Carissimi amici nell’unica fede di Gesù Cristo,
nel nostro cammino verso il Regno orientiamo i nostri passi per
un altro tratto di strada sulla scia delle indicazioni dell’ultimo Convegno
Ecclesiale di Verona. Facciamo tesoro delle riflessioni di questo evento
di comunione ecclesiale, ripercorrendo i cinque ambiti di interesse (affettività,
lavoro e festa, fragilità, tradizione, cittadinanza) attraverso la
metafora dei cinque sensi.
Perché la metafora dei sensi? I sensi si riferiscono alla
collocazione dell’uomo nel mondo. Sono le finestre sul mondo. I sensi
sono una dimensione essenziale che ci aprono all’altro, e, al contempo,
sono costitutivi della nostra identità. Attraverso il riferimento a
questa parte così fondamentale della nostra struttura umana, è
nostro desiderio offrire ai singoli e alla comunità parrocchiale semplici
orientamenti per il prossimo quadriennio 2007-2010, per recuperare il gusto
del semplicemente vivere cristianamente, in questo particolare tornante della
nostra storia.
La proposta prende spunto dal “dove stiamo”, che
cosa percepiamo attorno, attraverso i nostri sensi, con una particolare attenzione
al nostro contesto parrocchiale, per poi passare a offrire un ventaglio di
attenzioni da coltivare insieme per colmare eventuali carenze che frustrano
il semplicemente vivere cristianamente.
I.
“Dolce è il suo frutto al mio palato” (Ct 2,3)
Il gusto delle relazioni
La vita affettiva è ambito fondamentale della persona umana
che è essenzialmente essere in relazione. Per amore siamo stati creati
e per amore abbiamo ricevuto il dono dell’esistenza, perché a
nostra volta noi potessimo amare ed essere amati. Tutta la vita è,
dunque, per il cristiano risposta ad una chiamata gratuita all’amore.
Ogni relazione, per il cristiano, deve conseguentemente essere improntata
secondo la logica del dono e della responsabilità.
Non è difficile accorgersi che si respira una aria di
“capriccio” nella sfera delle relazioni e dei sentimenti, popolata
da modelli massmediatici, fondati su prospettive esasperatamente individualiste.
L’amore come risposta ad una chiamata e come dono gratuito
rischia di non trovare posto nel cuore dei nostri giovani che guardano con
incertezza al loro futuro poiché avvertono sempre meno la speranza
e la fiducia circa la propria capacità di realizzare legami
solidi e duraturi ad ogni livello in quanto ciò richiede assunzione
di responsabilità e di impegno verso l’altro. L’allontanamento
dell’uomo dal rapporto con Dio ha modificato la speranza nel futuro.
Nella nostra comunità si percepisce ancora il desiderio
di mettersi in gioco in relazioni mature e stabili, anche se non mancano segnali
di sfilacciamento relazionale, con episodi sempre più frequenti di
fallimenti coniugali e di affetti disordinati.
Prevale nel sentire comune l’impegno a custodire quel tesoro
di valori che hanno arricchito il cuore di ognuno e che ancora orientano le
scelte della maggior parte delle persone. Si avverte però la fatica
a far valere per le giovani generazioni quello che vale per le generazioni
adulte.
Si profila, pertanto, un arduo compito educativo verso i giovani
che deve appassionare i singoli cristiani e l’intera comunità
ecclesiale, facendosi carico delle fragilità dei nostri compagni di
viaggio, senza assecondare tendenze disordinate, ma anche senza cedere a facilità
di giudizio severo che oscurerebbe l’identità della Chiesa non
solo maestra di verità, ma anche Madre amorevole, pronta sempre a
soccorrere i propri figli che soccombono sotto il peso delle loro fragilità
e a far avvertire loro la gioia dell’abbraccio misericordioso del Padre
celeste.
È nostro desiderio offrire una proposta di percorsi di
educazione all’affettività, (Dialoghi sull’Affettività)
destinati alle diverse fasce di età della popolazione della nostra
comunità, miranti a far riscoprire il gusto delle relazioni e la bellezza
dell’amore vissuto all’insegna del dono, della gratuità,
della responsabilità. II.
“Sia su di noi la bontà del Signore, nostro Dio:
rafforza per noi l'opera delle nostre mani, l'opera delle nostre
mani rafforza” (Sal 90, 17).
