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Charlie Mingus: Blues & Roots

album atlantic 1305

In una bella riedizione cd, rimasterizzata come si deve, cartonata che fa chic, ecco che ho finalmente per le mani, per la gioia delle orecchie e dello spirito, uno di quei dischi che sono stati giustamente valutati come imperdibili ed imprescindibili.
Per la verità tutti gli album di Mingus sono, a mio avviso, imprescindibili, ma se si vuole fare un discorso fruibile soprattutto da parte di chi conosce poco o nulla del jazz, ecco che le cose si presentano in proposito semplici e chiare: il jazz nacque come sovrapposizione e (successivamente) fusione di due tradizioni molto diverse e distinte: il canto popolare afro-americano, in particolare il blues, ma anche il canto religioso di gioia, il gospel, e le marce militari europee: scozzesi, inglesi e francesi soprattutto.
A New Orleans nacquero, all'inizio del Novecento, bande che suonavano musica da strada, per far festa, e persino musica ai funerali.
Il jazz ebbe dunque natali in parte funerei ed in gran parte festaioli. Non era roba da sale da concerto, anche perchè suonato da musicisti il cui talento non era, poi, molto superiore a quello dei componenti di tante bande fatte di contadini, operai, postini, ferrovieri e majorettes che, fortunatamente, ancora si trovano nel nostro paese.
Non era scritto da nessuna parte, dunque, che tale tipo di contaminazione avrebbe generato grande musica. Ed in effetti, all'inizio, e per lungo tempo, il jazz non fu altro che un genere, godibile, divertente, affascinate ed esotico, persino alle orecchie di chi lo faceva, ma assolutamente privo di quel "certo non so che" che, appunto, rende se, non immortali, certamente di lunga durata, le grandi composizioni musicali.
Musicisti semplici e genuini, diretti ed immediati, possono comunque creare ed eseguire brani schietti, innocenti, che nascono dal cuore. Tutto ciò può piacere, sul momento, ed anche in tempi successivi, ma senza l'intervento creativo e fantasioso dell'artista vero, di chi, cioè, possiede quel "di più" che ebbero, per fare dei nomi che tutti dovrebbero conoscere, Louis Armstrong, Robert Johnson, Duke Ellington e Count Basie, il jazz ed il blues non sarebbero diventati quello che sono ora.

Certo, per chi ama visceralmente questa musica, o semplicemente l'apprezza, tutto è molto più facile. La si cerca, la si raccoglie, la si ascolta come sapendo che essa è in grado di realizzare il miracolo di farci stimare come bellissimo l'essere al mondo e godere di questo "ben di Dio".
Francamente non saprei che dire a chi, invece, non riesce a stimarla, o persino, la disprezza.
Per l'occasione, potrei suggerire che questo insieme di incisioni realizzate da Mingus rappresenta sicuramente una delle porte della percezione. Non si tratta di composizioni di facilissimo ascolto, tuttavia, se mi è concesso questo tipo di considerazioni, non appena percepisci ciò che si trova al di là della porta, un intero universo sonoro si rivela di colpo. Ed è a questo punto che l'ascolto non è facile, né difficile, ma semplicemente diviene naturale e spontaneo.
In particolare l'invito è rivolto a chi si trova singolarmente attratto dal blues e dal R & B, ma trova ostico ed intellettualistico il jazz. Beh...questo disco rappresenta una ghiotta occasione per fare il salto senza rischiare di cadere in una buca. Il blues c'è ancora, tutto, solo che è visto in una luce diversa, ed a mio avviso, di grande bellezza.
Mingus ha saputo rielaborare le proprie radici musicali (ad esempio: il canto di chiesa udito e cantato da bambino) traducendolo in un linguaggio più elaborato, ma non per questo meno spontaneo e sentito.
Il segreto di questo disco sta tutto qui: il blues ed il gospel diventano "musica" colta e roba da autentici intenditori.

