Taj Mahal
Taj Mahal - disco originale CBS - 1968 - cd riedito dalla Edsel su matrici Demon del 1985 | |
E' un gran bel sentire questa prima incisione di Taj Mahal, personaggio a cui va stretta la definizione di bluesman in senso limitativo, e che, più correttamente, andrebbe inquadrato come un musicista trasversale, in grado cioè di attraversare l'insieme della musica nera ed etnica di tutto il mondo con approccio personale e, tutto sommato, anche originale. I puristi del blues, dimentichi del ruolo rivitalizzante che ebbe il nostro per la conservazione e lo sviluppo del genere, furono spesso inclementi con le produzioni di Taj Mahal per i suoi presunti tradimenti; ma a noi questo interessa ben poco. Qui si parla della sua prima incisione e del suo folgorante esordio sulla scena. Era un disco di blues a tutti gli effetti ed uno dei migliori che abbia mai ascoltato in assoluto. L'etichetta era la CBS, il che la dice lunga. Non una casa discografica di nicchia, ma la stessa di Carlos Santana ed altri big del palcoscenico rock di maggior successo. Non saprei dire se nelle intenzioni del signor Taj Mahal vi fosse quella di diventare una star, certo nelle intenzioni dei manager della CBS vi era quella di vendere il prodotto su larga scala, approfittando del crescente interesse che i giovani riservavano alla musica delle radici, ovvero alla sorgente che aveva dato origine al rhythm 'n' blues ed al rock 'n' roll. Nato in una famiglia nera newyorkese il 17 maggio 1942, il suo vero nome era, al secolo, Henry St.Clair Fredericks. Il padre, di origini giamaicane, era pianista, arrangiatore e compositore. La madre insegnava e cantava gospel e spituals. Da questa famiglia squisitamente orientata alla produzione artistica ed all'ascolto della musica non potevano che venire fondamentali stimoli positivi, ed infatti il giovane Henry non tardò a rivelare il suo talento. Decise di farsi chiamare Taj Mahal in seguito ad un sogno avuto mentre studiava veterinaria all'università del Massachusets. Nel '64 lo troviamo in California, dove incontra un altro mostro sacro della popular music americana, Ry Cooder. I due formano un gruppo, The Rising Sons, che inciderà un disco pubblicato, purtroppo solo di recente, a seguito delle tante miracolose resurrezioni realizzate dall'industria discografica, non tanto per emendare gli errori e le nefandezze attuate in passato, quanto per far soldi speculando sul successo presente degli artisti vessati ed umiliati al tempo che fu. Nella biografia del nostro ci fermiamo qui, o meglio, solo al passo successivo, perchè, sempre nel '68, Taj Mahal realizzò una seconda incisione, The Natchtl Blues, di grandissimo livello. Partners di Taj Mahal erano musicisti che la storiografia rock e blues ha rivalutato in vario modo. Si andava dal semileggendario Jesse Edwin Davies allo stesso Ry Cooder, per tacere su figure che probabilmente dicono poco al neofita, come il bassista James Thomas ed il batterista Sanford Konikoff. Scorrendo i titoli si ha subito il quadro concettuale del lavoro ed il senso dell'operazione: la rivisitazione di alcuni classici della tradizione blues in chiave moderna, cioè attraverso il ricorso a strumenti elettrificati ed accellerazioni ritmiche vicine al rock 'n' roll. Il primo brano, Leaving Trunk, era stato un classico di Sleepy John Estes. Ascoltando lo stacco iniziale si prova indubbiamente una forte emozione. L'armonica di Taj Mahal rompe il silenzio come l'esplosione di un candelotto di dinamite. Mi piace molto il giro di basso realizzato da James Thomas che percorre tutto il brano. Qualcuno, con le orecchie aguzze, potrebbe giustamente notare che il tema assomiglia in modo impressionante a giri armonici consueti a Jack Bruce, il bassista del supergruppo dei Cream guidato da Eric Clapton. OK, è possibile, ma è difficile stabilire se sia stato Bruce ad aver copiato Thomas o Thomas ad aver copiato Bruce. Molto più probabilmente, entrambi sono rimasti impressionati da qualche bassista sconosciuto che bazzicava la scena blues del tempo. La voce aspra, ruvida e squillante di Taj Mahal ha qualcosa di epico, oltre che un senso del tempo eccezionale. Pregevolissimi gli assoli della lead guitar suonata per l'occasione da Jesse Edwin Davies. Occhio al secondo