Settimio Carmignani Caridi

 

QUALIFICAZIONE ED AUTOQUALIFICAZIONE

DELLE CONFESSIONI RELIGIOSE

 

 

 

INDICE

 

 

Sent. n. 467 del 1992 (Corasaniti; Mirabelli): Trattamento fiscale delle associazioni religiose (Dianetic) - autoqualificazione (art. 4 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, ed art. 20 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 598)              

 

Sent. n. 195 del 1993 (Casavola; Ferri): Edilizia di culto - assegnazione di aree e contributi alle confessioni religiose prive di intesa (art. 1 della Abruzzo 16 marzo 1988, n. 9)

 

 

 

 

 

 

Sent. n. 467 del 1992 (Corasaniti; Mirabelli): Trattamento fiscale delle associazioni religiose (Dianetic) - autoqualificazione (art. 4 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, ed art. 20 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 598)

 

Le disposizioni dell'art. 4 del d.P.R. n. 633 del 1972 e dell'art. 20 del d.P.R. n. 598 del 1973, che agli effetti dell'I.V.A. e, rispettivamente, dell'I.R.PE.G., considerano estranee al concetto di esercizio di impresa, e perciò non soggette ad imposizione, se effettuate da, o per, associazioni religiose, la cessione di beni e la prestazione di servizi agli associati e la corresponsione, da parte di questi, di quote sociali, sono norme di diritto tributario comune, applicabili a tutte le associazioni che presentano i requisiti soggettivi previsti e nei limiti oggettivi delle attività e finalità precisate, senza che sia rilevante l'eventuale rapporto delle associazioni con gli ordinamenti di chiese o di confessioni. Neanche il diritto speciale posto da fonti di derivazione bilaterale, che disciplinano la condizione giuridica degli enti di singole confessioni religiose (cfr. art. 7, terzo comma, dell'Accordo ratificato con legge 25 marzo 1985, n. 121, 23, terzo comma, della legge 22 novembre 1988, n. 516, 27, secondo comma, legge 8 marzo 1989, n. 101) - diritto speciale che comunque non sarebbe utile elemento di comparazione - consente di affermare che le suddette agevolazioni non spettino agli enti associativi delle confessioni con intesa. è quindi da escludersi che al riguardo si sia riservato - come sostenuto dal giudice 'a quo’ - alle associazioni non riconosciute un ingiustificato maggior favore, rispetto alle confessioni religiose che hanno disciplinato bilateralmente le loro relazioni con lo Stato, lesivo degli artt. 3, 8 e 53 della Costituzione.

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: dott. Aldo CORASANITI;

Giudici: prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Francesco Paolo CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI,

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 4 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul valore aggiunto) e dell'art. 20 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 598 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul reddito delle persone giuridiche), promosso con ordinanza emessa il 12 giugno 1991 dal Tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di Camerino Vincenzo ed altri, iscritta al n. 724 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51, prima serie speciale, dell'anno 1991.

Visto l'atto di costituzione di Guadagnino Angelo nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 20 ottobre 1992 il Giudice relatore Cesare Mirabelli;

uditi gli avvocati Giovanni Leale e Valerio Onida per Guadagnino Angelo e l'avvocato dello Stato Franco Favara per il Presidente del Consiglio dei ministri.

(...)

Considerato in diritto

1.- Il Tribunale di Torino dubita, in riferimento agli artt. 3, 8 e 53 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art 4 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n.633 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul valore aggiunto) e dell'art. 20 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 598 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul reddito delle persone giuridiche). Le due disposizioni, di analogo tenore letterale, disciplinano l'ambito di applicazione, rispettivamente, dell'imposta sul valore aggiunto (I.V.A.) e dell'imposta sul reddito delle persone giuridiche (I.R.PE.G.), determinando quali cessioni di beni e prestazioni di servizi si considerano effettuate nell'esercizio di imprese e quali somme versate dagli associati concorrono a comporre il reddito imponibile delle associazioni.

2.- L'eccezione di inammissibilità formulata dall'Avvocatura dello Stato non ha fondamento.

Il Tribunale di Torino ha ritenuto, in base ad una valutazione preliminare non sindacabile, di dover fare applicazione delle norme la cui legittimità costituzionale è posta in dubbio. Non si può, in questa sede, valutare se "Dianetics Institute" sia da qualificare associazione religiosa ovvero organizzazione di natura diversa, né si può imporre al giudice del merito una differente sequenza logica nell'ordine degli accertamenti necessari per affermare che ricorrono gli elementi concreti per qualificare, in applicazione dell'astratta previsione della legge, una associazione come religiosa ovvero come organizzazione di natura diversa.