Si potrebbe parlare a lungo di Charlie Mingus, della sua basilare importanza nella storia del jazz. Ma, in questa sede, mi sembra molto più utile, guardare ai contenuti del prodotto musicale.
Mingus non fu solo un grande contrabbassista, o solo un band leader, un vero e proprio direttore d'orchestra; fu un autore di brani, un compositore, un vero erede, anzi, il vero erede di Duke Ellington.
Ascoltando queste tracce, si colgono insieme tutti questi aspetti, o meglio, forse viene a mancare la percezione precisa del direttore, in quanto l'orchestrazione è essenziale e minimale. Tuttavia, se hai orecchio, non ti sfuggano il modo in cui sono organizzati i brani e persino l'improvvisazione. Che non è mai un momento caotico, di abbandono totale, ma sempre un qualcosa di controllato, per quanto istintivo.
Dunque, anche qui, il band-leader si rivela, anche se manca la bacchetta, ed anche se di corposi manipoli di violini e clamorose sezioni di trombe non c'è traccia.
Mingus dirigeva con lo sguardo ed il silenzio. E con il suono del suo contrabbasso, un vero motore mobile, attorno al quale ruotavano i corpi sonanti degli altri musicisti. Che per l'occasione erano l'impareggiabile Jackie Mc Lean al sax alto, insieme a John Handy, un formidabile Booker Ervin al sax tenore, Pepper Adams al sax baritono, Jimmy Knepper e Willy Dennis ai tromboni, Horace Parlan o Mal Waldron al pianoforte e l'immancabile Dan Richmond alla batteria.
Alla consolle di registrazione stava lui, proprio lui, Tom Dowd, cioè il mitico produttore che saprà lanciare gli Allman Brothers.

Una volta tanto le note di copertina, composte dallo stesso Mingus, dicono qualcosa di essenziale: rivelano che il disco ebbe origine da una critica tanto stupida quanto stimolante. I guru della critica musicale americana avevano sentenziato che la musica di Mingus mancava di swing. Si era nel 1959, ed il riferimento era, ovviamente il Pithecantropus Erectus, il provocatorio lavoro nel quale Mingus aveva gettato tutta la sua arte e e tutta la sua rabbia antirazzista. L'intento di questi critici era quello di dimostrare che il vero jazz, cioè la vera arte, era espressa dai neri sorridenti, integrati e vellutati alla Duke Ellington, e non quella dei ribelli sintonizzati sulle voci della lotta, se non della rivolta.
Ertegun, il boss dell'Atlantic, un turco trapiantato in America e capace di far fortuna diventando geniale editore di musica, invitò Mingus a dimostrare quanto, al contrario, la sua musica fosse in linea con la tradizione e ribollente di swing, dunque di vera arte, di autentico jazz e di profondo legame con le radici blues.
Mingus accolse la sfida: ed ecco il capolavoro. Un disco che non solo riprese lo swing alle radici, e che fece, quindi, un discorso all'indietro, ma anche un lavoro che guardava avanti, e che, in germe, conteneva, tanti futuri sviluppi del jazz rivoluzionario degli anni '60.

Insisto su entrambi gli aspetti con forte convinzione.
Se è esagerato ravvisare in Blues &Roots i seminali di Ornette Coleman o Albert Ayler, cioè della più innovativa e radicale new thing, il free jazz, che tanto bene e tanto male ha fatto alla storia della black music, non altrettanto esagerato pare ravvisare in Mingus le basi dell'evoluzione di John Coltrane, il gigante del grande jazz degli anni '60.
Un confronto tra le poetiche di Blues & Roots di Mingus e Giant Steps di Coltrane, del 1960, propone tante analogie significative. Si possono ravvisare, analiticamente, persino nel contrabbassista utilizzato da Coltrane per l'occasione, ovvero Paul Chambers, che evolve da Mingus, ma, in generale, non pare insensato considerare quanto della lezione di Mingus sia penetrato nella sofferta evoluzione di Coltrane dal bop alla mistica della musica suprema. Nella transizione e negli attraversamenti coltraniani da una sponda all'altra, Mingus ci sta a meraviglia, non come un Caronte, ma come un Virgilio Marone. L'inferno e il purgatorio della condizione nera sono esplorati in ogni senso. Coltrane si trova come un tizio che deve solo copiare il compito, e cambiarlo inserendo la sua forte impronta personale, per superare l'esame. Poi, per entrare in paradiso dovrà solo abbandonare Mingus, e cercarsi la sua Beatrice.
La troverà nella moglie Alice?
Lasciamo ad ulteriori riflessioni questo interrogativo. Qui basta sanzionare l'importanza storica delle incisioni mingusiane del '59.
Che sono "belle ed importanti" di per sé, anche per chi non considera la storia del jazz come una sorta di evoluzione destinata a progredire all'infinito (adesso saremmo, allora, ad un punto morto?) ma solo come una sequenza di mutamenti di stile, nessuno dei quali è veramente "superiore" del precedente, anche se, indubbiamente, si può riconoscere una "maturazione".

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gm - 29 luglio 2002 - © Mystery Train