle ipotesi d'invalidità, la sua ragione nella "non abbienza" dell'invalido e non certo nella necessità d'ovviare a diversi stati d'inferiorità in cui lo stesso invalido possa eventualmente trovarsi nell'ambito della famiglia.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, quarto comma, della legge 12 giugno 1984, n. 222, questione sollevata, in riferimento agli artt. 3, 29, 30, 31 e 38 Cost., con ordinanza emessa il 9 luglio 1987 dal Pretore di Pisa.
(...)
Sentenza n. 423 del 1988 (SAJA; CASAVOLA) La non punibilità dei delitti contro il patrimonio commessi in danno del coniuge non legalmente separato si fonda sulla presunzione di esistenza di una comunanza di interessi che assorbe il fatto delittuoso, sicché la mancata estensione della suddetta esimente alla diversa fattispecie della convivenza more uxorio - fondata sull'affectio quotidiana, liberamente e in ogni istante revocabile - non sembra contrastare con gli artt. 2 e 3 Cost., se (come nel caso oggetto del giudizio a quo) sussistano atti concludenti che attestano la revocazione dell'affectio e dunque il venir meno della convivenza more uxorio.
(...)
Considerato in diritto
1.-Il Pretore di Pinerolo, con ordinanza del 2 maggio 1987 (R. O. n. 319/1987), solleva questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, dell'art. 649, n. 1, del codice penale "nella parte in cui non prevede la non punibilità di chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dal Tit. XIII cod. pen. in danno del convivente more uxorio".
2. - La questione non è fondata.
La non punibilità, prevista dalla norma impugnata, si fonda sulla pre sunzione che, ove i coniugi non siano legalmente separati, sussista una comunanza di interessi che assorbe il fatto delittuoso. Tant'é che nella ipotesi di separazione legale la punibilità ricorre, sia pure a querela della persona offesa. Siffatto regime palesa che il legislatore rimette alla volontà del coniuge legalmente separato l'applicazione della legge penale, laddove esclude che questa possa intervenire in costanza della convivenza coniugale.
Fattispecie tutt'affatto diversa è quella della convivenza more uxorio, per sua natura fondata sulla affectio quotidiana - liberamente e in ogni istante revocabile - di ciascuna delle parti.
Nel caso che ha dato origine alla presente questione di costituzionalità, la denuncia-querela della persona offesa, nonché la sottrazione di mobili suppellettili ed elettrodomestici dall'abitazione comune ad opera della convivente, che li ha trasportati in altro alloggio ove si è stabilita con il figlio nato dal rapporto con il querelante, sono atti concludenti che attestano la revocazione dell'affectio e dunque il venir meno della convivenza more uxorio.
Non sembrano pertanto ravvisabili nella norma impugnata in occasione del giudizio di cui all'ordinanza del Pretore di Pinerolo, profili di contrasto con i valori costituzionali conte nuti negli artt. 2 e 3 della Costituzione.
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 649, n. 1, del codice penale, sollevata dal Pretore di Pinerolo con ordinanza del 2 maggio 1987 (R. O. n. 319/1987) in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione.
(...)
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Sentenza n. 404 del 1988 (SAJA; CASAVOLA) È irragionevole e viziata da contraddittorietà logica la previsione di legge che, pur tutelando l'abituale convivenza, non include, tuttavia, tra i successibili nel contratto di locazione, chi era già legato more uxorio al titolare originario del contratto; risultando, in pari tempo, leso il diritto fondamentale all'abitazione.
(...)
Considerato in diritto
1.-Le quattro questioni, di cui alle ordinanze in epigrafe, riguardano l'ar- t. 6 della legge 27 luglio 1978, n. 392 ("Di sciplina delle locazioni di im- mobili urbani") e vanno decise con unica sentenza.
2. - L'articolo suindicato è sospettato:
a) dal Pretore di Rodi Garganico, con ordinanza del 21 dicembre 1981 (R. O. n. 116/1982), di violare il principio d'eguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione "nella parte in cui non prevede la successione dell'altro coniuge al conduttore anche in caso di separazione di fatto, se tra i due si sia così convenuto";
b) dal Pretore di Cecina, con ordinanza del 21 maggio 1982 (R. O. n. 588/1982), di violare il principio d'eguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione "nella parte in cui non prevede la possibilità di succedere nel contratto di locazione al coniuge del conduttore defunto, a lui unito da matrimonio religioso non trascritto";
c) dal Pretore di Sestri Ponente, con ordinanza del 30 gennaio 1984 (R.O. n. 478/1984), di violare, oltre all'art. 3, anche gli artt. 2 e 42, secondo comma, della Costituzione "nella parte in cui esclude il convivente more uxorio del conduttore defunto dal diritto a succedergli nel contratto di locazione";
d) dal Tribunale di Firenze, con ordinanza del 6 ottobre 1982 (R. O. n. 368/1983), di violare, oltre all'art. 3, anche gli artt. 2 e 30 della Costituzione "nella parte in cui non prevede la successione nel contratto per il convivente more uxorio se così sia convenuto nell'atto di separazione e vi sia prole naturale".
3. - Le questioni sono fondate.
Il profilo, che tutte le accomuna, consiste nel chiedersi se la mancata previsione della successione nella titolarità del contratto di locazione, fino alla normale consumazione della durata quadriennale del rapporto, come stabilita ex lege, non contrasti con valori presenti in Costituzione.