3. - La illegittimità costituzionale è stata prospettata, essenzialmente, sulla base di un duplice assunto:

a) che le disposizioni fiscali prese in considerazione non trovino applicazione per gli enti associativi riferibili alla Chiesa cattolica o alle confessioni religiose che hanno stipulato intese, di modo che ne deriverebbe una ingiustificata disparità di trattamento, per il maggior favore riservato alle associazioni non riconosciute rispetto alle confessioni religiose che hanno disciplinato bilateralmente le loro relazioni con lo Stato;

b) che le disposizioni fiscali in questione si applichino alle associazioni non riconosciute sulla base di una autoqualificazione religiosa delle stesse, mentre per le confessioni religiose esiste un controllo sullo statuto, in base all'art. 8 della Costituzione.

4. - L'ordinanza di rimessione non prospetta alcun dubbio in ordine ai criteri della legge di delega (9 ottobre 1971, n. 825), in forza della quale le disposizioni denunciate sono state adottate, né sul corretto rapporto tra le due fonti, sicché ogni osservazione formulata al riguardo dalla Avvocatura dello Stato si colloca fuori dal terreno di decisione.

5. - Per valutare la correttezza o meno della impostazione volta ad individuare nel trattamento che si assume diversificato (e deteriore) delle confessioni religiose con intesa l'elemento di comparazione di una irragionevole disparità di trattamento delle associazioni religiose, e per valutare se non sia verificabile la natura religiosa delle associazioni che si affermano come tali, determinando un ulteriore profilo di irragionevolezza, occorre preliminarmente precisare il contenuto delle prescrizioni normative prese in esame, con riferimento tanto alla disciplina fiscale quanto a quella di derivazione bilaterale adottata per regolamentare le relazioni tra lo Stato e le chiese e confessioni religiose che hanno stipulato accordi o intese.

6. - L'art. 4 del d.P.R. n. 633 del 1972 definisce l'"esercizio di imprese", i cui atti danno luogo ad operazioni imponibili ai fini dell'I.V.A., come esercizio per professione abituale, anche se non esclusiva, delle attività commerciali; considera inoltre effettuate nell'esercizio di imprese le cessioni di beni e le prestazioni di servizi fatte da associazioni che hanno per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di attività commerciali; considera infine, per le altre associazioni, effettuate nell'esercizio di imprese soltanto le cessioni di beni e le prestazioni di servizi fatte nell'esercizio di attività commerciali, comprendendo in tale ambito anche le cessioni di beni e le prestazioni di servizi agli associati verso il pagamento di un corrispettivo o di uno specifico contributo supplementare. Fanno eccezione a questa ultima regola, restando escluse dalla qualificazione di prestazione fatta nell'esercizio di attività commerciale, le cessioni di beni o le prestazioni di servizi "effettuate in conformità alle finalità istituzionali da associazioni politiche, sindacali e di categoria, religiose, assistenziali, culturali e sportive".

Analogo è il contenuto normativo dell'art. 20 del d.P.R. n. 598 del 1973, che, nel definire le componenti positive dell'imponibile degli enti non commerciali ai fini dell'imposta sul reddito delle persone giuridiche, stabilisce anzitutto che le quote associative ed i contributi degli associati non concorrono a formare il reddito imponibile, ad eccezione delle somme corrisposte per specifiche prestazioni rese nell'esercizio di attività commerciali. La stessa disposizione considera fatte nell'esercizio di attività commerciali anche le cessioni di beni e le prestazioni di servizi agli associati verso pagamento di corrispettivi specifici, "ad eccezione di quelle effettuate in conformità alle finalità istituzionali da associazioni politiche, sindacali e di categoria, religiose, assistenziali, culturali e sportive".

Sia l'art. 4 del d.P.R. n. 633 del 1972 che l'art. 20 del d.P.R. n. 598 del 1973 - inseriti, rispettivamente, tra le "disposizioni generali" della disciplina dell'imposta sul valore aggiunto e nel contesto delle norme che regolano la posizione degli "enti non commerciali" quali soggetti passivi dell'imposta sul reddito delle persone giuridiche - enunciano una disciplina fiscale che nel rapporto tra norme utilizza lo schema della regola e della eccezione, ma nell'uno e nell'altro caso dettano disposizioni di diritto tributario comune, applicabili a tutte le associazioni che presentano i requisiti soggettivi previsti dalle norme e nei limiti oggettivi delle attività e finalità dalle stesse precisate, senza che sia rilevante l'eventuale rapporto delle associazioni con gli ordinamenti di chiese o di confessioni religiose.