Celebrare Dio con l’opera delle nostre mani.
Il lavoro non è solo il mezzo per procurarsi il necessario sostentamento
ma un collaborare all’opera creatrice di Dio, Padre di tutti gli uomini,
portando a compimento il creato rispettandolo come dono ricevuto dalla divina
Provvidenza. È questa un’opportunità alienante
per alcuni, a motivo della esasperante competizione, della enfatizzazione
del profitto, dello sfruttamento verso le categorie di lavoratori meno protette
(pensiamo agli immigrati); negata per altri, la maggior parte giovani, a motivo
della insanabile piaga della disoccupazione.
Sono entrambi condizioni disumanizzanti che più che far
levare le mani al cielo per celebrare la lode al Creatore, fanno giungere
fino a lui il grido che invoca giustizia. E così è negata la
festa sia a chi lavora secondo ritmi e condizioni alienanti, sia a chi rischia
di abbrutirsi per mancanza di lavoro.
La stato di alienazione e di frustrazione non promuovono il senso
della festa ma solo il senso dell’evasione. Pertanto, il tempo libero
si connota spesso delle caratteristiche del tempo lavorativo. Il giorno
del Signore, la domenica, si svuota della sua potenzialità umanizzante
e santificante, divenendo contenitore da riempire con svariate attività
che il più delle volte non risultano affatto liberanti per l’uomo.
Come comunità cristiana non possiamo non avvertire l’insopprimibile
bisogno di denuncia di ogni situazione che mortifica la dignità
dell’uomo, l’ineludibile responsabilità di annuncio di
speranza che scaturisce dal tenere lo sguardo fisso sul Cristo Risorto, e
l’inevitabile opera di rinuncia a forme di privilegio lavorativo e/o
di abbondanza lavorativa scandalosa a favore delle fasce deboli della comunità.
Ci proponiamo, di promuovere attività formative mirate
(pensiamo agli imprenditori cristiani) tese a evangelizzare il mondo del lavoro,
ma anche educare a vivere il senso della festa, attraverso momenti di festa
comunitaria, ma soprattutto riproponendo la centralità del giorno
del Signore.
Desideriamo anche coinvolgere le diverse organizzazioni del mondo
del lavoro per promuovere una qualità del lavoro e soprattutto un’attenzione
al mondo giovanile perché il lavoro non sia un miraggio ma una possibilità
reale.
Non trascureremo di sensibilizzare i diversi attori del mondo
lavorativo perché la fasce meno protette non abbiano ad essere oggetto
di sfruttamento e strumentalizzazione disumanizzante, sia dal punto di vista
delle condizioni reali di lavoro che di retribuzione, così che ciascun
uomo sia contento di collaborare all’opera creatrice di Dio con il lavoro
delle sue mani e levarle al cielo per celebrare il suo amore provvidente e
premuroso. Solo evitando l’idolatria delle sue opere l’uomo riconosce
di essere immagine di Dio e celebra il suo amore.
III.
“Ero gli occhi per il cieco” (Gb 29,15).
Occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei fratelli.
Farsi prossimo di ogni uomo povero o sofferente è, per
il cristiano, via per incontrare il Signore. Gesù risorto, speranza
del mondo ci indica la via per raggiungere i fratelli in ogni situazione di
fragilità e di bisogno: l’umiltà e il servizio. Il cristiano
sa riconoscere in ogni uomo fragile – il bambino, l’ammalato,
il povero, l’emarginato, l’immigrato, il carcerato, l’anziano
abbandonato – Gesù stesso che ci ha lasciato un preciso comando:
«Amatevi gli uni gli altri». Nel gesto di amore caritatevole fatto
verso ogni nostro fratello che versa in una condizione di debolezza si realizza
l’incontro con lo stesso Signore Gesù, si dà concretezza
alla speranza che deve animare la vita di ogni uomo.
Anche nel nostro territorio parrocchiale non mancano forme di
fragilità e povertà, materiali e immateriali, che attanagliano
la vita sia di persone locali che di immigrati, come si ha modo di constatare
anche attraverso l’osservatorio del centro di ascolto interparrocchiale
della Casa della Carità “Madre Teresa di Calcutta”.