Non viene qui in evidenza, come ritengono i giudici a quibus, un trattamento discriminatorio a sfavore della convivenza more uxorio, che viole- rebbe il principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione. E neppure un contrasto con la spontaneità delle formazioni sociali nelle quali si svolge la personalità dell'uomo, di cui all'art. 2 della Costituzione, o, nel particolare caso di specie sub d), un ostacolo all'esercizio e all'adempimento dei diritti e doveri dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli anche se nati fuori del matrimonio, di cui all'art. 30, primo comma, della Costituzione.
Come affermato da una recente sentenza di questa Corte (n. 217 del 1988): "il diritto all'abitazione rientra fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione... In breve, creare le condizioni minime di uno Stato sociale, concorrere a garantire al maggior numero di cittadini possibile un fondamentale diritto sociale, quale quello all'abitazione, contribuire a che la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto l'immagine universale della dignità umana, sono compiti cui lo Stato non può abdicare in nessun caso". Altra sentenza di questa Corte (sent. n. 49 del 1987) aveva già riconosciuto "indubbiamente doveroso da parte della collettività intera impedire che delle persone possano rimanere prive di abitazione".
Tali statuizioni, pur espresse in ordine allo specifico favor, di cui all 'art . 47 , secondo comma, della Costituzione, per l'accesso del risparmio popolare alla proprietà dell'abitazione, hanno una portata più generale ricollegandosi al fondamentale diritto umano all'abitazione riscontrabile nell'art. 25 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (New York, 10 dicembre 1948) e nell'art. 11 del Patto internazionale dei diritti econo- mici, sociali e culturali (approvato il 16 dicembre 1966 dall'Assemblea generale della Nazioni Unite e ratificato dall'Italia il 15 settembre 1978, in seguito ad autorizzazione disposta con legge 25 ottobre 1977, n. 881).
Quando il legislatore, nel contesto della legge n. 392 del 1978, detta l'art. 6, rubricandolo "Successione nel contratto", esprime il dovere collettivo di "impedire che delle persone possano rimanere prive di abitazione", dovere che connota da un canto la forma costituzionale di Stato sociale, e dall'altro riconosce un diritto sociale all'abitazione collocabile fra i diritti inviolabili dell'uomo di cui all'art. 2 della Costituzione.
4.-Ciò conduce ad ulteriore sviluppo le considerazioni svolte nella sentenza di questa Corte n. 252 del 1983. All'inizio degli anni Ottanta un indirizzo dottrinale e giurisprudenziale tendeva a costruire il diritto all'abitazione come un diritto soggettivo perfetto, destinato a rendere sempre poziore la posizione del locatario su quella del locatore, suggerendo come modello la disciplina francese e tedesca della locazione abitativa a tempo indeterminato con recesso del locatore solo per giusta causa.
La Corte dovette allora obbiettare che la "stabilità della situazione abitativa" non costituisce autonomo e indefettibile presupposto per l'esercizio dei diritti inviolabili di cui all'art. 2 della Costituzione.
La Corte invece affermava in proposito che "indubbiamente l'abitazione costituisce, per la sua fondamentale importanza nella vita dell'individuo, un bene primario il quale deve essere adeguatamente e concretamente tutelato dalla legge".
La giurisprudenza precedente di questa Corte (sent. n. 45 del 1980; ord. n. 128 del 1980) non aveva dato il dovuto rilievo all'abitazione come bene primario, valutando su un piano prospettico di maggiore rilevanza l'estraneità del convivente more uxorio dagli elenchi tassativi degli aventi diritto alla proroga dei contratti di locazione di immobili adibiti ad uso di abitazione, in caso di morte del conduttore, sia in base all'art. 2 bis, comma primo, parte prima, della legge 12 agosto 1974, n. 351, sia in base all'art. 1, comma quarto, parte prima, della legge 23 maggio 1950, n. 253. Ritiene oggi la Corte che la nuova normativa sulla disciplina delle locazioni di immobili urbani adibiti ad uso di abitazione, introdotta dalla legge 27 luglio 1978, n. 392, realizzando con il regime dell'equo canone un superamento di quella previgente, fondata sul meccanismo della proroga, determini una minore compressione del diritto del proprietario-locatore e consenta pertanto una più penetrante indagine sui fini che il legislatore ha inteso perseguire nel sostituire la fattispecie "successione nel contratto" a quella della operatività della proroga.
Il legislatore del 1950 ha usato la formula "la proroga opera soltanto a favore del coniuge, degli eredi, dei parenti e degli affini del defunto con lui abitualmente conviventi" (art. 1, comma 4, parte I, l. n. 253/1950); quello del 1974 la variante: "del coniuge, dei figli, dei genitori o dei pa- renti entro il secondo grado del defunto con lui anagraficamente conviventi" (art. 2-bis, comma 1, parte I, 1. n. 351/1974).
La volontà di escludere qualunque soggetto diverso da quelli elencati è fatta palese dall'avverbio "soltanto". Diversa formulazione è quella dell'art. 6, primo comma, della vigente legge n. 392 del 1978: "in caso di morte del conduttore, gli succedono nel contratto il coniuge, gli eredi ed i parenti ed affini con lui abitualmente conviventi".
Le species "figli, genitori, parenti entro il secondo grado, con lui anagraficamente conviventi", della corrispondente norma del 1974, si espando- no nei genera "eredi, parenti, affini con lui abitualmente conviventi".
