John Coltrane
My Favorite Things - Atlantic 1961
Miles Davis ci teneva ad avere con sé John
Coltrane per la tournée europea che sarebbe
iniziata nel marzo del 1960. Dovette pregarlo
e perfino scongiurarlo.
John non voleva fare il "prezioso".
Cominciava ad avvertire che le sue coordinate
non coincidevano più con quelle di Miles,
posto che mai vi fosse stato tra i due un
vero interplay e non una semplice cooperazione
tanto temporanea quanto del tutto straordinaria.
Comunque sia, in quel mese di marzo 1960,
Coltrane attraversò per la prima volta l'oceano,
scritturato, come tutti gli altri componenti
il quintetto davisiano, il trio del pianista
Oscar Peterson ed il quartetto di Stan Getz,
dal mitico impresario Norman Granz, che sventolava
la prestigiosa insegna del Jazz At The Philarmonic.
Il pubblico europeo, come già, in parte,
quello americano, reagì in modo controverso.
Se da un lato, alcuni, non pochi per la verità,
attendevano già Coltrane con entusiasmo e
trepidazione, forse più dello stesso Miles
Davis, convinti di avere a che fare con The Next Big Thing, dall'altro c'era chi aveva già deciso che
Coltrane sarebbe stato la crisi, lo stravolgimento
e la tomba del jazz.
Il 31 marzo 1960, udite udite, al Lirico
di Milano si scatenò una contestazione aperta,
da loggione della Scala, si fischiò, si gridò.
L'inciviltà musicale del pubblico da stadio
( e da Scala) è proverbiale.
Ma le cose non erano andate meglio, pochi
gioni prima, all'Olympia di Parigi. In Francia
se ne parla ancora come di un momento noir.
Il problema derivava anche da un atteggiamento
piuttosto singolare del nostro eroe sul palco:
sembrava non partecipare realmente al momento
collettivo. Quando veniva il suo turno per
un assolo, si ritirava nella "sua"
musica del tutto diversa, che alle orecchie
di un certo pubblico, non del tutto classificabile
come tradizionalista, suonava quantomeno
aliena.
Arrigo Polillo provò a spiegare questa situazione
ricorrendo a "non felici condizioni
di forma". (Storia del jazz - parte II, I protagonisti, capitolo John
Coltrane, Mondadori) E subito aggiunse: «
Ben altre accoglienze ebbe infatti la sua
musica quando fu ascoltata in un disco pubblicato
solo qualche mese dopo, quel Giant Steps dell'Atlantic, che lo rivelò strumentista
e compositore di alto livello e grandissima
originalità.»
Fu però My Favorite Things ad imporsi ad un pubblico ancora più ampio.
Il lavoro fu inciso pochi mesi dopo la disastrosa
(per Coltrane, s'intende, non per gli altri)
parentesi europea.
« Dal tema di quel semplice e garbato
valzer di Richard Rodgers - scrisse Polillo
- Coltrane cavò l'impossibile, costruendo
per anni, un giorno dopo l'altro, interminabili,
squassanti, estenuanti assoli, di colore
vagamente medio-orientale, stupefacenti per
l'invenzione sempre rinnovantesi, per l'intensità
della carica emotiva, per il potere incantatorio.
(idem)
Rimane da spiegare come si possa passare
in così poco tempo dalla polvere all'altare.
In realtà, il problema dell'insuccesso di
Coltrane al seguito di Davis è probabilmente
più complesso di un semplice e troppo sportivo scadimento di forma.
Nelle incisioni in studio, Coltrane era più
rilassato, costretto comunque a controllarsi
ed a circoscrivere la musica entro tempi
e forme, per quanta libertà potesse prendersi.
Giant Steps e soprattutto My Favorite Things, tra le altre cose, risultano gradevoli,
anche se non del tutto easy goin ed orecchiabili
come un disco di Frank Sinatra.
