Nascita
e primi anni
In un’umile casetta
di uno dei tanti tortuosi vicoli della vecchia Taranto medioevale, il
16 novembre 1729 veniva alla luce il novello Santo francescano Egidio
Maria di S. Giuseppe. La sua nascita non fu salutata da canti, festini,
luci e suoni. La sua non era una ricca famiglia nobile, potente e ricca
ma era una famiglia di modestissimi artigiani. Infatti il padre, Cataldo
Postillo e la madre, Grazia Procaccio, campavano la vita, sbarcavano
il lunario col misero guadagno che ricavavano lavorando le funi.
Ma il Signore che diede alla povera famiglia Postillo scarso pane e
mancanza di agi e delle comodità più semplici, in compenso
arricchì di fervore e delle più sode virtù cristiane,
facendo germogliare dal suo seno un fiore di virtù e di santità
che renderà glorioso il suo nome sulla terra e in cielo, nei
secoli e nell’eternità.
Così il bravo Cataldo e la buona Grazia divennero i genitori
fortunati di un gran Servo di Dio, Sant’Egidio Maria di S. Giuseppe.
Appena qualche anno dopo la nascita il bambino fu battezzato ed ebbe
i nomi di Francesco, Antonio, Pasquale quasi a presagio del glorioso
Ordine Serafico che avrebbe abbracciato nella rigida Riforma proposta
da quel portento di penitenza e di contemplazione che fu S. Pietro d’Alcantara
e di cui fu gemma fulgida e stella di primaria grandezza S. Pasquale
Baylon.
E di S. Francesco – divenuto religioso- il nostro Santo imiterà
la povertà e la penitenza. Di Sant’Antonio ripeterà
i miracoli e di S. Pasquale i fervori eucaristici.
Il fortunato bambino, prevenuto dalla grazia di Dio per il S. Battesimo,
cresceva nelle virtù e fu presto un piccolo angelo.
La Prima Comunione segnò poi un aumento di fervore in Francesco
Antonio che, da quel primo bacio e incontro con Gesù Eucaristico,
si consacrò ad un assiduo culto a Gesù Sacramentato: partecipazione
alla Messa, Comunione frequente, Visite quotidiane, accompagnamento
del S. Viatico. Non inferiore fu la sua tenera devozione per la Santa
Vergine che onorava con preghiere e con il candore del suo cuore verginale;
si iscrisse subito alla Confraternita del SS. Rosario. Tra i compagni
si distingueva per la modestia, la serietà, la riservatezza,
l’amabilità di quanti ebbero la fortuna di conoscerlo,
e tutti lo acclamavano come un angelo. Ai chiassi puerili preferiva
il raccoglimento e la gioia di vita interiore.
Forse non conobbe mai la scuola, perché avviato prestissimo a
lucrarsi il pane nell’umile lavoro di felpaiolo. Mai andava al
lavoro, se prima non avesse partecipato o servito la S. Messa nella
Chiesa degli Alcantarini. Mai si metteva al lavoro senza prima congiungere
le mani, elevare gli occhi al cielo per una breve preghiera; mai iniziava
il lavoro senza farsi molte volte il segno della Croce. Parlava sempre
delle virtù, di Dio, tanto che il suo padrone era solito dire:
“Da che tengo con me Francesco Antonio, la mia bottega è
divenuta un Oratorio”. Le sue mete di ogni giorno erano queste
tre: casa, bottega e Chiesa.
L’ombra
della Croce
A diciotto anni gli
morì il padre e ne fu addoloratissimo. Così egli si trovò,
sebbene adolescente, a dover reggere il carico della povera e desolata
famiglia, divenne il sostegno della madre vedova e di tre fratellini.
Compreso del suo dovere di essere figlio e sostegno della famiglia,
raddoppiò le sue consuete fatiche e per questo si decise a cambiare
l’arte di felpaiolo in quella più facile e redditizia del
funaiolo.
Dei suoi lucri soleva farne due parti: una la consegnava alla madre
perché ne usasse per i bisogni della famiglia, e l’altra
era per i poveri. Ai compagni di lavoro che, ammirati ed edificati,
gli domandavano come avrebbe fatto per il suo domani, rispondeva: “Il
Signore ci pensa”.
Ma mentre egli tanto si affaticava nel guadagnare per provvedere il
più possibile alle necessità della casa, l’ombra
di una nuova pena si profilava sulla sua giovinezza: la madre si era
determinata alle seconde nozze. Quantunque egli fosse in tutto abbandonato
nelle mani del Signore, pure pensando alle conseguenze non liete che
tante volte funestano la famiglia quando in essa capita una matrigna
o un patrigno, ne fu profondamente addolorato.
Dio benedetto che da Padre pietoso amorevolmente veglia sulle sue creature,
sa volgere però a bene e a maggiore vantaggio dei suoi servi
quelle stesse cose che a noi poveri miopi della terra sembrano avversità
e raggiunge, contro tutti i più avveduti disegni umani, i suoi
fini altissimi.
