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ma se ce li chiedete per una buona causa vi autorizzeremo sicuramente ad utilizzarli, magari, con l'obbligo della citazione. "Imparare a imparare", articolo di Carlo Sappino |
Carlo Sappino, 6o dan di iaido, 4o dan di kendo |
Per illustrare esaustivamente questo argomento credo che si potrebbero scrivere centinaia e centinaia di pagine. In questo breve articolo ho voluto solo riportare alcuni spunti che potrebbero essere utili per migliorare le proprie capacità di apprendimento, focalizzando l'attenzione su alcuni elementi che, probabilmente, non sono troppo presenti nel nostro pensiero. L'ho scritto per gli iaido-ka che praticano assieme a me, ma si tratta di principi generali applicabili a qualunque disciplina o studio di differente natura da questo contesto. Cosa significa "imparare"?
"Acquistare cognizione" in un qualunque ambito significa modificare noi stessi. "Prima non sapevo, adesso so". Poco o tanto, secondo il contesto, qualcosa in noi si è modificato. è innegabile e risaputo che lo studio e l'acquisizione di conoscenze e competenze modifica la nostra struttura mentale. Com'è altrettanto noto che la conoscenza di nuove tecniche modifica le nostre prestazioni. Quindi imparare significa cambiare e cambiare significa modificare se stessi. Significa cambiare le cose ordinarie, le azioni consolidate, le abitudini, in altre parole, significa lasciare cosa eravamo per essere qualcosa di nuovo. La volontà di cambiare risulta quindi fondamentale per imparare. Negli studi teorici, come quelli scolastici, la percezione del cambiamento ha spesso necessità di tempi lunghi. Una consapevolezza che a volte nemmeno si manifesta in maniera tangibile, ma se ripensiamo con occhio distaccato a ciò che eravamo ed a ciò che siamo, ci rendiamo conto dei cambiamenti del nostro carattere e, spesso, delle nostre capacità di comprensione e interpretazione della realtà. Poco importa che questi cambiamenti dipendano da insegnamenti tratti dai libri che abbiamo letto o dalle esperienze maturate nella nostra vita, di certo siamo cresciuti e qualcosa in noi è cambiato. Sicuramente è più facile percepire i cambiamenti che si realizzano nell'ambito pratico manuale o nell'imparare qualcosa inerente la nostra motricità. Ci basta pensare a quando abbiamo imparato a pattinare, ad andare in bicicletta, a sciare. Sicuramente siamo passati attraverso ad una fase di apprensione, quando non di paura, per poi giungere ad una fase di appagamento e soddisfazione per aver superato le inevitabili difficoltà iniziali e magari ci apprestiamo a sviluppare ed affinare ulteriormente le nostre capacità acquisite per migliorare le nostre performance e magari per provare a primeggiare in queste nuove abilità. Questo è un cambiamento reale che modifica non solo le nostre capacità motorie, ma anche quelle psichiche e quelle intellettive. Siamo cambiati, poco o tanto, non siamo più come prima.
Facciamo un passo indietro: torniamo a quel giorno in cui siamo saliti su quella prima bicicletta privata delle rotelle ausiliarie ed analizziamo cosa è accaduto: - eravamo in una condizione comfortante, sapevamo camminare e correre, sapevamo pedalare, ci sembrava di non aver bisogno di altro per giocare al parco, per divertirci con gli amici; - abbiamo avuto paura sperimentando quella sensazione di mancanza di equilibrio che ci faceva sembrare impossibile la riuscita; - poi, con le prime pedalate autonome, abbiamo provato la gioia di essere stati capaci di superare quelle difficoltà che inizialmente ci sembravano insormontabili; - infine ci siamo talmente adattati alla nuova abilità da trovarci a nostro agio seduti sul sellino. Non siamo più ciò che eravamo prima, abbiamo imparato, e se non ci siamo accontentati del solo saper stare in sella desiderando andare oltre, al progredire delle nostre capacità motorie abbiamo affiancato anche uno studio teorico, correlato, che ci aiutasse a comprendere meglio ciò che ci stava appassionando, per poter meglio interpretarlo e progredire ulteriormente, o meglio, per poter "cambiare" ulteriormente. Guardiamoci un attimo indietro: eravamo a nostro agio con le rotelle, siamo stati costretti ad abbandonare questo stato confortevole ed abbiamo dovuto sperimentare la paura, l'insicurezza, per raggiungere un obiettivo: imparare ad andare in bicicletta. E' questo il processo dell'apprendimento? Credo di si con molte sfumature differenti. Allora quali sono le cose che ci consentono d'imparare? 