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Charlie Parker

The Complete Dial Sessions - Stash (box di 4 cd) (contengono materiale del 1946-1947)

Fu il più grande?
Tutti gli esperti concordano: fu tra i più grandi jazzmen del '900; nella storia del jazz occupa un posto di primo piano assieme a Louis Armstrong, Duke Ellington ed a pochissimi altri.
Il suo nome è indissolubilmente legato alla nascita del be-bop: un genere del tutto diverso dalla musica che si suonava in precedenza. Una musica di rottura, fatta non per l'intrattenimento ed al fine di piacere ad un grande pubblico, ma per liberare desideri artistici ed urgenze espressive.

Come uomo, Charlie Parker fu una frana, forse più di Lester Young, altro celebre sassofonista di ineguagliabile livello, sebbene di tutt'altro temperamento.
La poetica di Young era quella di un uomo distaccato, freddo, oggi si direbbe cerebrale, anche se il termine è improprio.
Quella di Parker, all'opposto, risultava istintiva, sanguigna, pregna di soffi vitali.
Entrambi soffrirono lo stesso male: incapacità di autogoverno.
Purtroppo, quando ci si vede costretti a separare l'artista dall'uomo, significa che qualcosa non è andato per il verso giusto, e ciò lascia con l'amaro in bocca.

Un maledetto destino distingue alcune figure del jazz come Lester Young, Billie Holiday, Bud Powell. Ciò contrasta con vite molto più fortunate ed appaganti. Pur tacendo di Duke Ellington, nell'ambito stesso del bop le sorti di Dizzy Gillespie furono molto diverse.
Se ben si guarda nelle vicende individuali, tuttavia, i drammi di Billie Holiday e di Bud Powell avevano qualcosa di oggettivo.
La prima fu la vittima del razzismo e del maschilismo americani. Violentata a soli dieci anni, costretta ad un istituto di correzione, poi ad una breve ed intensa esperienza da prostituta, non poteva non rimanere segnata indelebilmente da vicende così traumatiche, come l'accompagnarsi a uomini sgradevoli, a volte ripugnanti.
Il secondo crollò a causa di una schizofrenia che lo aveva portato più volte al ricovero in ospedali psichiatrici. Se avesse avuto psicoanalisti attorno, invece di dementi incarogniti nella pratica dell'elettroshock, forse si sarebbe salvato. Non a caso, egli ebbe il suo momento migliore quando si trovò in Europa: sembrava guarito. Il ritorno in America gli fu fatale.

Per Parker la storia è del tutto diversa: cedette alla droga per debolezza. Era il classico insaziabile, formidabile mangiatore, bevitore di dionisiaca bramosia, portato ad ogni forma di stravizio possibile ed incapace di controllarsi.

Immaturo, totalmente in balia di impulsi momentanei, schiavo della droga, Charlie Parker bruciò la sua esistenza ed il suo immenso talento nel breve volgere di soli 34 anni. Per quanto grande ed inestimabile sia stato il suo lascito alla musica, rimane la sensazione di qualcosa di incompiuto. Avrebbe potuto dare molto di più, e meglio.
La tesi di Franco Fayenz (Il Nuovo Jazz degli anni '40 /Young/ Parker/ Tristano - Lato Side 1982) è che egli fu grande nonostante la droga e non grazie alla droga.
Oggi pare una banalità, ma non dimentichiamo che gran parte della cultura alternativa degli anni '60 e '70 aveva proclamato un verbo del tutto differente.
E qui non si parla del leggero fumo della marjuana, ma del pesante condizionamento esercitato dall'eroina., o anche dal trip provocato dagli acidi. Distinzione che Fayenz non fece all'epoca, e che molti continuano a non fare, anche se credo fermamente che qualsiasi sostanza, dal tabacco all'hashish, ingerita da fumatore, non aiuti affatto il processo creativo, ma, al massimo fornisca stimoli fisici immediati, che presenteranno il conto in futuro.

Tuttavia, e qui siamo ad un altro punto importante, non è solo rispetto al jazz ( ed al rock) che spesso ci si vede costretti a separare l'uomo dall'artista.
Che dire di Mozart, ad esempio?
Il più grande musicista classico di tutti i tempi fu una specie di alcoolizzato, dedito a stravizi, sempre indulgente con gli atteggiamenti ai limiti della moralità: un vero tormento per il suo integerrimo padre Leopold.
Sicchè anche per Mozart, pure dopo aver ascoltato capolavori assoluti quali il Don Giovanni, Il Flauto Magico ed il Requiem, potremmo dire: avrebbe potuto fare meglio e di più, se non si fosse gettato via.
Si scusi lo sfogo. Ma era necessario per tanti motivi, vista la perenne oscillazione degli umori su argomenti spinosi come il presunto diritto degli artisti a vivere eccentricamente, senza alcun rispetto per le leggi umane e divine, ed, in definitiva senza alcun rispetto di sé.
Non credo alla storiella del sacrificio di qualcosa a scapito di qualcosaltro. Non credo che la natura si diverta a partorire mostri superdotati di genio musicale o letterario, o persino scientifico, ma privi di risorse umane normali, ed incapaci di vivere, di amare, di gestirsi.
Vi è qualcosa alla base di qualsiasi esistenza, qualcosa che tutti hanno, ed è il senso di sè. Se lo si perde, si finisce malamente.