brano, Statesboro Blues, un traditional attribuito a Blind Willie Mc Tell, che i nostri rendono in maniera davvero eccitante, mentre qualche confronto si impone, visto che le versioni di questo brano sono piuttosto numerose. L'accostamento più spontaneo è con la registrazione live degli Allman Brothers, contenuta in Live At Fillmore East, ovvero il disco dal vivo più bello e famoso di sempre. Trascuriamo qui il confronto con la versione che ne diedero i Deep Purple in Days May Come and Days May Go: The 1975 California Rehearsals, per il semplice fatto che non l'ho mai ascoltatato, anche se, non credo sia molto più del solito strepito chitarristico. Al contrario meriterebbero attenzione la versione realizzatra in Relix's Best of the Blues, Vol. 2 da Johnny Winter, come pure quella contenuta in Wild Cow Blues di Big Joe Williams, senza dimenticare l'originale inciso da Blind Willie Mc Tell. Ovviamente, entrambe le esecuzioni (Taj Mahal e Allman Brothers) sono strepitose, ma la verità è che appartengono a due generi diversi, e rispecchiano anche due approcci alla tradizione blues del tutto differente. Negli Allman Brothers prevale un approccio southern-rock, nel quale è visibile il tratto personale ed originale, l'essere la propriainterpretazione del brano: i risultati sono sotto le orecchie di tutti e, sul lato strumentale, francamente, non trovo nulla da eccepire. Anzi, è proprio una goduria suprema. Dove, invece, si potrebbero mettere i puntini sulle "i", è sulla prestazione vocale. Detto, infatti, che a me piace moltissimo la vocalità di Gregg Allman, ciò non mi impedisce di rimarcare che la performance di Taj Mahal risulta tuttoggi più blues che bluesy, più vicina all'essenza del blues (che da qualche parte abita, ci puoi giurare) che quella del pur formidabile Gregg Allman, più bluesy che blues. Taj Mahal aveva già inciso Statesboro Blues in California, nel 1964, con i Rising Sons, ovvero Ry Cooder, Jesse Lee Kincaid, Garry Merker al basso e Kevin Kelley alla batteria. La versione era rockatissima, vicina ad atmosfere alla Chuck Berry e Bo Diddley, presentandosi così come un vero classico del rock 'n' roll. Di piacevolissimo ascolto (sono convinto che in questa veste dovrebbe piacere quasi a tutti), tuttavia non regge che pallidamente il confronto con la seconda incisione. Quattro anni non erano trascorsi in vano: Taj Mahal e Ry Cooder erano maturati, come strumentisti e come interpreti di poetiche musicali. E tutto ciò si può sentire. Gli altri brani sono nell'ordine: Checkin' Up On My Baby, di Sonny Boy Williamson, Everybody's Got To Change Sometime, ancora di John Estes, Ez Rider, un traditional arrangiato da Taj Mahal, Dust My Broom di Robert Johnson, Diving Duck Blues, ancora di Estes, ed infine The Celebrated Walkin' Blues, altro trad. arrangiato da Taj Mahal, e qui interpretato magistralmente con Jesse Edwin Davies alla lead chitarra ed una formazione leggermente diversa da quella di base. Dust My Broom, pur gradevole, non sembra però particolarmente riuscita. Il brano era in origine più teso e drammatico. Qui tutto scorre senza quella tensione che lo stesso testo dovrebbe indurre negli esecutori, anche se, indubbiamente, i suonatori suonano tecnicamente perfetti. Ma è la solita cosa che si dice di fronte a qualche performance non particolarmente convincente per il pathos. Molto meglio Diving Duck Blues, ma perchè, probabilmente, Taj Mahal era più in sintonia con le visioni musicali di Sleepy John Estes che quelle di Robert Johnson. Stesso discorso si potrebbe fare per Checkin' Up On My Baby. Qui l'intesa tra Taj Mahal e la struttura del brano è plasticamente perfetta. La vicinanza a certo british-blues di derivazione Mayall-Cream è però altrettanto palese. Qualcuno potrebbe trovare deludente e riduttivo che un nero americano suoni in modo così simile al blues rifatto dagli albionici negli anni '60. In realtà le cose non sono mai così semplici come ce le rappresentiamo. Se è vero che Taj Mahal riuscì in modo davvero eccezionale a portare nuova linfa e nuovo sangue al blues, è anche vero che egli dovette pronunciare qualche grazie a John Mayall e compagnia bella. Oppure che entrambi dovrebbero ringraziare una musa comune, molto gentile e prodiga con ambedue. gm - 1 ottobre 2001 |