Il legislatore del 1978, cioè, ha voluto tutelare non la famiglia nucleare, né quella parentale, ma la convivenza di un aggregato esteso fino a comprendervi estranei - potendo tra gli eredi esservi estranei -, i parenti senza limiti di grado e finanche gli affini. è evidente la volontà legislativa di farsi interprete di quel dovere di solidarietà sociale, che ha per contenuto l'impedire che taluno resti privo di abitazione, e che qui si specifica in un regime di successione nel contratto di locazione, destinato a non privare del tetto, immediatamente dopo la morte del conduttore, il più esteso numero di figure soggettive, anche al di fuori della cerchia della famiglia legittima, purché con quello abitualmente conviventi.
5.- Se tale è la ratio legis, è irragionevole che nell'elencazione dei successori nel contratto di locazione non compaia chi al titolare originario del contratto era nella stabile convivenza legato more uxorio.
L'art. 3 della Costituzione va qui invocato dunque non per la sua portata eguagliatrice, restando comunque diversificata la condizione del coniuge da quella del convivente more uxorio, ma per la contraddittorietà logica della esclusione di un convivente dalla previsione di una norma che intende tutelare l'abituale convivenza.
Se l'art. 3 della Costituzione è violato per la non ragionevolezza della norma impugnata, l'art. 2 lo è quanto al diritto fondamentale che nella privazione del tetto è direttamente leso.
6.-La questione sub b), sollevata dal Pretore di Cecina - possibilità di succedere nel contratto di locazione al coniuge del conduttore defunto, a lui unito da matrimonio religioso non trascritto - e quella sub c) sollevata dal Pretore di Sestri Ponente - successione anche questa mortis causa nel contratto del convivente more uxorio - sono assolutamente identiche dato che la convivenza con il conduttore defunto non riceve diversa qualificazione dalla circostanza che nell'un caso essa sia stata suggellata dal matrimonio religioso non trascritto e nell'altro sia rimasta affidata all'affectio quotidiana.
Nella questione sub d), sollevata dal Tribunale di Firenze, essendo la separazione tra i conviventi more uxorio soltanto una espressione metaforica che indica in realtà la estinzione del rapporto more uxorio, l'esistenza di prole naturale valorizza ulteriormente la ratio decidendi per la conservazione dell'abitazione alla residua comunità familiare.
Nella questione sub a), sollevata dal Pretore di Rodi Garganico, la separazione di fatto tra coniugi non dovrebbe avere alcuna rilevanza esterna, restando quella locata la casa coniugale.
Ma essendosi convenuta tra i coniugi la conservazione dell'abitazione per uno solo di essi, la fattispecie, in base al principio di razionalità di cui all'art. 3 della Costituzione non può ricevere trattamento diverso da quello disposto per le ipotesi previste dal terzo comma dell'art. 6 della legge 392 del 1978 che recita: "In caso di separazione consensuale o di nullità matrimoniale al conduttore succede l'altro coniuge se tra i due si sia così convenuto".
Rispetto al bene primario dell'abitazione che la ratio legis salvaguarda, il titolo della separazione, di fatto o consensuale, non può avere effetto discriminatorio senza vulnerare ancora una volta il combinato disposto degli artt. 2 e 3 della Costituzione nella configurazione su richiamata.
Che la separazione di fatto non comporti l'evidenza documentale di quanto convenuto tra i coniugi, come nella separazione consensuale, provveduta di verbale e di decreto di omologazione, non è ragione sufficiente per giustificarne l'assenza dalla previsione legale.
L'accordo o l'atto concludente tra i separati di fatto sarà oggetto di prova e il relativo accertamento ristabilirà la parità con l'accordo convenuto nel verbale tra i separati con separazione consensuale omologata.
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 6, primo comma, della legge 27 luglio 1978, n. 392 ("Disciplina delle locazioni di immobili urbani"), nella parte in cui non prevede tra i successibili nella titolarità del contratto di locazione, in caso di morte del conduttore, il convivente more uxorio;
dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 6, terzo comma, della legge 27 luglio 1978, n. 392, nella parte in cui non prevede che il coniuge separato di fatto succeda al conduttore, se tra i due si sia così convenuto;
dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 6 della legge 27 luglio 1978, n. 392, nella parte in cui non prevede la successione nel contratto di locazione al conduttore che abbia cessato la convivenza, a favore del già convivente quando vi sia prole naturale.
(...)
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Sentenza n. 237 del 1986 (LA PERGOLA; BORZELLINO) L'art. 29 - come del resto fu pressoché univocamente palesato in sede di Assemblea Costituente - riguarda la famiglia fondata sul matrimonio, cosicché rimane estraneo al contenuto delle garanzie ivi offerte, ogni altro aggregato pur socialmente apprezzabile, divergente tuttavia dal modello che si radica nel rapporto coniugale. Un consolidato rapporto (come la convivenza more uxorio), ancorché di fatto, non appare costituzionalmente irrilevante se si abbia riguardo al riconoscimento delle formazioni sociali e alle conseguenti intrinseche manifestazioni solidaristiche (art. 2 Cost.) e ciò tanto più se vi sia presenza di prole. Siffatti interessi sono indubbiamente meritevoli, nel tessuto delle realtà sociali odierne, di compiuta obiettiva valutazione.
(...)
Considerato in diritto
1.-L'identità delle questioni comporta la riunione delle relative cause per formare oggetto di unica pronuncia.
2a) - Agli effetti della legge penale, l'art. 307, comma quarto, del relativo codice fornisce l'elencazione tassativa dei prossimi congiunti e vi ricomprende il coniuge. Questi, pertanto, non è punibile, giusta il successivo art. 384, allorché costretto a salvare da grave ed inevitabile nocumento l'altro coniuge, così incorrendo con la sua condotta, tra le altre ipotesi contemplate, nel reato di favoreggiamento personale.