Nei concerti europei con Davis, anche risentendo
della pressione psicologica, e partendo sempre
dal presupposto ( a mio avviso sbagliatissimo)
di voler dire tutto, e quindi suonare tutto, cioè estrinsecare tutte le possibilità
intrinseche ad un tema, Coltrane finiva con
lo strafare e col rendersi indigesto, rubando,
inoltre la scena al divino Miles, per vedere
il quale era accorso il pubblico pagante.
Confrontando materiali di studio e live (anche
posteriori, si badi) la sensazione esce rafforzata.
Mentre le registrazioni in studio si possono
ascoltare tranquillamente, anche in auto,
rilassati, i live, per essere veramente apprezzati,
richiedono una sorta di rituale, una grande
concentrazione, un'adesione psicologica all'intensità
emotiva che Trane era capace di evocare su
palco.
Bisogna spegnere la luce ed ascoltare questa
musica ad alto volume, in piedi, abbandonandosi
al ritmo infernale che fuoriesce dalle casse
o dalle cuffie. Solo così, in un climax decisamente
dionisiaco e tribalistico, si riesce, anche
se parzialmente, a rivivere la profondità
dell'evento ed insieme a capire che la torrenzialità
inarrestabile di Trane era dovuta a quel
suo scrupoloso obbligo di dire tutto, esplorando ogni possibilità.
La band che incise My Favorite Things cominciava ad avere i contorni di quella
che sarà la formazione definitiva per i grandi
voli degli anni successivi: Alfred McCoy
Tyner al pianoforte, Steve Davis al contrabbasso
ed Elvin Jones alla batteria. All'appello
mancava solo il contrabbassista Jim Garrison.
Rispetto alle formazioni impiegate in Giant Steps si notano e si avvertono le differenze.
La presenza di Tyner, pianista molto più
reattivo di Tommy Flanagan alle sensibilità
coltraniane, rendeva il tutto molto più omogeneo
ed eccitante. Ma il salto di qualità più
immediatamente percepibile stava soprattutto
nella presenza dello straordinario Elvin
Jones alla batteria. Elvin picchiava come
un dio maggiore e sembrava davvero venire
da un altro mondo. Né Pete La Roca, né il
pur grandioso Billy Higgins, con i quali
Coltrane aveva lavorato mentre Elvin Jones
scontava una pena per detenzione di stupefacenti,
erano stati capaci di tanto, cioè di fornire
quel tappeto ritmico devastante, roadrunner,
prodotto da Elvin.
Finalmente, nell'ottobre del 1960, Coltrane
potè disporre di McCoy Tyner ed Elvin Jones.
Tra il 21 ed il 26 del mese, incisero molto
materiale, che venne però pubblicato in dischi
diversi. Village Blues finì nell'album Coltrane Jazz - Atlantic
1961, ed altri brani ancora fecondarono i
solchi del vinile Coltrane Plays The Blues, uscito nel '62. Infine, solo nel 1964,
sarà stampato Coltrane Sound, contenente tra l'altro una formidabile
versione di Body And Soul, pezzo in cui brillava soprattutto la cristallina
sapienza pianistica di McCoy Tyner.
My Favorite Things conteneva originariamente quattro pezzi:
la title track, appunto, Every Time We Say Goodbye di Cole Porter, Summertime di George Gershwin e But Not For Me, altro classico gershwiniano.
A questo punto, ogni commento è superfluo.
Ascoltare questo disco, ben sapendo che dopo
la sua uscita non ci fu musicista jazz, o
rock, o persino di cose più leggere, che
non abbia almeno in parte ripreso la lezione,
cercando di imitarlo, di stravolgerlo (od
anche solo di scopiazzarlo), diventa indispensabile
per capire la musica di oggi, quantomeno
quella migliore.
Per loro stessa ammissione, tanto per far
due nomi arcinoti, Carlos Santana e i Grateful
Dead risentirono molto dell'ispirazione coltraniana.
Blues psichedelici e la fuente del ritmo
erano già presenti in potentia nella musica che faceva Trane all'inizio
dei sixties.
Guido Marenco, 3 maggio 2003
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