Di fronte a queste situazioni, come comunità cristiana,
non possiamo non avvertire la responsabilità di educarsi ed educare
a considerare la naturale condizione di precarietà e finitezza, e a
riconoscere in Dio l’unica vera fonte di speranza e il riferimento “sensato”
della propria vita, senza lasciarsi frastornare dai modelli culturali in
voga.
Centrato in Cristo, il cristiano diventa sempre più capace
di un “duraturo dono di sé”, in ascolto intelligente
e disponibile verso ogni situazione di bisogno o fragilità, promuovendo
la costruzione di “reti di ordinaria prossimità” tra famiglie,
tra i singoli e tra la comunità credente e il territorio.
Concretamente la crescita di questa sensibilità dell’avere
occhi per vedere le necessità dei fratelli si nutre del primato dell’ascolto
della Parola di Dio, di un’intensa vita sacramentale e di momenti di
formazione miranti a proporre percorsi di approfondimento o di riscoperta
della fede.
In modo particolare la Caritas dovrà assumere sempre più
il compito di formare ed educare le coscienze dei singoli e della comunità
parrocchiale alla carità come stile ordinario di vita; a tale scopo
potranno essere programmate delle “scuole di carità” per
associazioni, gruppi di volontariato, organizzazioni culturali presenti sul
territorio della parrocchia. Dovrà altresì fare proprio l’impegno
di sensibilizzare le istituzioni competenti ad avere la dovuta attenzione
verso le situazioni di fragilità o di bisogno presenti nella realtà
cittadina.
IV.
“Ciò che noi abbiamo udito… lo annunziamo
anche a voi” (1Gv 1,4).
Testimoni credibili della trasmissione della fede
Trasmettere la fede è per la comunità cristiana e per
i singoli credenti l’impegno a “consegnare” alle nuove generazioni
non solo quelle “tradizioni” che appartengono al passato, ma
è soprattutto testimoniare che il nostro incontro vivo con il Risorto
riempie di senso la nostra vita e il nostro presente.
Il compito della comunità credente è di far riaffiorare
la domanda di significato, appello sempre presente nel fondo del cuore dell’uomo
ma zittita in mille modi, con la complicità della cultura odierna.
Sarà necessario riaccendere la passione educativa negli adulti perché
ritornino ad essere figure di riferimento autorevole nella ricerca del senso
dell’esistenza.
Se, come ha evidenziato il Convegno di Verona, la speranza non
nasce dal nulla ma si «alimenta di una storia reale di generazione e
di rapporti – la famiglia, la scuola, la Chiesa» la tradizione,
allora, non è una semplice trasmissione di valori e di concetti astratti,
ma è una testimonianza personale; una testimonianza la cui credibilità,
oltre che dalla oggettività del contenuto della testimonianza, passa
anche dalla autorevolezza del testimone. Da qui l’indicazione per l’intera
Chiesa perché al suo interno siano sempre più presenti e visibili
testimoni autorevoli e credibili.
Si tratta di educarsi ed educare al significato originario di
tradizione, e cioè: “deposito della fede”, ricevuto come
dono prezioso dal (o del) passato, che si trasforma in “esperienza di
vita cristiana” capace di radicare e fondare la fede di ogni singolo
– attraverso la vita della Chiesa – nella Persona di Gesù,
il Cristo, il Signore della storia.
Fondamentale ed insostituibile sarà il ruolo della famiglia
nel generare ed educare i figli alla fede, nell’affiancare il ruolo
della comunità ecclesiale nei suoi percorsi di iniziazione e di formazione
permanente, come quelli della liturgia, della catechesi e della carità
nelle specifiche forme territoriali. Interessante sarà il ruolo dei
laici nel dare rilevanza pubblica alla loro fede nei diversi ambienti di vita.
Continuare a proporre con costanza percorsi di scoperta ed approfondimento
della Parola di Dio giacché in tale ascolto si possono valorizzare
tutte le concrete condizioni attraverso cui la fede può essere trasmessa
in un dialogo efficace con tutti.