Fu così nel nostro caso: conquiso il patrigno della virtù
di Francesco Antonio, non solo lo sgravò del peso della famiglia,
ma gli permise che disponesse liberamente dei suoi guadagni facilitandogli
così di attuare il suo sogno di farsi religioso.
Si direbbe: la morte del padre ritardò la sua vocazione religiosa,
ma la venuta del patrigno gliela rese possibile e gliela facilitò.
Appena perciò riordinata la famiglia, egli lasciò il mondo
e si ritirò nel chiostro. Egli voleva essere di Dio, tutto di
Dio, tutto per Dio, tutto e per sempre con Dio. Ma dove? Ma come?
Celeste visione
Si, ormai era sicuro;
la vocazione alla vita religiosa la sentiva chiara, precisa nell’anima
e fin dalla prima giovinezza, ma era incerto, in ansia sulla scelta
dell’Istituto da abbracciare. Si consigliò, pregò
e iniziò una novena alla Celeste Regina perché lo illuminasse;
nel settimo giorno egli vide in sogno due venerandi religiosi Alcantarini.
Uno era sacerdote e l’altro Laico che avvicinandoglisi amabilmente,
lo invitavano a seguirli nel loro Istituto. L’indomani, appena
svegliato, il pio giovane, ancora sotto dolce emozione del sogno fatto,
corse al Convento dei Francescani Alcantarini da poco fondato in Taranto
e con grande semplicità chiese di parlare con quei due religiosi,
che poche ore prima lo avevano invitato. Ma per quanti particolari egli
fornisse sulle fattezze e sulle qualità dei due Frati da lui
visti, nessuno seppe indicarglieli; anzi finirono col classificarlo
allucinato e visionario.
Mortificato ma non scoraggiato; incompreso dagli uomini il pio giovane
si rivolse a Dio: entrò nella Chiesa del Convento per sfogare
lì, ai piedi di Gesù, l’intima sua pena. Ed ecco
che i suoi occhi, sollevandosi ai due lati dell’Altare Maggiore,
s’incontrano e fissano le immagini di San Pietro d’Alcantara
e di S. Pasquale Baylon.
Guarda, osserva attentamente e riconosce in essi i due Religiosi apparsigli
in sogno. Era dunque quello l’Istituto da abbracciare; era là
che il Signore lo chiamava.
Da funaio a…Frate
L’indomani si
ripresentò al Padre Guardiano e poi al Padre Provinciale e, osservate
le nome prescritte dalle regole, con ineffabile gioia del suo cuore
fu ricevuto fra gli Alcantarini nell’umile stato di Fratello Laico.
Era il 1754 e lui aveva 24 anni e due mesi.
A Galatone fece il suo noviziato mutando il nome del secolo di Francesco
Antonio in quello di Frate Egidio della Madre di Dio. Trapiantato così
dal mondo nel mistico rifugio di santità e di pace, quel è
sempre una casa di noviziato e quale era il noviziato di Galatone, sotto
la guida di abili e santi maestri e all’ombra soavemente materna
della Vergine, la cui immagine adornava la piccola cappella, l’umile
fraticello dall’aspetto modesto e pio, fece progressi da gigante
nella perfezione religiosa. Vivendo in quel Convento tutto sacro al
silenzio, al raccoglimento, alla preghiera ed alla pratica delle virtù,
egli si sentiva estasiato di tanta povertà, di tanto fervore
e di tanta intima pace.
Avrebbe baciato (come in realtà farà quando nell’ultima
infermità sarà costretto a lasciare la sua cameretta nuda
per chiudere i suoi giorni in una stanza più ampia) quelle mura
non sapendo esprimere in altro modo la sua felicità. Dimesso,
mortificato, puntuale fino allo scrupolo nell’osservanza del regolamento
del Noviziato, fin dai primi giorni si attirò l’attenzione,
l’ammirazione e l’affetto dei Superiori e Confratelli. Anche
i più provetti nella virtù e nell’esatta osservanza
delle regole, si stimavano “appena principianti” innanzi
al fervore e allo zelo con cui quel giovane Novizio compiva le sue opere
di pietà. Amante del silenzio, in cui il Signore parla all’anima,
dedito alla contemplazione delle celesti cose e degli augusti e soavi
misteri della fede, esattissimo nel compiere gli uffici assegnatigli
dall’ubbidienza, umile e docile sino all’eroismo, di grado
in grado saliva, senza deviazioni e tentennamenti, la rapida scala della
santità. E la Comunità che pur era adusa ad asceti di
alta e robusta tempra, guardava commossa quel giovane prevenuto da tante
grazie, e lo proponeva ai compagni e a se stessa come un modello. Alla
fine dell’anno di prova, Fra Egidio si dispose alla Professione
Solenne col ritiro di otto giorni e con altri esercizi di virtù
e di penitenza e il 28 febbraio 1755, in grande fervore di spirito e
con tutto l’entusiasmo della sua bella anima, emetteva i suoi
voti irrevocabili, legandosi a Gesù per la vita con i tre santi
nodi: povertà, obbedienza e castità.
Fu in questa circostanza che invece di Fra Egidio della Madre di Dio,
si chiamò Fra Egidio Maria di S. Giuseppe.