Neanche il diritto speciale posto da fonti di derivazione bilaterale, che disciplinano la condizione giuridica degli enti di singole confessioni religiose, consente di affermare che le disposizioni tributarie in questione, nei limiti dalle stesse previste, non trovano applicazione agli enti associativi delle confessioni con intesa.

Nelle leggi adottate sulla base di intese non mancano disposizioni che, per il regime fiscale, rinviano espressamente al diritto comune; comunque le attività diverse da quelle di religione o di culto (le quali ultime rimangono equiparate a quelle di beneficenza o di istruzione) sono assoggettate al regime tributario previsto dalle leggi dello Stato per tali attività (cfr. art. 7, terzo comma, dell'Accordo ratificato con legge 25 marzo 1985, n. 121; art. 23, terzo comma, della legge 22 novembre 1988, n. 516; art. 27, secondo comma, della legge 8 marzo 1989, n. 101). Infine il diritto speciale non sarebbe, comunque, utile elemento di comparazione.

Manca, quindi, il presupposto della diversità di trattamento, ipotizzata come lesiva delle disposizioni costituzionali indicate nell'ordinanza di rimessione.

7. - La questione di legittimità costituzionale è stata prospettata anche sotto un altro profilo, deducendo la irragionevolezza della non controllabilità della natura religiosa della associazione, sulla base dell'assunto che sia sufficiente o vincolante la "autoqualificazione" che l'associazione stessa faccia di se medesima: con l'effetto che risulterebbero automaticamente applicabili i benefici previsti dalle disposizioni denunciate, senza una verifica degli "statuti", prevista per le confessioni religiose.

La disciplina tributaria dettata dalle disposizioni sospettate di illegittimità costituzionale, quale risulta anche dagli orientamenti della prassi amministrativa e dalla interpretazione data ad esse dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, esclude gli esiti irragionevoli di una incontrollabile autoqualificazione (meramente potestativa) delle associazioni, come pure esclude una latitudine di atti non assoggettati ad imposta, al di là dell'ambito della ratio esoneratrice.

L'agevolazione prevista dall'art. 4 del d.P.R. n. 633 del 1972, con una disposizione da interpretare rigorosamente in ragione del rapporto di eccezione che la lega ad una regola più generale, è ancorata ad un triplice e concorrente presupposto: che la cessione di beni o la prestazione di servizi (non assoggettabili ad I.V.A.) sia effettuata da una associazione che sia stata qualificata come religiosa; che la prestazione sia resa a propri associati; che la stessa sia effettuata in conformità alle finalità istituzionali dell'associazione. Analoga è l'articolazione della disciplina dettata dall'art. 20 del d.P.R. n. 598 del 1973.

Il primo dei requisiti indicati riguarda l'ente che sarebbe, altrimenti, soggetto all'imposta. Come per tutti gli altri tipi di associazione sottoposti alla medesima disciplina (associazioni politiche, sindacali, assistenziali, culturali o sportive) manca nello stesso testo legislativo una esplicita definizione di ciascun tipo di associazione. Ciò non significa che non si possa, e anzi non si debba, desumere dall'insieme dell'ordinamento il significato della locuzione "associazione religiosa" (come delle altre e distinte espressioni: associazione politica, sindacale, e così via). La qualificazione dell'ente non è sottratta alla valutazione della sua reale natura, secondo i criteri desumibili dall'insieme delle norme dell'ordinamento.

Le associazioni a carattere religioso che non siano già state civilmente riconosciute come tali (secondo le regole poste sulla base di intese o secondo la disciplina, che ancora sopravvive, della legge 24 giugno 1929, n. 1159) devono comprovare la natura e la caratteristica religiosa dell'organizzazione, secondo i criteri che qualificano nell'ordinamento dello Stato i fini di religione e di culto. Ciò dovrà essere fatto alla stregua della reale natura dell'ente e dell'attività in concreto esercitata, non potendosi ritenere, in conformità al principio già enunciato dalla Cassazione per altri tipi di enti non commerciali, che una associazione sia arbitra della propria tassabilità.