Ma il Tribunale di Novara (ord. 751/80), il Giudice istruttore del Tribunale di Camerino (ord. 193/85), la Corte di assise di Rovigo (ord. 573/85) sospettano di illegittimità costituzionale le richiamate disposizioni, assumendone contrasto con l'art. 29, primo comma, della Costituzione: l'omesso inserimento nella elencazione dei prossimi congiunti del convivente more uxorio alla pari del coniuge mostrerebbe - ad avviso dei remittenti - il non volersi tener conto, nella realtà sociale e nell'ordinamento, dei vincoli di solidarietà pur insiti nella famiglia di fatto. Per contro, la relativa tutela - tanto più opportuna e ravvivata quando esiste prole - troverebbe presupposto di applicazione analogica, così testualmente il Giudice istruttore di Camerino, proprio nel dettato dell'art. 29 Cost.
2b) - Prospettata in tali precisi termini di riferimento, la questione è priva di fondatezza.
L'art. 29 riguarda, infatti, la famiglia fondata sul matrimonio (sent. n. 30 del 1983): come del resto fu pressoché univocamente palesato in sede di Assemblea Costituente la compagine familiare risulta, nel precetto, strettamente coordinata con l'ordinamento giuridico, sì che rimane estraneo al contenuto delle garanzie ivi offerte ogni altro aggregato pur socialmente apprezzabile, divergente tuttavia dal modello che si radica nel rapporto coniugale.
E che gli stessi Costituenti così divisassero doversi intendere la ri- petuta norma, fornisce una obiettiva riprova la votazione per divisione, che ne seguì in aula. Fu esplicitamente rifiutato, infatti, un voto inteso a disgiungere, nell'art. 29, primo comma, la locuzione "diritti della famiglia come società naturale" dall'altra "fondata sul matrimonio"; si procedette - all'incontro - dapprima al voto sul riconoscimento dei diritti familiari, accorpandosi, in successiva votazione, la frase "come società naturale fondata sul matrimonio", rimasta avvinta in inscindibile endiadi.
3a) - Senonché, i giudici a quibus cui si aggiunge il Tribunale di Torino (ordd. 945/83 e 1116/84) deducono ancora l'illegittimità della normativa penale di cui innanzi, in relazione all'art. 3 Cost.
La convivenza di fatto, si assume, rivestirebbe oggettivamente connotazioni identiche a quelle scaturenti dal vincolo matrimoniale: e dunque una diversità di garanzie - o addirittura l'assenza di queste - verrebbe a vulnerare il principio di uguaglianza.
Orbene, la Corte - sia pure per oggetti specifici insorti da diversa fattispecie - ha avuto modo di pronunciarsi, in passato, sul merito della situazione di convivenza more uxorio anche nei termini del confronto sopra descritti. Ed in punto specifico, ebbe già a rilevarsi la inapprezzabilità del rapporto di fatto poiché privo esso delle caratteristiche di certezza e di stabilità, proprie della famiglia legittima, osservandosi - tra l'altro - che la coabitazione può venire a cessare unilateralmente e in qualsivoglia momento (sentenza n. 45 del 1980).
Va poi ricordato, per completezza, come non avesse mancato la Corte, peraltro, di porre l'accento (sentenza n. 6 del 1977) sulla opportunità di una valutazione legislativa degli interessi dedotti, carenti, allo stato, di tutela positiva.
3b) - In effetti, un consolidato rapporto, ancorché di fatto, non appare - anche a sommaria indagine - costituzionalmente irrilevante quando si abbia riguardo al rilievo offerto al riconoscimento delle formazioni sociali e alle conseguenti intrinseche manifestazioni solidaristiche (art. 2 Cost.). Tanto più - in ciò concordando con i giudici remittenti - allorché la presenza di prole comporta il coinvolgimento attuativo d'altri principi, pur costituzionalmente apprezzati: mantenimento, istruzione, educazione.
In altre parole, si è in presenza di interessi suscettibili di tutela, in parte positivamente definiti (si vedano ad es. gli artt. 250 e 252 del codice civile nel testo novellato con la legge 19 maggio 1975 n. 151), in parte da definire nei possibili con tenuti.
Comunque, per le basi di fondata affezione che li saldano e gli aspetti di solidarietà che ne conseguono, siffatti interessi appaiono meritevoli indubbiamente, nel tessuto delle realtà sociali odierne, di compiuta obiettiva valutazione.
Nella fattispecie, tuttavia, l'adeguatezza in concreto di misure protettive d'ordine positivo scaturenti dalla valorizzazione di legami affettivi esistenti di fatto (cfr. sentenza n. 198 del 1986) trascende - e proprio per l'esigenza di una complessa chiarezza normativa - i ristretti termini del caso, rivolto al mero intento di parificare il binomio coniuge/convivente in presenza dei reati richiamati dall'art. 384 c.p., tra cui il 378.
Più incisivamente, va osservato che l'impugnato art. 307, comma quarto racchiude la nozione positiva di prossimo congiunto con una portata di integrazione generale nel sistema legislativo penale: la prospettata parificazione della convivenza e del coniugio, varrebbe, adunque, a coinvolgere automaticamente non solo le altre ipotesi di reato contenute nell'art. 384 pure impugnato, ma - ben più ampiamente - altri istituti di ordine processuale penale, quali la ricusazione del giudice (art. 64, nn. 3 e 4 cod. proc. pen.); la facoltà di astensione dal deporre (art. 350) già esaminata dalla Corte nella ricordata sentenza n. 6 del 1977; la titolarità nella richiesta di revisione delle sentenze di condanna e di connesso esercizio dei relativi diritti (artt. 556,564) ovvero nella presentazione di domanda di grazia (art. 595).
