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Robert Johnson - King Of The Delta Blues Singers

Cd Columbia / Sony

Dicono i testimoni che Robert Johnson, nato l'8 maggio del 1911 ad Hazlehurst, Mississippi, cominciò col suonare l'armonica e che era graziosamente bravo nel cavarsela. Ma lui voleva fortemente diventare un dio della chitarra e venne accontentato, nel suo desiderio, in modo piuttosto singolare.
Una strana leggenda narra che Robert fu istruito nientemeno che dal diavolo stesso, ad un crocicchio, l'arcinoto crossroad, a mezzanotte, e che questi si prese, of course, la sua anima, quando Robert aveva solo 27 anni.
Tanta mitologia sul blues come musica del diavolo ha dunque questa origine.
Ma lo stesso Johnson si compiacque di alimentare la diceria, componendo l'incredibile Me And The Devil Blues:
«Early this morning when you knocked upon my door
I said, "Hello Satan, I believe it' time to go."
Me and the Devil was walking side by side
I'm going to beat my woman until I get satisfied.»
Il brano è contenuto in questa antologia curata dalla CBS e gode di una discreta masterizzazione, se si pensa che fu inciso il 20 giugno del 1937, durante la stessa sessione di Hellhound On My Trail, Traveling Riverside Blues, Milkcow's Calf Blues.
Ha la struttura tipica dei brani blues del Delta nei primi decenni del Novecento: la strofa è breve ed incisiva, ripetuta più volte. L'accompagnamento accentua le doti del chitarrista, il quale non si limita a suonare qualche accordo di accompagnamento ma, enuncia brevi riffs, che qui hanno hanno un suono piuttosto metallico.
La voce di Robert Johnson è diretta ed acuta, si avvale di una dizione particolarmente chiara e sciolta.
Il tutto conferisce alle esecuzioni qualcosa di inconfondibile e, a mio avviso, ovviamente, di affascinante.

Doveva essere un buon diavolo il maestro, ed alcune fonti, identificano questo satanasso (un large black man) in Ike Zinneman, un bluesman del quale non esistono, purtroppo, regitrazioni, ma di cui si diceva un gran bene.
Di una cosa, però, si può avere certezza: anche Ike Zinneman deve aver avuto dei maestri e degli ispiratori; le origini del blues e di quel particolare stile chitarristico che vive nelle registrazioni di Robert Johnson risalgono alla notte dei tempi, tra la fine dell'Ottocento ed i primi decenni del Novecento, e più che il frutto di un talento particolare, sembrano da addebitarsi ad una tendenza sociale e collettiva, ad una emergenza sociale di cantori neri, i songsters, che incominciarono ad accompagnare il loro canto dolente, ora lamentoso, ora seduttivo, con una chitarra, a volte con l'aggiunta di un violino (come testimoniano le registrazioni di Charley Patton), o di una seconda chitarra, adattando il suono di questi strumenti al loro particolare melos vocale.
Solo a questo punto, presumibilmente, entrò in gioco il talento, il genio individuale, ovvero quel certo non so che capace di rendere superiori e preziose determinate canzoni e le loro interpretazioni.
Uno di questi momenti particolarmente fecondi fu l'utilizzazione di tali suonatori di origine popolare nei medicine shows, cioè in spettacoli che si tenevano nelle vie di New Orleans e dei villaggi del deep south per richiamare l'attenzione del pubblico sui magici poteri terapeutici delle medicine vendute da medici e farmacisti molto approssimativi, spesso dei semplici imbroglioni, spacciatori di elisir e pozioni torcibudella.
Ma il blues piaceva anche a musicisti bianchi e neri di professione, specie a quelli che si dedicavano a spettacoli di varietà itineranti.
La cantante nera "Ma" Rainey fu tra le prime ad esibirsi in canzoni in formato bluesy, mentre il direttore d'orchestra W. C. Handy cominciava a trascrivere partiture per il proprio spettacolo traendo spunto dai blues rurali raccolti nei suoi viaggi. La pop music americana si nutrì di blues fin dal primo decennio del Novecento.