1) Di sicuro la volontà di farlo. Ovvero l'essere in possesso di una spinta motivazionale che ci conduce a voler imparare a fare, ad essere, qualcosa di specifico. 2) La disponibilità ad uscire dalla nostra zona di comfort dove tutto "fila liscio" senza stress, senza patemi o incertezze. Ovvero accettare stress e paura e la disponibilità a guardare in faccia le nostre incertezze ovvero noi stessi. Il fallimento è sempre dietro l'angolo, ma se vogliamo veramente imparare, prima o poi, ci riusciremo. Una frase della mia Maestra (7.mo dan) di iaido mi ha sempre colpito: "al quinto dan possono arrivarci tutti, basta impegnarsi", e vi assicuro che il quinto dan è già un grandissimo traguardo che come minimo presuppone almeno una dozzina d'anni di pratica assidua e ben guidata. Quindi è evidente che la volontà è sicuramente un elemento predominante dell'imparare. La volontà di cambiare ci porta ad imparare passo dopo passo e contemporaneamente ad ampliare la nostra zona di comfort. Tornando alla bicicletta: siamo usciti dalla nostra zona di comfort, abbiamo provato lo stress e la paura, ma abbiamo imparato a pedalare. Adesso il saper fare questo ha ampliato la nostra bella area di tranquillità, siamo pronti per provare nuovamente paura e stress per affrontare il "down hill"? Morale: uscire dalla zona di comfort è sicuramente stressante, ma ci consente d'imparare (cambiare) e quindi di ampliare la zona di comfort stessa, pronti per una nuova sfida. Gli strumenti dell'imparare sono sicuramente lo studio, l'esercizio, l'osservazione, e la pratica (come da definizione iniziale tratta dal dizionario Treccani). Se portiamo tutto questo nell'ambito dello iaido (o del kendo o di qualunque altra disciplina) potremmo dire: 1) studiare i principi e la cultura della spada e del budo; 2) esercitare i fondamentali (kihon - ki: fondamenta o radici, hon: base); 3) osservare attentamente (mitorigeiko - mitori: osservare, vedere, geiko: esercizio) gli esempi, le dimostrazioni; 4) praticare il kata. Studiare! La differenza tra "fare" e "imitare" sta proprio nel comprendere e quindi fare proprio, il contesto socio-culturale di riferimento della disciplina. Non dobbiamo certo trasformarci in samurai del medioevo giapponese, saremmo ridicoli, ma se capiamo perché una cosa vada fatta in un certo modo allora la nostra pratica non sarà superficiale, non ci limiteremmo a scimmiottare, ma a fare. Come esempio, vi basterà collocare in questo contesto rei-ho (l'etichetta), pensare quanto peso esso abbia in un embu, dimostrazione, gara o esame che sia, e comprenderete il valore della comprensione e quindi dello studio. Rei-ho è solo un esempio, potremmo riferirci al ko-ryu (scuola antica) o all'evoluzione del seitei (iai federale), agli stessi kata e così via fino ad arrivare ai singoli elementi del kihon. Studiare per meglio fare e fare per approfondire lo studio. Fondamentale in questo è la pratica del kihon ovvero di quelle azioni base sulle quali è poi possibile costruire il kata. In qualunque disciplina la pratica costante dei fondamentali riveste un ruolo essenziale per la crescita personale qualunque sia il livello di destrezza raggiunto. Ichi gan, ni soku, san tan, shi riki, ovvero: uno guardare, due muoversi, tre essere determinati, quattro usare correttamente la tecnica. Questi sono per me i principi sui quali impostare il kihon, con l'obiettivo di creare movimenti "naturali" improntati a morbidezza e fluidità per ottenere tagli efficaci. Per definire come dev'essere eseguito un kata, trovo particolarmente efficace la locuzione in inglese: "soft, smooth and sharp", spesso udita in seminari di iaido. Infine una considerazione ancora sullo studio dei fondamentali. In una disciplina dove l'avversario, kaso-teki, è immateriale, ma la rappresentazione che dobbiamo fare è di un combattimento reale non si può prescindere dal loro studio continuo e reiterato, unico mezzo per ottenere, nel kata, azioni logiche (riai) per tempo e distanza (maai) e spirito (ki, kokoro). Osservare: mitorigeiko. L'insegnamento tradizionale giapponese, soprattutto nelle arti marziali nelle quali