D'altronde, una volta parificato, in ipotesi, il rapporto di fatto a quello del coniugio, non sarebbe dato sottrarsi, contestualmente, alla necessità di regolare la posizione dell'eventuale coniuge separato, sia per il caso di coerenza d'intenti che di conflittualità con il convivente.
Ma su di una regolamentazione esaustiva di tal sorta, necessariamente involgente, senz'altro, scelte e soluzioni di natura discrezionale, questa Corte non avrebbe facoltà di pronunciarsi senza invadere quelle competenze che spettano al Parlamento, nel razionale esercizio di un potere che il solo legislatore è chiamato ad esercitare; per il che la Corte rinnova la sollecitazione contenuta nella sentenza n. 6 del 1977.
Consegue l'inammissibilità dell'odierna dedotta questione.
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi:
a) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 307, comma quarto, e 384 del codice penale, in relazione all'art. 29 Cost., sollevata con ordinanze n. 751/80, n. 193/85, n. 573/85, rispettivamente dal Tribunale di Novara, dal Giudice istruttore del Tribunale di Camerino, dalla Corte d'assise di Rovigo;
b) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 307, comma quarto, e 384 codice penale, in relazione all'art. 3 Cost., sollevata con ordinanze n. 945/83 e n. 1116/84 dal Tribunale di Torino, nonché dal Tribunale di Novara, dal Giudice istruttore del Tribunale di Camerino, dalla Corte d'assise di Rovigo con le ordinanze di cui al punto a) del presente dispositivo.
(...)
Sentenza n. 45 del 1980 (AMADEI; ROSSANO) La situazione del convivente more uxorio è del tutto diversa da quella degli altri soggetti contemplati dalle norme impugnate, essendo tale convivenza soltanto un mero rapporto di fatto, priva del carattere della stabilità, suscettibile di venir meno in qualsiasi momento e improduttiva di quei diritti e doveri reciproci nascenti dal matrimonio e propri della famiglia legittima.
(...)
Considerato in diritto
1. - I due giudizi vanno riuniti e definiti con unica sentenza perché hanno per oggetto questioni di legittimità costituzionale identiche.
2.-L'art. 2 bis, comma primo, parte prima, legge 12 agosto 1974, n. 351 (conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 19 giugno 1974, n. 236, recante provvedimenti urgenti sulla proroga dei contratti di locazione e sublocazione degli immobili urbani) prescrive:
"In caso di morte del conduttore, se trattasi di immobile adibito ad uso di abitazione, la proroga di cui all'art. 1 opera soltanto a favore del coniuge, dei figli, dei genitori o dei parenti entro il secondo grado del defunto con lui anagraficamente conviventi".
Questa norma, secondo il Pretore di Genova, sarebbe in contrasto con il principio di eguaglianza in quanto porrebbe il convivente more uxorio con il conduttore defunto in posizione deteriore non solo rispetto al coniuge ed ai parenti legittimi, ma anche rispetto ai figli naturali, conviventi, che hanno diritto, alla proroga legale della locazione e possono, quindi, allontanare, ad libitum dall'abitazione il loro genitore naturale superstite.
3.-L'art. 1, comma quarto, parte prima, legge 23 maggio 1950, n. 253 (disposizioni per le locazioni e sublocazioni di immobili urbani) prescrive: "In caso di morte del conduttore, se trattasi di immobile adibito ad uso di abitazione, la proroga opera soltanto a favore del coniuge, degli eredi, dei parenti e degli affini del defunto con lui abitualmente conviventi".
Secondo il Tribunale di Milano, tale norma violerebbe l'art. 3 della Costituzione, perché tratterebbe in modo diverso, senza ragionevole motivo, persone che, tutte già conviventi abitualmente con il conduttore defunto, si troverebbero in condizioni sostanzialmente eguali: coniuge, figli legittimi, figli naturali, eredi testamentari, che hanno diritto alla proroga; convivente more uxorio, che non vi ha diritto e dovrebbe essere maggiormente tutelato.
In particolare - come è stato già messo in evidenza dal Pretore di Genova, in riferimento alla legge n. 351 del 1974, con ordinanza 16 luglio 1977 - il trattamento deteriore, non giustificato, del convivente more uxorio sarebbe rilevabile rispetto alla posizione dei figli naturali dei conviventi, che non sono esclusi dalla disposizione in esame e, quali unici beneficiari della proroga legale, nel caso di morte del conduttore, possono allontanare dalla abitazione il genitore naturale superstite.
4.-Le questioni non sono fondate.
La denunciata violazione del principio di eguaglianza non sussiste, perché la situazione del convivente more uxorio con il conduttore defunto è nettamente diversa da quella del coniuge e degli altri soggetti indicati, in modo tassativo, dalle norme impugnate. Invero, la convivenza more uxorio è un rapporto di fatto, privo dei caratteri di stabilità o certezza e della reciprocità e corrispettività dei diritti e doveri, previsti dagli artt. 143, 144, 145, 146, 147, 148 cod. civ., che nascono soltanto dal matrimonio e sono propri della famiglia legittima. La coabitazione infatti del convivente more uxorio può cessare per volontà di uno dei conviventi in qualsiasi momento anche mediante azione giudiziaria.