Super candelabrum
Dalla dolce mistica
solitudine di Galatone, dall’obbedienza è mandato di famiglia
a Squinzano, dove brillerà, come nella Comunità da cui
partiva, con la luce delle sue virtù e dei suoi esempi e sarà
di edificazione a tutti. Ma il Signore, che guida i passi dei suoi Servi
alla meta designata dalla sua infinita provvida Sapienza, e che voleva
fare di questo piccolo e semplice secondo il Vangelo lo strumento illuminato
della sua gloria per il trionfo del bene nelle anime con l’esempio
luminoso di una vita di pietà e di purezza, dispose diversamente.
Dai superiori fu destinato a Napoli, nel Convento di S. Pasquale a Chiaia,
la casa fortunata che Fra Egidio santificherà con le sue virtù,
renderà illustre, nota col suo nome ed i suoi miracoli, e dove
lascerà il suo Corpo venerato.
E Napoli, la città che alla bellezza del suo cielo e all’incanto
del suo mare univa, in stridente contrasto, come tutte le grandi metropoli
di mare, la nebbia del vizio ed il pianto delle vittime della Rivoluzione,
vide un giorno giungere dalla Puglia un fraticello da nulla in apparenza,
e stabilirsi nel Convento di San Pasquale a Chiaia. Da principio i Superiori
gli affidarono l’ufficio di cuoco, e poi quello del lanificio
conventuale, e infine l’ufficio di portinaio, ufficio, in cui
si richiede molta affidabilità e mitezza d’animo. Le regole
dell’Istituto Alcantarino stabilivano che l’ufficio di portinaio
dovesse affidarsi solo al migliore dei fratelli laici; al religioso,
cioè, che per prudenza, modestia e carità fosse esemplare,
dipendendo spesso proprio dal comportamento del portinaio, la stima
ed il buon nome dei Frati.
Così il Beato, ebbe agio e modo di esercitare, tutti i giorni,
le virtù tanto necessarie ed edificanti della pazienza e della
carità, specie verso i poveri che affluivano come affluiscono
sempre, in gran numero alla porta. Ben presto i poveri, gli infelici
capirono che quel nuovo frate portinaio, così mite, così
sorridente, pio e caritatevole non poteva essere che un’anima
bella e santa; incominciarono ad esaltarne le virtù, a paragonare
la bontà, e tutta Napoli conobbe il suo nome. Allora i Superiori
pensarono che Fra Egidio ormai era una “lucerna” da non
tenersi più nascosta sotto il moggio, ma matura per salire “sul
candelabro”, perché egli col suo aspetto mite e buono,
con la sua affidabilità e modestia e col profumo di virtù
che emanava, traspariva dalle sue parole e dal suo comportamento, avrebbe
potuto edificare il mondo, e forse portare anime al Signore. Convinti
di ciò affidarono a Sant’Egidio l’ufficio di cercatore.
In cammino…
Da questo momento troviamo
Fra Egidio per tutte le vie, per tutte le piazze, i rioni e quasi per
tutte le case di Napoli, ed il suo messaggio è come un raggio
di sole nel grigiore di una giornata scura recante gioia agli occhi
e accendendo speranze nei cuori. Passava gran parte della giornata girando
per la questua; ma il suo giro era più una visita di carità
e di buon esempio che un raccogliere elemosine per la sua bisaccia.
Tutti prendevano da lui una parte della sua intima pace, e l’appassionato
consolatore se ne tornava al Convento col cuore pieno di pianti e di
pene e con quel cuore, egli andava a piangere di notte, dopo gli uffici
corali, ai piedi della sua Madonna del Pozzo, implorando la salute agli
infermi, la provvidenza alle povere famiglie, la pace agli sventurati,
il ravvedimenti o il perdono per i crudeli oppressori del popolo.
Dall’alba al tramonto non conosceva riposo. Tornato stanco dal
suo lungo lavoro, aiutava i Confratelli nei loro uffici, e malvolentieri
cedeva alla stanchezza del corpo una piccola parte della notte, perché
niente gli era più dolce di quelle veglie notturne, che il silenzio
favorisce accanto agli altari. Con quanto fuoco egli là, nel
piccolo coretto prospiciente sull’altare della Madonna del Pozzo,
in chiesa, andava ripetendo alla Vergine nell’estasi di filiale
devozione: “Madre mia! Voi siete la madre mia!”.
La venerazione dei napoletani a questo umile scalzo figlio di San Francesco
e la sicurezza dell’efficacia della sua preghiera presso Dio divennero
generali. Si rese così popolare il nostro Fra Egidio, che nessuno,
scettico o indifferente, popolano o nobile, disdegnava di avvicinarlo,
conversare con lui per ascoltarne la parola semplice e ardente, per
chiedere consiglio nelle difficoltà della vita e implorare da
Lui preghiere al Signore.
Così Napoli ebbe in Fra Egidio una prova certa che non la scienza,
non i parolai, non la ricchezza o la tronfia superbia salvano la società
e asciugano le lagrime, ma la purezza, la semplicità, l’amore,
i miracoli dei Santi.