Parimenti rigorosa è la delimitazione normativa degli altri requisiti richiesti perché la cessione di beni o la prestazione di servizi non sia assoggettata ad imposta: deve avvenire esclusivamente nei confronti di soggetti pienamente titolari dei diritti e degli obblighi derivanti dalla qualità di associati; deve essere inoltre effettuata in conformità alle finalità istituzionali, vale a dire alle finalità che caratterizzano come essenzialmente religiosa l'associazione. La presenza di tutti questi requisiti riguarda tanto le associazioni riferibili all'ordinamento di confessioni religiose con intese, quanto le altre associazioni che, indipendentemente dal raccordo con ordinamenti di confessioni religiose, presentino le caratteristiche previste dalle norme in esame.

Neanche la seconda prospettazione della questione di legittimità costituzionale proposta dal Tribunale di Torino è, pertanto, fondata.

Per questi motivi

La Corte costituzionale

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul valore aggiunto) e dell'art. 20 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 598 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul reddito delle persone giuridiche), in riferimento agli art. 3, 8 e 53 della Costituzione, sollevata dal Tribunale di Torino con ordinanza emessa il 12 giugno 1991.

(...)

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Sent. n. 195 del 1993 (Casavola; Ferri): Edilizia di culto - assegnazione di aree e contributi alle confessioni religiose prive di intesa (art. 1 della Abruzzo 16 marzo 1988, n. 9)

 

Rispetto all'assegnazione di benefici finalizzati ad agevolare l'effettivo godimento del fondamentale e inviolabile diritto di libertà religiosa (art. 19 Cost.), di cui l'esercizio pubblico del culto è componente essenziale, ciascuna confessione religiosa - che tale risulti non in base a mera autoqualificazione, ma a precedenti riconoscimenti, allo statuto o almeno alla comune considerazione - è idonea a rappresentare gli interessi religiosi dei suoi appartenenti, indipendentemente dal suo 'status', e senza possibilità di discriminazione, stante l'eguale libertà di tutte le confessioni davanti alla legge (art. 8, comma primo, Cost.). Perciò, l'attribuzione di aree riservate e di contributi finanziari per la realizzazione di edifici di culto - mentre ragionevolmente è condizionata e proporzionata alla presenza nel territorio comunale della confessione che richiede i benefici - non può essere legittimamente negata alle confessioni acattoliche che non abbiano ancora stipulato l'intesa con lo Stato prevista dall'art. 8, comma terzo, Cost., o che siano prive dello statuto organizzativo di cui al comma secondo dello stesso articolo.

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;

Giudici: dott. Francesco GRECO, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO,

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 5, terzo comma, della legge della Regione Abruzzo 16 marzo 1988, n. 29, recante "Disciplina urbanistica dei servizi religiosi", promosso con ordinanza emessa il 19 febbraio 1992 dal Tribunale amministrativo regionale per l'Abruzzo sul ricorso proposto dalla Congregazione cristiana dei Testimoni di Geova contro il Comune dell'Aquila, iscritta al n. 549 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell'anno 1992.

Visti gli atti di costituzione della Congregazione cristiana dei Testimoni di Geova e del Comune dell'Aquila nonché l'atto di intervento del Presidente della Regione Abruzzo;

udito nell'udienza pubblica del 9 febbraio 1993 il Giudice relatore Mauro Ferri;

uditi gli avvocati Stefano Grassi, Pietro Rescigno e Angelo Clarizia per la Congregazione cristiana dei Testimoni di Geova e l'Avvocato dello Stato Carlo Salimei per la Regione Abruzzo.

(...)

Considerato in diritto

1. Il Tribunale amministrativo regionale per l'Abruzzo ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 5, terzo comma, della legge regionale Abruzzo 16 marzo 1988 n. 29, recante la disciplina urbanistica dei servizi religiosi, nella parte in cui prevedono l'erogazione di contributi solamente a favore delle confessioni religiose i cui rapporti con lo Stato siano regolati sulla base di intese, ai sensi dell'art. 8, terzo comma, della Costituzione.

Siffatte disposizioni - ad avviso del giudice remittente - si porrebbero in contrasto con gli artt. 2, 3, primo e secondo comma, 8, primo comma, 19, 20, 117 e 120, terzo comma, della Costituzione.