Dal punto di vista operativo si può pensare alla valorizzazione
di alcuni opportunità quali il cineforum con particolare riferimento
a temi di rilievo che possano presentarsi “interessanti” per giovani
e per adulti, soprattutto per i “lontani”; percorsi di catechesi
miranti all’approfondimento della fede mediante i quali le persone
adulte presenti nel popolo credente possano divenire testimoni autorevoli
della speranza cristiana; formazione liturgica destinata a tutti quelli che
partecipano alle celebrazioni, soprattutto in occasione dei momenti forti
dell’anno liturgico, per offrire una comprensione rinnovata della liturgia,
“luogo” centrale di tutta la tradizione e di tutta l’esperienza
cristiana; dialogo aperto con le culture odierne nei loro diversi linguaggi
ricorrendo all’uso di tutti i nuovi mezzi di comunicazione sociale;
riscoperta del patrimonio di fede e di spiritualità presente nella
religiosità popolare, nelle feste e nei luoghi particolari di culto
che possono divenire momento ancora efficace di trasmissione della fede.
V.
“… avrà la fragranza del Libano” (Os
14,7).
Diamo profumo alla città.
Non è possibile essere discepoli di Gesù di Nazareth
e non avvertire allo stesso tempo una fervida passione per da dimensione
sociale dell’uomo. La speranza non può non connotarsi di una
dimensione sociale. I cristiani, se da un lato sono stranieri e pellegrini
nel mondo allo stesso tempo vivono a pieno titolo la loro condizione di
cittadini. Essi vivono – seppur in un equilibrio mai stabile e mai definito
stabilmente – la speranza per l’altro mondo e la responsabilità
per un mondo “altro”, nell’impegno della edificazione della
casa comune condivisa con tutti gli altri uomini, cristiani e non cristiani.
La nostra comunità parrocchiale avverte l’urgenza
di stimolare i cristiani all’impegno sociale e culturale, per promuovere
una cultura della partecipazione che spezzi quella diffusa condizione di individualismo
e privatismo che rifugge da ogni coinvolgimento a servizio del bene comune.
Un’opera di sensibilizzazione è stata avviata dal Cento Culturale
Cattolico “Giovanni Paolo II” costituito di recente.
Si avverte un urgenza educativa che concorra a modificare alcuni
stili comportamentali antisociali che denotato scarso rispetto della cosa
comune e delle cose comuni, cattiva educazione diffusa, mancanza di rispetto
delle regole di convivenza civile.
In questo contesto la parrocchia è chiamata a diventare
laboratorio di cittadinanza, «luogo» dove si costruisce la “responsabilità
per la città”, luogo di formazione integrale delle persone,
dove tutti siano aiutati a crescere in una maturità umana e cristiana,
coltivando un sempre maggiore senso di senso di appartenenza sociale. Su
questa strada la parrocchia deve mostrarsi attenta a promuovere una città
educante in cui ogni cittadini vede garantita la sua crescita integrale.
Sarà opportuno utilizzare tutti i mezzi pastorali di cui
la parrocchia dispone per concorrere a costruire una città solidale,
una città abitabile e vivibile, ove sia vissuta, prima che garantita,
la legalità come elemento di sicurezza dei cittadini e come unica via
possibile di convivenza civile. La comunità parrocchiale non deve esimersi
dal promuovere momenti di incontro, di confronto e di dialogo con le istituzioni,
al fine di crescere insieme nella consapevolezza di servire nel modo più
efficace possibile il bene comune e soprattutto per ricucire spazi di cittadinanza
che stimolino a un sempre maggiore protagonismo dei cittadini nella vita
pubblica.
Il recupero della vivibilità della città potrà
portare ad un recupero della stima di tutti nei confronti delle istituzioni
e potrà essere nuovo appello alla partecipazione per quanti, si tengono
a grande distanza dalla cosa comune.
“… e i sensi divine tastiere” (D. M. Turoldo).
Far risuonare la sinfonia della speranza.
Sentiamoci tutti conquistati dal fascino di spargere
a piene mani semi di speranza tra i solchi del nostro cammino quotidiano.
Con tutto noi stessi. Con tutti i sensi. Con avvedutezza, ma ancor più
con passione, con tutto il nostro essere, con tutto il nostro corpo “cattedrale
dell’Amore” svettante nella vita del mondo per far risuonare la
sinfonia della speranza, sulle note dei nostri sensi conquistati da Gesù
Cristo.
18 marzo 2007
Domenica “Laetare” – IV di Quaresima