l'allievo si affidava al maestro già in giovanissima età, si basa essenzialmente sulla pratica continua e costante e sull'emulazione del maestro stesso. "Copiare, copiare e ancora copiare, fino a capire" e per copiare osservare attentamente. Naturalmente facile per bambini che si avvicinano alle discipline della spada tra i 6 e i 10 anni, difficile per noi occidentali che andiamo al dojo poche volte alla settimana e per tempi limitati e che magari, ci avviciniamo alla disciplina in età avanzata. Difficile per la nostra mente e per il nostro pensiero, figlio del razionalismo e dell'illuminismo, che necessita della spiegazione. Tuttavia, con ovvie difficolta, anche noi occidentali possiamo e dobbiamo approfondire il nostro studio attraverso l'osservazione di soggetti che riteniamo possano essere d'esempio per il nostro progredire. Importante anche osservare per individuare gli errori degli altri e di riflesso comprendere i propri. Come spesso ripete Zanoni Sensei: "quando vedete un praticante che commette un errore dovete pensare: lo faccio anche io! ... e di conseguenza valutare le correzioni possibili." Praticare il kata. Inizialmente pare il punto focale dello studio che un praticante deve intraprendere, ma come si è visto, così non è, pur restando un elemento fondamentale della pratica. Un kata senza i contenuti che potremmo dargli con lo studio, nelle varie modalità sopra illustrate, è un kata vuoto, è un kata morto, fatto solo di movimento d'arti e forza di muscoli. Un kata "pieno" di contenuto è invece bello da vedere e bello da praticare, è un kata vivo, perché alla fine lo studio non ha termine e mentre il kata si modella su di noi, noi cresciamo con lui. A che serve ripetere e ripetere un kata tante volte distrattamente, utilizzando solo gli automatismi che abbiamo costruito? ... meglio allora una o due esecuzioni soltanto, ben concentrati su ogni aspetto del kata. Studiare e praticare, meglio se consapevolmente, deliberatamente, mai "per forza". La "pratica deliberata" (termine coniato dallo psicologo K. A. Ericsson) infatti sottintende la prevalenza della qualità della pratica piuttosto che la quantità. Secondo i suoi studi non è tanto la quantità di ore passate ad allenarsi a garantire un reale progresso, ma il modo in cui è realizzato ogni singolo allenamento. Interessante un esempio che il Dott. Ericsson fa per spiegare la pratica deliberata: "Tornando a casa facciamo le scale, questo esercizio sarà benefico per i nostri muscoli, per il nostro apparato cardio-respiratorio. Ciò vale anche se siamo costretti perché l'ascensore è rotto, ma se lo faremo per scelta ci verrà naturale mettere in gioco altri aspetti, proveremo delle alternative come fare i gradini a due a due o a percorre rampe ad occhi chiusi, oppure cominceremo a cronometrare ed ogni volta proveremo a migliorare la nostra performance e tutto questo renderà ancora maggiori i benefici che trarremo da questa semplice attività fisica." Fondamentali per la pratica deliberata sono due elementi: 1) la capacità d'individuare le specifiche competenze della disciplina che una volta acquisite e consolidate ci consentono di progredire verso l'obiettivo / traguardo che abbiamo prefissato e su di esse concentrarci; 2) la volontà di praticare sfidando continuamente i propri limiti, le proprie difficoltà, ad ogni allenamento allargando ogni volta un poco le pareti della nostra comfort zone. In conclusione: per imparare bisogna cambiare e per cambiare dobbiamo investire. Investire le nostre risorse materiali e non. Investire energie, tempo e denaro per poter studiare ed essere presenti a quei momenti di pratica che ci permettono d'imparare, ma anche investire in stress e paura per uscire da quella "comfort zone" che impedirebbe ogni progresso, che ci fa temere il confronto ed il giudizio degli altri. Ostacoli questi che però, una volta superati, fanno crescere la nostra autostima, fanno credere in noi stessi e alla fine ci rendono disponibili ad affrontare nuove sfide. Perché uno degli aspetti positivi della comfort zone è che possiamo ampliarla aggiungendo quelle nuove conoscenze per le quali abbiamo investito molto e da li ripartire ... Volontà, concentrazione, disponibilità, pazienza e metodo ... questa è la Via. |
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