5.- In ordine, poi, alla disparità di trattamento tra convivente superstite, che non ha diritto alla proroga, e figlio naturale dei conviventi, che vi ha diritto - ravvisata sia dal Pretore di Genova, sia dal Tribunale di Milano - è sufficiente rilevare che l'attribuzione ai figli naturali, del diritto alla proroga legale realizza la tutela giuridica dei figli nati fuori del matrimonio espressamente prescritta dall'art. 30, comma terzo, della Costituzione, laddove il precedente art. 29, nel riconoscere i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, considera il matrimonio elemento che distingue la famiglia legittima e ne giustifica la particolare rilevanza giuridica.
Le caratteristiche del rapporto tra i conviventi more uxorio, sopra indicate, escludono pure che la situazione dei conviventi possa essere considerata assimilabile a quella degli altri soggetti, ai quali, insieme al coniuge ed ai figli, le norme impugnate attribuiscono il diritto alla proroga legale del contratto di locazione. Questi soggetti sono legati al conduttore da rapporti giuridici di parentela o di affinità o sono eredi dello stesso; proprio per questi precisi legami giuridici il legislatore ha voluto loro attribuire il diritto di permanenza nell'abitazione, nella quale hanno convissuto con il conduttore medesimo.
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate:
1.-la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 bis, comma primo, parte prima, legge 12 agosto 1974, n. 351 (conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 19 giugno 1974, n. 236, recante provvedimenti urgenti sulla proroga dei contratti di locazione degli immobili urbani) proposta dal Pretore di Genova, con ordinanza 16 luglio 1977, in riferimento all'art. 3 della Costituzione;
2.-la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma quarto, parte prima, legge 23 maggio 1950, n. 253 (disposizioni per le locazioni e sublocazioni di immobili urbani) proposta dal Tribunale di Milano, con ordinanza 18 gennaio 1979, in riferimento all'art. 3 della Costituzione.
(...)
Sentenza n. 6 del 1977 (ROSSI; TRIMARCHI) La situazione di chi sia legato ad altro soggetto di sesso diverso da una relazione sentimentale e da rapporti sessuali (con la nascita di un figlio dall'unione) è nettamente diversa da quella basata sul vincolo matrimoniale.
(...)
Considerato in diritto
1.-Il pretore di Cagliari, con l'ordinanza indicata in epigrafe, solleva la questione di legittimità costituzionale degli artt. 307, ultimo comma, del codice penale e 350 del codice di procedura penale, in riferimento all'art. 3 della Costituzione.
Rileva che la qualità di prossimo congiunto di cui all'articolo 350 del codice di procedura penale è definita in via tassativa, ai fini della legge penale, dall'ultimo comma dell'articolo 307 del codice penale; che il legislatore nella previsione operata con il citato art. 307 non ha compreso e quindi ha omesso di considerare come meritevoli della tutela ivi accordata "quelle situazioni affettive di natura familiare basate sulla convivenza ed animate da intenti di reciproca assistenza e da propositi educativi della prole comune, di fatto ed oggettivamente identiche a quelle ivi disciplinate"; e che lo stesso legislatore ha trascurato che "la ratio della norma processuale sopra richiamata, determinata dalla particolare considerazione attribuita al motivo per cui il prossimo congiunto si è indotto a commettere un fatto altrimenti dalla legge preveduto come reato (motivo che il sentimento etico comune esige sia rispettato), sussiste immutata anche nell'ipotesi di una famiglia di fatto costituitasi, seppur non legittimata dal vincolo matrimoniale". E ritiene che a causa di questa omissione, si evidenzi "una disparità di trattamento tra situazioni obiettivamente eguali" in contrasto con il principio di eguaglianza.
2.-Nonostante che la questione formalmente risulti sollevata nei termini all'inizio ricordati, a questa Corte è sostanzialmente chiesto di dire se sia o meno conforme all'art. 3 della Costituzione la norma dell'art. 350 del codice di procedura penale nella parte in cui non consente che possa astenersi dal deporre, in aggiunta ai prossimi congiunti di cui all'art. 307, ultimo comma, del codice penale, chi, nei con fronti ,dell'imputato o di uno dei coimputati del medesimo reato, si trovi in una situazione affettiva di natura familiare, basata sulla convivenza e animata da intenti di reciproca assistenza e da propositi educativi della prole comune, di fatto ed oggettivamente identica a quelle disciplinate nel citato articolo del codice penale.
All'individuazione in tal senso della questione si perviene infatti solo che si tengano presenti la portata ampia del disposto dell'ultimo comma dell'art. 307 del codice penale per cui "agli effetti della legge penale, si intendono per prossimi congiunti" determinati soggetti e il richiamo che ne viene fatto nell'art. 350 del codice Idi procedura penale, da un canto, e dall'altro si consideri che il giudice a quo si limita a mettere in evidenza la ratio dell'art. 350 del codice di procedura penale e non fa riferimento agli interessi e alle esigenze che il legislatore ha inteso tutelare in altre norme in cui, in vario modo, rileva la qualità di prossimo congiunto (e così negli artt. 307, 384, 386, 390, 391, 399, 418, 551, 578, 592 e 597 del codice penale e negli artt. 64, nn. 3, 4 e 5, 450, 556 e 564 del codice di procedura penale).
3.-La situazione che, si assume, sarebbe stata omessa nella previsione di cui alla normativa denunciata, sarebbe propria di chi (come l'imputata nel processo a quo, di falsa testimonianza) sia legato ad altro soggetto di sesso diverso da una relazione sentimentale e da rapporti sessuali (con la nascita di un figlio dall'unione), ed essa sarebbe identica, di fatto ed oggettivamente, a quella che caratterizza il rapporto coniugale. La relazione è instaurata, quindi, tra il coniuge e l'unione di fatto tra le dette persone. Ed infatti solo codesta situazione è descritta.
