IL VOLTO E LO SPECCHIO
Mi guardavo
ieri nello specchio del salotto. Il mio viso è simile a migliaia di altri visi
umani, con tratti che la vita, l'eredità, le passioni hanno segnato a modo
loro: questo è il casuale. Ma ciò che resta eternamente e non varierà mai è lo
sguardo con la sua muta domanda, antica come il mondo: chi sono?
Quante volte ci siamo guardati allo specchio, solitamente per registrare lo
stato esteriore del nostro viso: una ruga in più, le occhiaie pronunciate, un
segno di decadimento. Le donne (ma non solo), quando si devono truccare la
faccia, si scrutano in ogni centimetro quadrato e scoprono le tracce impietose
del tempo. Eppure, talora, in quel dialogo muto con noi stessi davanti allo
specchio, può scattare quella «domanda antica come il mondo: chi sono?».
Probabilmente, quando essa affiora, subito ci si stacca da quello sguardo e ci
si rivolge altrove.
La scena la evocava già s. Giacomo nella sua Lettera, quando parlava dell'«uomo
che osserva il proprio volto in uno specchio: appena s'è osservato, se ne va, e
subito dimentica com'era» (1, 23-24). Nel brano che abbiamo sopra citato,
tratto dal romanzo Varuna (Mondadori
1953), lo scrittore francese, a me molto caro, Julien
Green (1900-1998) cerca proprio di torcerci il viso per rigirarlo verso quello
specchio, così da far riaffiorare quella domanda. Perché viviamo troppo spesso
ignorandola e, quindi, abbandonandoci a un'esistenza superficiale, banale,
vacua e fatua. Qualche volta di più, nella solitudine d'una stanza, forse anche
nel bagno al mattino o a sera, dovremmo fissarci negli occhi riflessi dallo
specchio e chiederci: «Che senso ha la vita che facciamo? Le azioni, gli amori,
gli odi, le speranze, le delusioni?». Le vere domande segnano la vita e le
impediscono di andare alla deriva.
Gianfranco Ravasi
(dalla rubrica “il
Mattutino” del giornale Avvenire del 25 ottobre 2006 )