2. La legge della Regione Abruzzo deferita al vaglio di questa Corte disciplina - come è espressamente enunciato nell'art. 1 - "i rapporti intercorrenti tra insediamenti residenziali e servizi religiosi ad essi pertinenti, nel quadro delle attribuzioni spettanti rispettivamente ai comuni ed agli enti istituzionalmente competenti in materia di culto della Chiesa cattolica e delle altre confessioni religiose, i cui rapporti con lo Stato siano disciplinati ai sensi dell'art. 8, terzo comma, della Costituzione e che abbiano una presenza organizzata nell'ambito dei comuni interessati dalle previsioni urbanistiche di cui ai successivi articoli".

L'art. 5, poi, prevede, al primo comma, che "I comuni devolvono entro il 31 marzo di ogni anno alle competenti autorità religiose di cui alla presente legge una aliquota pari al 10% dei contributi per urbanizzazione secondaria loro dovuti"; successivamente, dopo aver regolato le modalità di determinazione delle somme, il terzo comma del medesimo art. 5 dispone: "i contributi sono corrisposti alle confessioni religiose che facciano richiesta e che abbiano i requisiti di cui al precedente art. 1: proporzionalmente alla loro consistenza ed incidenza sociale".

Questa Corte è pertanto chiamata a decidere se la riserva esclusiva dei detti contributi in favore, oltre naturalmente che della Chiesa cattolica, delle sole confessioni religiose che abbiano regolato i loro rapporti con lo Stato attraverso le intese previste dall'art. 8, terzo comma, della Costituzione, contrasti con il principio di eguale libertà di tutte le confessioni religiose e con il diritto assicurato a tutti di professare la propria fede religiosa e di esercitarne in pubblico il culto; in particolare, quindi, con riferimento agli artt. 8, primo comma, e 19 della Costituzione.

3. La questione è fondata.

La norma sottoposta al vaglio della Corte è compresa nella "disciplina urbanistica dei servizi religiosi" adottata dalla Regione Abruzzo nell'ambito della propria competenza in materia urbanistica, e nel contesto delle disposizioni statali che comprendono le chiese e gli altri edifici per i servizi religiosi tra le opere di urbanizzazione secondaria, al pari di altri servizi di pubblico interesse (cfr. legge n. 167 del 1962 modificata dalla legge n. 865 del 1971). La disciplina della Regione Abruzzo prevede fra l'altro, all'art. 3, una dotazione di aree specificamente riservate ai servizi religiosi sino ad un massimo del 20% di quelle obbligatoriamente previste per attrezzature di interesse comune, nonché all'art. 5 l'erogazione di contributi nella misura pari al 10% dei contributi per urbanizzazione secondaria dovuti ai comuni, da utilizzarsi per la realizzazione di attrezzature di interesse comune di tipo religioso.

Si è di fronte quindi ad un intervento generale ed autonomo dei pubblici poteri che trova la sua ragione e giustificazione - propria della materia urbanistica - nell'esigenza di assicurare uno sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitativi e nella realizzazione dei servizi di interesse pubblico nella loro più ampia accezione, che comprende perciò anche i servizi religiosi.

La realizzazione di questi ultimi ha per effetto di rendere concretamente possibile, e comunque di facilitare, le attività di culto, che rappresentano un'estrinsecazione del diritto fondamentale ed inviolabile della libertà religiosa espressamente enunciata nell'art. 19 della Costituzione.

In tale campo perciò l'intervento dei pubblici poteri deve uniformarsi al principio supremo "della laicità dello Stato che è uno dei profili della forma di Stato delineata nella Carta Costituzionale della Repubblica", principio che "implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale" (cfr. sent. n. 203 del 1989).

4. La tesi difensiva della Regione Abruzzo si basa in sostanza sull'argomento secondo cui l'esclusione dai contributi delle confessioni religiose che non abbiano regolato per legge i propri rapporti con lo Stato mediante intese non darebbe luogo a violazione dei principi di libertà e di uguaglianza essendo il differente trattamento legittima conseguenza di situazioni non omogenee.

Ma l'argomento è fuorviante: il rispetto dei principi di libertà e di uguaglianza nel caso in esame va garantito non tanto in raffronto alle situazioni delle diverse confessioni religiose, (fra l'altro sarebbe difficile negare la diversità di situazione della Chiesa cattolica), quanto in riferimento al medesimo diritto di tutti gli appartenenti alle diverse fedi o confessioni religiose di fruire delle eventuali facilitazioni disposte in via generale dalla disciplina comune dettata dallo Stato perché ciascuno possa in concreto più agevolmente esercitare il culto della propria fede religiosa.