Ed il riferimento che viene operato in narrativa, alla esistenza di un figlio nato dall'unione tra i due conviventi e nella motivazione, ai loro propositi educativi della prole comune, non tende a cogliere e mettere in rilievo un rapporto genitore-figlio suscettibile d'essere accostato alla parentela discendente ma giova unicamente a colorare sul piano soggettivo e psicologico l'unica soluzione come sopra rappresentata.
Ad avviso della Corte, le due situazione poste a raffronto, come è evidente, sono nettamente diverse. Manca pertanto il necessaria presupposto perché di fronte ad un trattamento differenziato (quale è quello che risulta dal contenuto positivo e negativo dell'art. 350 del codice di procedura penale, in relazione all'art. 307, ultimo comma, del codice penale) possa utilmente prospettassi e quindi dirsi fondato il denunciato contrasto con l'art. 3 della Costituzione.
4. - D'altra parte non si può ritenere, facendo riferimento alla ratio dell'art. 350 del codice di procedura penale, che gli interessi, i quali stanno a base delle situazioni ivi previste, siano ricorrenti anche in quelle omesse, con la conseguenza, che codesto elemento o profilo comune possa bastare perché tutte le anzidette situazioni (previste e omesse) debbano essere considerate identiche o perché le situazioni omesse siano assimilate a quelle previste.
Giova, a tal riguardo, tenera preliminarmente presente che il legislatore ha accordato ai prossimi congiunti la facoltà di astenersi dal deporre nel processo penale, perché ha ritenuto meritevole di tutela il sentimento familiare (altamente inteso) e, nel possibile contrasto tra l'interesse pubblico, della giustizia, che su tutti gravi il dovere di deporre, e l'interesse privato, ancorato al detto sentimento, che i prossimi congiunti dell'imputato, non siano travagliati dal conflitto psicologico tra il dover deporre e dire la verità ed il desiderio o la volontà di non deporre per non danneggiare l'imputato, ha altresì ritenuto prevalente l'interesse privato e non in generale ed in modo assoluto ma se ed in quanto l'interessato (e cioè il teste) reputi di non dovere o potere superare quel conflitto, ed a tale fine non ha imposto un divieto Idi testimoniare (come invece disponeva l'art. 147 del codice di procedura civile prima della pronuncia di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 248 del 1974), ma solo una facoltà di astenersi dal deporre.
Ciò posto, va considerato che per i prossimi congiunti di cui all'ultimo comma dell'art. 307 del codice penale, nell'articolo 350 del codice di procedura Penale si ha una tutela per categorie di soggetti, individuate sulla base di tipici rapporti giuridici (coniugio, parentela e affinità), presupponendosi che - secondo l'id quod plerumque accidit - tali soggetti sono portatori dei detti interessi e perseguono quei determinati scopi; e che a proposito delle situazioni che sarebbero state omesse, l'esistenza degli stessi interessi e il perseguimento degli stessi scopi si presentano come dati del tutto eventuali e comunque non necessari ed in ogni caso da dimostrare.
Che in concreto nelle situazioni previste ed in quelle emesse possano anche ricorrere eguali interessi, in sé e finalisticamente considerati, non rileva. Nei due casi, la loro presenza è rispettivamente presunta o da dimostrare. Ciò com porta che, nel processo, solo nel primo di detti casi il giudice possa con immediatezza e sicurezza accertare se il soggetto chiamato a deporre debba essere avvertito, a sensi del terzo comma dell'art. 350 del codice di procedura penale, della facoltà di astenersi dal deporre. Per accertare, nel secondo dei due casi,, se la situazione (ivi considerata) presenti i caratteri per cui in fatto possa essere accostata al rapporto di coniugio, e se in essa in concreto ricorra il sopraddetto interesse privato, con il relativo sentimento familiare, occorre, invece, una indagine che può anche non essere breve né facile. Ed allora per tale caso affiora in modo prevalente l'esigenza pubblicistica che il corso del processo non subisca ingiustificate remore in contrasto con il carattere inquisitorio e con i principi della oralità della concentrazione.
5.- De iure condendo, la normale presenza di quegli interessi, però, non dovrebbe rimanere senza una tutela per le dette situazioni omesse ed in particolare per quella che ricorre nella specie. E sarebbe, quindi, compito del legislatore di valutare, per detti interessi, l'importanza e la diffusione.
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 307, ultimo comma, del codice penale e 350 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal pretore di Cagliari con l'ordinanza indicata in epigrafe.
(...)
Sentenza n. 179 del 1976 (ROSSI; TRIMARCHI) Contrasta con l'art. 31 della Costituzione la normativa in esame in quanto non "agevola con misure economiche ed altre provvidenze la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi" ed anzi dà vita per i nuclei familiari legittimi e nei confronti delle unioni libere, delle famiglie di fatto e di altre convivenze familiari, ad un trattamento deteriore.
Considerato in diritto
(...)
7.--La Corte, passando all'esame del merito delle questioni di legittimità costituzionale ad essa sottoposte, ritiene, anzitutto, fondate quelle sollevate dalla Commissione tributaria di primo grado di Milano.
E ciò nei limiti, nei sensi e per le ragioni che seguono.