Per inquadrare correttamente il fenomeno Robert Johnson, avremmo bisogno di una mappa musicale e sociale in grado di riflettere l'atmosfera che si respirava negli Stati Uniti in quel periodo. Siamo alla fine degli anni venti, al crollo di Wall Street a partire dal giovedì nero, il 24 ottobre del '29, alla grande depressione che seguì. I poveri continuarono ad essere poveri, i ricchi a fare i ricchi, e solo la classe media e quella degli operai occupati nelle fabbriche conobbe una vera debilitazione.
Anche i musicisti conobbero tempi duri. Molte grandi orchestre jazz dovettero sciogliersi.
Una dopo l'altra le formazioni che avevano vivacizzato le scene di New Orleans e di Chicago si dileguarono come neve al sole.
Duke Ellington lasciò gli Stati Uniti per l'Europa ed il suo posto, nei locali di New York,venne preso dall'orchestra di Cab Calloway, che offriva un repertorio assai meno raffinato.
Molti musicisti dovettero adattarsi a fare mestieri tra i più umili per tirare a campà. In questo periodo solo i musicisti bianchi continuarono a trovare minimi ingaggi nei locali di lusso a New York.

Soltanto nel primo biennio degli anni '30 il presidente repubblicano Hoover, eletto nel '28 battendo il democratico cattolico di origine irlandese Al Smith, riuscì in qualche modo a tamponare la situazione con qualche provvedimento.
Ma la vera ragione della crisi non venne affrontata alla radice: si trattava eminentemente di una crisi di sovrapproduzione; il paese più ricco del mondo non aveva un mercato interno in grado di assorbire tutta la produzione agricola ed industriale perchè i salari erano bassi e le ricchezze concentrate in poche mani. Sarebbe stata necessario aumentare le esportazioni, ma il resto del mondo era ancora più povero dei poveri degli Stati Uniti. Per questo il sistema giunse al punto di crollare a partire dalla borsa dei titoli azionari, che, per troppo tempo, aveva sovrastimato le reali possibilità delle imprese di produrre e di vendere.

Ciò nonostante, come spesso accade in tempi di ristagno, si faceva festa un po' dovunque e dove non arrivavano più le band ed i combo, arrivavano songsters itineranti e vagabondi, gli hobos, bianchi, neri, meticci, creoli, con la loro chitarra a tracolla ed il loro bagaglio di canzoni, blues e ballate.
La scena jazz era ancora caratterizzata da un suono piacevole e ballabile che incontrava il favore sia dei giovani che dei meno giovani. Ma, come hanno sottolineato alcuni storici, il loro repertorio era significativamente mutato: prevaleva il genere ballad e la musica leggera finalizzata alla danza; il blues era stato quasi abbandonato, per motivi che paiono persino ovvi: era il sound del malessere, della depressione e della povertà.

In questo clima di profonda incertezza le chiese giocarono indubbiamente un ruolo positivo, contribuendo a scuotere la gente dalla sfiducia. La mia idea è che dopo una bella corale spiritual e gospel, e l'immancabile predica del reverendo di turno, sia bianchi che neri uscissero dai raduni religiosi rinfrancati.
Durante il giorno potevano rimediare qualche lavoretto comunque indispensabile, e la sera trovare ristoro in qualche locale dove si esibivano vagabondi come Robert Johnson, ed anche personaggi più stanziali, come Charley Patton o Son House, altre grandi figure del prewar blues, il blues rurale prebellico.
Si era in pieno proibizionismo e di liquori ne circolavano davvero pochini, e tutti di contrabbando.
Soprattutto nelle città del nord presero piede locali chiamati speakeasis dove i gangsters spacciavano l'agognato whiskey, accumulando fortune inaudite. Un manovale del contrabbando, se al soldo di Al Capone a Chicago, arrivava a guadagnare fino a 2.000 dollari alla settimana, mentre Robert Johnson, ad esempio, ricevette solo poche centinaia di dollari per le sue incisioni.
Ma era già tantissimo, se raffrontato alla paga giornaliera di un bracciante o di un operaio, e tanto rispetto anche al soldo di un clarinettista nero disoccupato.
Un piccolo capitale che il nostro eroe non riuscì mai a mettere a frutto perchè morì, diabolicamente, a soli ventisette anni, avvelenato, come sembra ormai appurato, da un marito geloso.
E, ironia della sorte, egli stava proprio per essere portato alla Carnagie Hall per partecipare ad una serata intitolata John Hammond's first Spirituals to Swing concert.
Sarebbe stata la sanzione del suo talento artistico, finalmente un successo al di là dei miserabili e periferici confini nei quali il blues rurale si era sempre trovato, persino rispetto al mercato discografico, che vedeva i 78 giri contenenti blues riservati al pubblico nero del sud, e chiamati sprezzantemente race-records.