Se la diversità di trattamento ai fini dell'ammissione al contributo pubblico, come la stessa difesa della Regione sottolinea, è collegata alla entità della presenza nel territorio dell'una o dell'altra confessione religiosa, il criterio è del tutto logico e legittimo, e la previsione in tal senso della legge regionale (artt. 1 e 5) non è contestabile; essa non integra nemmeno stricto sensu una discriminazione in quanto si limita a condizionare e a proporzionare l'intervento all'esistenza e all'entità dei bisogni al cui soddisfacimento l'intervento stesso è finalizzato.

Rispetto, però, alla esigenza sopra enunciata di assicurare edifici aperti al culto pubblico mediante l'assegnazione delle aree necessarie e delle relative agevolazioni, la posizione delle confessioni religiose va presa in considerazione in quanto preordinata alla soddisfazione dei bisogni religiosi dei cittadini, e cioè in funzione di un effettivo godimento del diritto di libertà religiosa, che comprende l'esercizio pubblico del culto professato come esplicitamente sancito dall'art. 19 della Costituzione.

In questa prospettiva tutte le confessioni religiose sono idonee a rappresentare gli interessi religiosi dei loro appartenenti. L'aver stipulato l'intesa prevista dall'art. 8, terzo comma, della Costituzione per regolare in modo speciale i rapporti con lo Stato non può quindi costituire l'elemento di discriminazione nell'applicazione di una disciplina, posta da una legge comune, volta ad agevolare l'esercizio di un diritto di libertà dei cittadini.

5. Invero, tutte le confessioni religiose sono - secondo il dettato dell'art. 8, primo comma, della Costituzione - egualmente libere davanti alla legge. A questo principio generale si aggiunge, nella disciplina del citato art. 8, l'affermazione del diritto delle confessioni di "organizzarsi secondo i propri statuti in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano" (secondo comma), cui segue la facoltà di aver rapporti con lo Stato, da disciplinare per legge sulla base di intese con le rappresentanze delle confessioni organizzate (terzo comma).

Possono quindi sussistere confessioni religiose che non vogliono ricercare un'intesa con lo Stato, o pur volendola non l'abbiano ottenuta, ed anche confessioni religiose strutturate come semplici comunità di fedeli che non abbiano organizzazioni regolate da speciali statuti. Per tutte, anche quindi per queste ultime - ed è ipotesi certo più rara rispetto a quella della sola mancanza d'intesa - vale il principio dell'uguale libertà davanti alla legge.

Una volta, dunque, che lo Stato e i poteri pubblici in genere ritengano di intervenire con una disciplina comune, quale è quella urbanistica, per agevolare la realizzazione di edifici e di attrezzature destinati al culto mediante l'attribuzione di risorse finanziarie ricavate dagli oneri di urbanizzazione, la esclusione da tali benefici di una confessione religiosa in dipendenza dello "status" della medesima, e cioè in relazione alla sussistenza o meno delle condizioni di cui al secondo e terzo comma dell'art. 8 della Costituzione, viene a integrare una violazione del principio affermato nel primo comma del medesimo articolo.

Resta fermo che per l'ammissione ai benefici sopra descritti non può bastare che il richiedente si autoqualifichi come confessione religiosa. Nulla quaestio quando sussista un'intesa con lo Stato. In mancanza di questa, la natura di confessione potrà risultare anche da precedenti riconoscimenti pubblici, dallo statuto che ne esprima chiaramente i caratteri, o comunque dalla comune considerazione.

Ferma restando quindi la natura di confessione religiosa, l'attribuzione dei contributi previsti dalla legge per gli edifici destinati al culto rimane condizionata soltanto alla consistenza ed incidenza sociale della confessione richiedente e all'accettazione da parte della medesima delle relative condizioni e vincoli di destinazione.

6. Quanto è stato detto fin qui in riferimento a tutte le confessioni religiose e all'art. 8 della Costituzione, trova ulteriore ed ampia conferma se si esamina più specificamente la questione sotto il profilo dell'art. 19 della Costituzione e dei diritti della persona.