Non credo nemmeno ad un'altra storiella: quella della missione da compiere per realizzarsi, anche prescindendo dal fatto che bruciare la propria vita in stravizi non torni affatto utile alla presunta missione.
La verità è che realizzarsi come umani è molto più importante che realizzare opere artistiche.
Ho conosciuto molti musicisti, pittori, scultori, spesso manovali del loro genere. Ho notato che, anche se questa loro inclinazione fornisce loro attimi di felicità, è anche vero, per loro stessa ammissione, che la vera felicità è, tuttavia legata a soddisfazioni normali, da uomo della strada, più di quanto si creda, o si sia disposti ad ammettere.
Non si può abortire l'uomo per far nascere un artista.

Ciò detto, abbiamo che il musicista Parker fu un evento di inestimabile grandezza, e bellezza.
Sussulti e grida, fraseggi delicati, un lirismo spesso tumultuoso, a volte difficile da afferrare: la sua musica, il suo suono (anche se non sempre impeccabile sotto il profilo tecnico) fu un girotondo che distribuiva emozioni agli animi sensibili, un canto di incomparabile intensità che ridimensionava assai il mito delle sirene.
Possiamo ben dire, a distanza di anni, che con Charlie Parker, immaturo e dionisiaco, la musica nera divenne adulta e matura, non più roba da intrattenimento infimo, ma musica d'arte a tutti gli effetti.
Certo, già con Duke Ellington, con Lester Young, con la grandissima Billie Holiday, il jazz aveva detto di non essere solo musica da ballo. Ma è con il bop parkeriano che si entrò su un cammino del tutto nuovo.
Non era più musica da sottofondo: andava ascoltata ed ammirata al pari di un pezzo classico, altrimenti non si capiva.
Non a caso, nelle esibizioni dal vivo nei locali notturni, né Parker, nè Gillespie incontrarono immediato successo. Il pubblico non gradiva i suoni nuovi, non voleva musica, ma solo sottofondo, solo ritmo per ballare. In fondo non gradiva quei pretenziosi negri emancipati che rifiutavano di fare la parte dei giullari per affermarsi come musicisti puri, liberi di suonare secondo un'ispirazione più profonda.
Forse, il trombettista Dizzie Gillespie era più portato a dialogare col pubblico. Le sue gags, la sua irresistibile carica di bete de scene avevano comunque un effetto accattivante.
Più introverso, più debole come uomo, Parker sapeva, in fondo, solo suonare, e spesso, non era nemmeno in grado di farlo in maniera decente. Molti furono delusi dai suoi concerti non perchè la musica risultava incomprensibile, ma perchè Charlie suonava male, mostrava di stare in piedi per miracolo, e di essere più di peso che d'aiuto per i partners.
Dovevi, insomma, infilare la serata giusta per trovare il vero Charlie Parker, una su dieci, forse, nei periodi più bui.

Tutto era nato al Minton's di New York, dove musicisti della nuova generazione si trovavano per suonare liberamente, al di fuori degli schemi imposti dallo swing delle orchestre da ballo, nei periodi afterhours, sia nei pomeriggi che a notte fonda.
Ha scritto Gian Carlo Roncaglia: "Certo la loro musica non si poteva ballare o al massimo, se paragonata a quella dominanate nel mondo dello spettacolo, era difficilmente ballabile. Né veniva presentata, per principio, con sorrisi accattivanti, ma eseguita, anche se c'era gente ad ascoltare, disdegnando il consenso dell'ascoltatore (che non veniva mai sollecitato, né tantomeno gradito dai musicisti) addirittura voltando le spalle all'uditorio in segno di completo, totale, disdegnoso dispregio nei suoi confronti." ( da Una Storia del Jazz - Marsilio Editori, vol II -1980)
Al di là di questo atteggiamento esagerato e provocatorio va compreso che i boppers, all'inizio, avevano rovesciato il teorema della musica di intrattenimento: non si suona per compiacere il pubblico. Ed è per questo che ne uscì una rivoluzione, la cui vera sostanza, come ben comprese ed illustrò Roncaglia, fu da un lato la nascita di progressioni armoniche che stravolgevano tutti gli standards e, dallaltro, il ridimensionamento e la rifinalizzazione del batterista.
Nelle orchestre swing, infatti, il ritmo imposto dal batterista, il classico hich-hah, rimbombava nelle orecchie dei solisti a fiato, che risultavano quasi impediti ad esprimere le loro idee.
Diversamente, a partire da Kenny Clarke, storica figura di drummer del bop, venne ad emergere una concezione del tutto nuova del ritmo. " La mano destra - scrisse Roncaglia - divenne la matrice del tempo sul piatto, la mano sinistra trasferì il suo ritmo sulla cassa chiara (o sul tom tom), mentre il piede destro, azionante il pedale della grancassa, fornì accentuazioni (apparentemente) irregolari e sincopi tali da rilanciare, in un continuum sino ad allora inimmaginabile, le sezioni melodiche dell'orchestra o i solisti singoli nei piccoli complessi. Il charleston, infine (quello che gli americani definiscon high-hat) marcò l'after-beat. Non doveva più accadere, insomma quanto aveva detto Gillespie ( e che si è citato più sopra), e che Kenny riconobbe con una serie di osservazioni che, sostanzialmente suonavano così: mi limiti...mi stai troppo addosso...mi tagli le gambe...mi tagli la strada. " (Roncaglia, cit)