Ascoltare una di queste incisioni, ad esempio, Last Fair Deal Gone Down, registrata il 27 novembre del 1936 in una stanza d'albergo di San Antonio, Texas, è certamente istruttivo, oltre che appagante.
Si tratta di un blues venato di gospel, con un tema melodico che ricorda certi canti di chiesa, introdotto da un fantastico giro armonico di chitarra e caratterizzato da un bellissimo crescendo.
Quando si parla di gospel, si intende un canto corale che esprime, generalmente, una celebrazione gioiosa, di derivazione spiritual, ovvero di origine churchy, chiesastica.
Ma, con gospel si intende anche un testo cantato sviluppando melodie di vecchio country, non necessariamente di origine nera. In questo caso particolare il motivo lirico ha spesso come oggetto Dio, ed esprime o speranza o ringraziamento.
Certamente, nel caso di Last Fair Deal Gone Down, siamo di fronte ad una versione profana del gospel, ma non per questo ad una degenerazione.

Il cd in mio possesso - Columbia 484419 2 - contiene una scaletta un po' diversa da quella contenuta nella cassetta che avevo ricavato dal vecchio padellone 33 giri edito nel 1966 dalla Columbia Legacy.
Mancano brani come Sweet Home Chicago, ma ne sono presenti altri, persino più interessanti.
Le tracce sono sedici: la prima è la celeberrima Crossroads Blues, registrata il 27 novembre 1936, forse a Dallas.
Il testo potrebbe essere interpretato equivocamente, perchè quando Robert Johnson cantava di andare giù al crocicchio per mettersi in ginocchio e ask the Lord above for Mercy, say boy, if you please Mmm - standing at the crossroads, I tried to flag a ride, qualcuno potrebbe anche osservare che il Lord in questione è il suo Devil, il suo signore.
Io non sono di questa idea, ed, anzi la trovo piuttosto ripugnante. Il problema del rapporto tra il diavolo ed il blues è, in realtà, il problema della condizionale infernale di segregazione e di povertà estrema in cui si trovavano già i neri, ben prima che arrivasse The Devil Blues.
Il cosiddetto canto del diavolo diventava così nientaltro che un lamento ed un'aspirazione al diritto di poter vivere, non solo più liberi e meno sfruttati, ma anche godendo di alcune precise gioie della vita.
In Robert Johnson queste aspirazioni si riducono a poco, e sono di natura individualistica e personale.
Per avere un canto di denuncia e di protesta bisogna guardare altrove, per esempio a Billie Holiday che ebbe il coraggio di incidere Strange Fruit, una canzone che denunciava la diffusa pratica del linciaggio, ancora in quel periodo!!!
Tutto questo potrebbe far perdere interesse per la figura di Robert Johnson, il solito americano, in fondo, per quanto negro, che non pensa che ai cazzi suoi, all'amore, al denaro, e non trova di meglio che lamentarsi (spesso) o gioire (poco).
Sarebbe, però, come mettere a confronto un poeta come Dante con un altro poeta come Cecco Angiolieri, o l'antichissimo poeta greco Archiloco, ovvero personalità del tutto diverse, nessuna delle quali però, disposte, fino al fatidico crossroad nel mezzo di cammin di nostra vita, a sublimare, comunque, i propri desideri sensuali e terreni in una direzione celestiale.

Ecco, Robert Johnson fu dunque qualcuno di assai simile ad un Cecco con la pelle color del carbone, un poeta schietto e popolare, con l'aggiunta di chitarra slide ed un uso sopraffino del bottleneck, il collo di bottiglia che consentiva di ottenere quegli incredibili effetti, quelle note, quegli accordi magici che fanno il blues.
Il brano numero 9 - Preaching Blues - è un magnifico esempio di questo stile e farà scuola.
Un'altra traccia di estremo interesse è la numero 3 - Come On In My Kitchen - forse il brano che preferisco - e che mi è piaciuto molto anche rifatto da Keb'Mo nel suo disco d'esordio.
Chi non avesse ancora ascoltato Robert Johnson, ma, fosse a conoscenza delle cose che fa Keb'Mo, dovrebbe pensare che il secondo, specie nel primo disco, pare aver messo a frutto, meglio di ogni altro in epoca recente, la lezione del primo.

Ecco, il problema basilare di chi scrive di musica è che alla fine ti rendi conto che l'unico linguaggio in grado di descriverla veramente è la musica stessa, ovvero la sua esecuzione.
Le parole non possono che portare ad una resa difettosa ed approssimativa.
Volete saperne di più su Robert Johnson?
Ascoltatelo, ascoltatelo non attraverso i rifacimenti delle sue canzoni fatti da altri, ascoltatelo direttamente.
E poi ditemi: è o non è questo cd un incisione storica fondamentale?

ciao

gm - 21 settembre 2002