L'Assemblea Costituente pervenne alla definitiva formulazione del testo così da garantire a chiunque il "diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di eserci tarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume". L'esercizio del culto - come si è già accennato - è dunque componente essenziale della libertà religiosa, conseguenziale alla stessa professione di una fede religiosa, non soggetto anche nella sua forma pubblica a nessun controllo, salvo la condizione, in un certo senso ovvia e naturale, che "non si tratti di riti contrari al buon costume" (A.C. pagg. 2773 e segg.).

Già nella sentenza n. 59 del 1958 questa Corte aveva ritenuto di dover "stabilire con chiarezza la distinzione, da cui si disnodano poi tutte le conseguenze, fra la libertà di esercizio dei culti acattolici come pura manifestazione di fede religiosa, e la organizzazione delle varie confessioni nei loro rapporti con lo Stato", distinzione "evidente dal punto di vista logico e positivamente fondata negli artt. 8 e 19 della Costituzione".

A parte la terminologia di "culti acattolici", che trova la sua spiegazione nella natura del giudizio che investiva la legge 24 giugno 1929 n. 1159 e il regio decreto 28 febbraio 1930 n. 289, concernenti appunto i culti definiti acattolici, la Corte sottolineò che la formula dell'art. 19 non potrebbe essere più ampia, nel senso di comprendere tutte le manifestazioni del culto, e conseguentemente dichiarò l'illegittimità costituzionale della norma che richiedeva l'autorizzazione governativa per l'apertura di templi od oratori per l'esercizio del culto.

7. In definitiva anche la decisione della questione oggi in esame è conseguenziale alle affermazioni di quella pronuncia e alla lettura che essa ha data degli artt. 8 e 19 della Costituzione.

Esattamente pertanto il T.A.R. remittente, nel riferirsi ai suddetti articoli, li ha collegati con gli artt. 2 e 3 della Costituzione, richiamando perciò la garanzia dei diritti inviolabili della persona ed il principio di uguaglianza nella sua più ampia accezione, comprendente la considerazione dei contenuti di libertà "in positivo" giusta la formulazione del secondo comma del citato art. 3.

Infatti gli interventi pubblici previsti dalla disposizione sottoposta al vaglio di questa Corte vengono ad incidere positivamente proprio sull'esercizio in concreto del diritto fondamentale e inviolabile della libertà religiosa ed in particolare sul diritto di professare la propria fede religiosa in forma associata e di esercitarne in privato o in pubblico il culto. Ne consegue che qualsiasi discriminazione in danno dell'una o dell'altra fede religiosa è costituzionalmente inammissibile in quanto contrasta con il diritto di libertà e con il principio di uguaglianza. Né siffatte conclusioni possono cambiare in dipendenza del fatto che i contributi pubblici per le finalità sopra descritte e con i controlli circa la loro effettiva destinazione e utilizzazione che la stessa legge prevede, vengano richiesti e percepiti dalle confessioni religiose, che provvedono a realizzare in rapporto alle esigenze della popolazione gli edifici di culto. è determinante la finalità che caratterizza la disposizione impugnata e l'effetto che ne discende: finalità ed effetto essendo quelli di facilitare l'esercizio del culto, l'agevolazione non può essere subordinata alla condizione che il culto si riferisca ad una confessione religiosa la quale abbia chiesto e ottenuto la regolamentazione dei propri rapporti con lo Stato ai sensi dell'art. 8, terzo comma, della Costituzione.

Restano assorbiti gli altri parametri costituzionali invocati nell'ordinanza di rimessione.

8. La questione sollevata dal giudice a quo investe l'art. 1 e l'art. 5, terzo comma, della legge regionale dell'Abruzzo n. 29 del 1988.

Invero la norma discriminatrice riconosciuta costituzionalmente illegittima è enunciata nell'art. 1 ed ha effetto non solo per l'art. 5 che espressamente la richiama a proposito dei contributi, bensì delimita l'area di applicazione dell'intera legge con effetto quindi per tutti gli interventi in essa previsti.

Per le ragioni su svolte la illegittimità costituzionale della norma discriminatrice contenuta nell'art. 1 non può non avere effetto per tutte le disposizioni della legge che la presuppongono o ad essa fanno esplicito riferimento.

Deve dunque dichiararsi la illegittimità costituzionale dell'art. 1 nella parte che enuncia l'anzidetto criterio discriminante.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della legge della Regione Abruzzo 16 marzo 1988 n. 29 ("Disciplina urbanistica dei servizi religiosi") limitatamente alle parole "i cui rapporti con lo Stato siano disciplinati ai sensi dell'art. 8, terzo comma, della Costituzione e".

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