In queste registrazioni abbiamo una parte significativa della produzione parkeriana. Non è tutto oro, intendiamoci. In molti brani Parker non sembra nemmeno al vertice della forma, o particolarmente ispirato. Tuttavia, se si pensa che tutta la prima serie di incisioni fu realizzata durante un'evasione in California, dopo che aveva venduto il biglietto aereo per New York, comprato Dizzie Gillespie, per procurarsi droga, abbiamo anche la spiegazione.
Eppure, nonostante la droga, come direbbe Fayenz, anche un Parker sotto tono e fuori forma riesce comunque ad incantare ed a stupire, sia i contemporanei che i posteri.
Del resto, indipendentemente dallo stato di salute di Parker, queste sarebbero comunque delle buone incisioni, per la qualità della musica e dei partners.
la prima session risale al marzo del 1946. Sono con Parker il pianista Dodo Marmarosa ed un giovane trombettista che stravedeva per Parker: Miles Davis. Inoltre, era presente il sassofonista Lucky Thompson, la riserva che sedeva in panchina, e che, quando Charlie era out nei concerti, lo sostituiva più che degnamente.

Fayenz sostiene che il vero ispiratore di Parker fu Buster Smith, un sassofonista attivo a Kansas City quando Parker stava imparando.
Secondo Fayenz esiste una registrazione del 1959 che prova come Buster Smith suonasse in modo straordinariamente simile a Parker, ma non esistono prove che egli suonasse già così quando Charlie era ancora alle prime armi. Evidentemente, se si è diffusa la leggenda di Smith maestro di Parker, ci deve essere qualcosa di vero in questa storia. Non è possibile, infatti, che anche il più creativo tra i musicisti inizi da zero una rivoluzione.
Comunque stia la questione, io sono un convinto sostenitore della tesi che nella creazione della nuova musica giocò un ruolo decisivo la reciproca influenza di Dizzy Gillespie su Parker e di Parker su Gillespie.
Il trombettista fu il grande assente da queste registrazioni, ma basta ascoltare un qualunque suo disco, sia con Parker che senza Parker, per comprendere quale arcano e remoto affiatamento psichico e musicale esistesse tra i due.
Ho in testa Bloomdido, incisione effettuata nel '50 per la Verve, insieme a Thelonious Monk, e devo dire che il brano conferma tutte le mie osservazioni: è semplicemente un capolavoro. Parker, Gillespie e Monk suonano, ognuno alla sua maniera, (e Monk era chiaramente fuori dall'estetica bop, in un pianismo tutto suo) ma insieme producono attimi irripetibili.

Nella raccolta di cui stiamo parlando, oltre a pezzi che hanno fatto la storia del bop, come Ornithology, A Night In Tunisia, My Old Flame, Relaxin' At Camarillo, troviamo il celebre e maledetto Lover Man, un brano inciso da Parker quando aveva ormai un litro di whisky in corpo e si trovava sull'orlo del collasso. Lo stesso Parker aveva ripudiato la registrazione, ma la realtà di questo brano è quella di essere un pezzo allucinante di spaventosa e mostruosa bellezza, qualcosa che tocca le corde della sensibilità e provoca un groppo in gola.

Una buona alternativa al cofanetto, costoso quanto mai, potrebbe essere Best Of The Complete Savoy And Dial Studio Recordings, ma il problema è che mancano brani essenziali quali appunto Lover Man, e che non si possono ammirare le diverse takes del medesimo brano, che quasi mai, appunto, è il medesimo brano.


gm - 27 ottobre 2002