Sono denunciate per contrasto con gli artt. 3, 15, 24, 27, 29, 31 e 53 della Costituzione, le norme secondo cui, al fine dell'individuazione dei soggetti passivi dell'imposta complementare progressiva sul reddito complessivo, " i redditi della moglie si cumulano con quelli del marito " (art. 131 comma secondo) e per cui sul reddito complessivo così formato l'imposta è applicata con aliquota progressiva (art. 139).
Sulla legittimità costituzionale o meno dell'art. 131 questa Corte non ha avuto modo in passato di pronunciarsi specificamente, giacché la questione che al riguardo era stata sollevata, con l'ordinanza del 10 dicembre del 1973, dal tribunale di Oristano, è stata dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza. Ma con la relativa sentenza (n. 26 del 1975) ha incidentalmente ed in ipotesi oss~ervato che il dubbio di costituzionalità si sarebbe potuto ricollegare a varie disposizioni (art. 29, 3, 31 e 53) della Costituzione.
Ora queste disposizioni e le altre sopra indicate, sono assunte a ragione e misura dell'asserita illegittimità costituzionale delle citate norme del testo unico.
Con la prima parte del secondo comma dell'art. 131, in relazione alle altre norme dello stesso articolo, sono evidenziati due profili o momenti: l'imputazione al marito dei redditi della moglie che non sia legalmente ed effettivamente separata e cioè il riferimento ex lege del reddito di un dato soggetto pienamente capace ad un soggetto diverso, ed il concorso dei redditi della moglie trovantesi in quella situazione, alla formazione del reddito complessivo del marito. E si ha così, che il marito è soggetto passivo dell'imposta (anche) per i redditi della moglie che non sia legalmente ed effettivamente separata, e che il debito di imposta è determinato in rapporto al reddito complessivo del marito, ancorché a costituirlo abbiano concorso i redditi della moglie.
Due persone fisiche, che nelle norme in esame sono rispettivamente il marito e la moglie (non separati), risultano in tal modo assoggettate ad un trattamento differenziato o particolare per cui: in costanza di rapporto coniugale, il marito e non anche la moglie, è soggetto passivo dell'imposta; il marito e non anche la moglie è debitore dell'imposta con riguardo a redditi di cui non ha il possesso, ed il marito, stante la progressività del tributo, ha un debito di imposta superiore a quello che avrebbe avuto se l'imposta fosse stata commisurata solo alla somma dei redditi propri e di quelli altrui di cui abbia la libera disponibilità o l'amministrazione senza obbligo della resa dei conti.
Le norme di cui alla denuncia, violano il principio di eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge e non sono ordinate sulla eguaglianza giuridica dei coniugi. A fronte di situazioni eguali si hanno trattamenti differenti: da un canto, per il possesso di redditi vi è chi è considerato soggetto di imp~sta e chi non lo è, e dall'altro, nonostante la mancanza del possesso di redditi, vi è chi (anche) per questi è considerato soggetto di imposta e chi non lo è. Ed in entrambi i casi il trattamento differenziato o diverso non ha alcuna razionale giustificazione né appare finalizzato a garantire o tutelare l'unità familiare.
Con l'imposta complementare si tende a colpire il reddito non in sé, all'atto e per il fatto del suo prodursi, sibbene in quanto riveli una data capacità contributiva, e cioè una attitudine concreta a concorrere alle spese pubbliche.
Può perciò apparire logico che sia tenuta presente la situazione in concreto del singolo soggetto, ed in rapporto a ciò, ragionevole che ai fini della determinazione del suo reddito complessivo netto concorrano il criterio analitico e quello sintetico.
Ma non si spiega come e perché un soggetto (il marito) possa e debba presentare una maggiore capacità contributiva per l'esistenza di redditi altrui di cui non abbia legalmente il possesso, e cioè il godimento o l'amministrazione senza obbligo della resa dei conti.
D'altra parte manca la possibilità che alla normativa de qua si riconosca la funzione di limite (alla eguaglianza giuridica dei coniugi) posto " a garanzia dell'unità familiare ", giacché a costituire e mantenere questa potrebbe giovare un regime di comunione dei beni e dei redditi relativi, ma non di certo un sistema tributario basato sopra un fittizio possesso di redditi comuni.
E con ciò appare evidente anche il contrasto con l'art. 31 della Costituzione. La normativa in esame non " agevola con -misure economiche ed altre provvidenze la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi " ed anzi dà vita per i nuclei familiari legittimi e nei confronti delle unioni libere, delle famiglie di fatto e di altre convivenze familiari, ad un trattamento deteriore.
Ricorre, infine, il mancato rispetto dell'art. 53 della Costituzione, per quanto sopra detto e per le ragioni che in seguito saranno indicate in occasione dell'esame delle altre questioni di legittimità costituzionale.5
La Corte, stante ciò, è dell'avviso che gli artt. 131 e 139 del testo unico del 1958 siano costituzionalmente illegittimi limitatamente all'inciso " i redditi della moglie si cumulano con quelli del marito " (contenuto nel secondo comma dell'art. 131) e cioè nella parte in cui in detti articoli si stabilisce che i redditi della moglie, la quale non sia legalmente ed effettivamente separata dal marito, concorrono, insieme con quelli del marito, a formare un reddito complessivo su cui è applicata con aliquota progressiva l'imposta complementare.
Tali conclusioni dispensano la Corte dal valutare le ulteriori denunce nei confronti delle stesse norme e in rapporto agli artt. 15,24 e 27 della Costituzione, giacché il loro esame è da ritenere assorbito se anche esse sono--in effetti debbono essere--intese come rivolte alle parti sopra precisate dei ripetuti articoli.
(...)
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