Venerdi 6 gennaio 2001

"LE CONFESSIONI DI UN “TASSINARO”

«La gente non sa che il traffico è il nemico»

di GIANLUCA TAMILIA*

I clienti dicono sempre: “Mi scusi, ma è libero"? A volte mi verrebbe da rispondere: “In che senso?". Di fatto il senso lo conosco: per me quelle parole, come il ciak per un attore, significano l’inizio di un’altra giornata di lavoro da tassista a Roma. Come mi chiamo non è importante: dal momento in cui infilo la chiave nel cruscotto dell’automobile il mio nome è Missouri 10. Un fiume ed un numero qualsiasi, una sigla qualunque, che però ti si appiccica addosso come e più di un soprannome, al punto che la fai tua, ti ci identifichi, ti ci presenti, se ne senti pronunciare anche solo una parte ti giri incuriosito e anche un po’ seccato.
La giornata è una di quelle rigide di gennaio che sei costretto ad andare in giro con i finestrini sigillati. A piazza Venezia sale il solito uomo d’affari di mezza età, accento del sud trapiantato a Milano che viene a Roma per lavoro dal lunedì al giovedì. Si stupisce di non aver avuto problemi nel trovare il taxi: “Quando mi servite non ci siete mai. Lei non può neanche immaginare quanti appuntamenti ho mancato, a quanti contratti ho dovuto rinunciare a causa vostra". Mi aspetto che arrivi a pretendere un risarcimento da me. Non lo fa ed io affronto la situazione come ho imparato a fare da tempo: in effetti mi rendo conto che in certi periodi dell’anno e a determinate ore della giornata, potersi sedere su un taxi è un impresa disperata, appannaggio di pochi fortunati.
Gli spiego, però, che una grossa fetta di responsabilità ce l’ha il traffico: lei aspetta un taxi qui a Piazza Barberini, io magari, nel frattempo, sono bloccato, libero, in un ingorgo su corso Francia!. Fa finta di capire e quasi si scusa concludendo frettolosamente che la colpa è di quei provinciali degli italiani che rinuncerebbero a tutto tranne che alla macchina.
Arrivo alla stazione e carico su due ragazzi americani tutti brufoli e sacco a pelo. Stranamente hanno una stazza media e riescono a non sprofondare troppo nel sedile posteriore. In effetti il turista che viene dagli USA è riconoscibile da una evidente caratteristica: la generosità. Generosità sia nei confronti del cibo (non è importante di che tipo sia e da dove provenga) che ama oltremodo, sia nei confronti dei “taxi drivers" verso i quali, secondo un’abitudine diffusa, si sente debitore di una mancia proporzionata al prezzo della corsa. Lo stesso non si può dire degli spagnoli. Chiedete conferma a qualsiasi tassista: vi risponderà che più di una volta ha dovuto perdere mezz’ora per trovare le 50 lire di resto da dargli.
Comunque i due ragazzi mi chiedono di portarli in un albergo economico e pulito. Fortunatamente per loro la ressa pre-post-festaiola e giubilare è finita con la Befana e non mi è difficile trovargli una pensione disponibile non troppo lontana dal centro. A pensarci bene c’è un collega che racconta spesso di quella volta in cui alle 2 del mattino gli capita un giapponese che ha bisogno di dormire per qualche ora. Di alberghi liberi neanche l’ombra, d’altronde a quell’ora anche quelli con una camera non ci pensano neanche ad ospitarti.
Il giapponese è disperato, il tassista si accorge che ormai Roma è deserta e che per caricare il prossimo cliente occorrerà aspettare le 6 e d’improvviso ha l’intuizione. In un inglese improbabile propone al cliente di accontentarsi della sua macchina e di riposarsi lì se vuole, anche se con il tassametro acceso. Il giapponese lo prende in parola, accenna un inchino di ringraziamento e si sdraia subito: d’altronde una camera gli costerebbe molto di più. Il conducente già che c’è si appisola pure lui, felice di guadagnare qualcosa dormendo. All’alba caffè, stretta di mano, altri inchini e via, ognuno per la sua strada.
Di storie come questa se ne sentono tante, più raro è esserne protagonista. Faccio un esempio: da qualche mese si succedono incontri, riunioni e consulte in Comune per studiare l’opportunità e la fattibilità di un servizio di chiamata per taxi con un numero unico. Ebbene, tra i tassisti qualsiasi notizia su un argomento come questo si amplifica e si spegne, si ingigantisce e si affievolisce nell’arco di mezza giornata. Senti, allora, sull’argomento le opinioni più disparate, ti confronti con gli animi più accesi, con le paure più profonde e con l’indifferenza più scoraggiante, in un clima in cui la stessa persona dall’oggi al domani ha cambiato 5 o 6 volte idea senza, in fin dei conti, aver capito ancora molto di cosa si tratti.
Il numero unico si farà? Io credo di si, ma vedrà l’entusiasmo dei tassisti solo se riuscirà a conciliare lo sviluppo del servizio con il miglioramento delle loro condizioni di lavoro.
Si è fatta sera, intanto, e lo stomaco comincia a borbottare dalla fame. Una signora comincia a parlarmi della sua rovinosa vita coniugale, di quel bastardo del marito che l’ha lasciata per telefono e del fatto che non sarà contenta finché non lo vedrà rovinato. Sto zitto, accenno delle espressioni di consenso tipo: “ma va!", mi limito a fare “si" con la testa. D’altronde questo è uno dei miei ruoli, il più famoso, quello di confessore sconosciuto, di uditore che non giudica, di teste irrintracciabile. E’ una maschera che ci viene concesso di indossare, a noi tassisti, e allora tanto vale farlo con mestiere e dare un po’ di soddisfazione a chi ne vuole. Meglio queste situazioni di tante altre ove sei costretto a rispondere a chi ti accusa di aver scelto la strada più lunga o la più trafficata, quasi che ti piaccia sguazzare tra gli ingorghi.
Sono le dieci di sera e finisce il turno di lavoro.
Questa serata mi ricorda proprio quella in cui presi quell’aspirante suicida… ma questa è un’altra storia!
* Tassista