Keith Jarrett - Gary Peacock - Jack DeJohnnette
Always Let Me Go - ECM - 2002
registrato all'Orchard Hall ( 23-04 e 24-04)
e al Bunka Kaikan ( 30-04 ) di Tokyo (JPN)
nell'aprile del 2001
Il magma sonoro iniziale di Hearts In Space non nasconde alcuna forma percepibile di
lirismo, e nemmeno rinvia per echeggiamenti
e rammemorazioni a qualcosa di precedente
nel cammino jarrettiano. E' musica improvvisata
pura che esce dalle mani e dalla mente in
magica combinazione di abilità artigianale
ed ispirazione istantanea.
L'interplay è perfetto in tutti i passaggi,
a conferma di un'intesa ineguagliabile
raggiunta
nell'ambito del trio più famoso dei
nostri
tempi.
Ma se il lirismo inizialmente latita,
altra
storia è la ricerca di una cantabilità
che
dal magma riesce ad estrarre alcuni
temi.
Jarrett si limita ad esporli, ma questo
accade
dopo 15'. E si arriva a 17' per avere
un
abbozzo di infantile sapore schumanniano,
mentre i tamburi tacciono e tutto trascolora
in un sussurro, un seguirsi di palpiti
finalmente
lirici.
E' il top dell'esecuzione. Lo si percepisce
dal rientro del basso di Gary Peacock,
magistrale
nell'introdurre una sorta di secondo
tempo
nel quale Jarrett fa "Jarrett",
cioè la "sua" musica, nel
"suo"
stile riconoscibile anche ad occhi
chiusi.
Sono 32' di un gioco garbato e sottile
che
possono significare molto e niente,
ma non
"tutto", come spesso si dice
in
contrapposizione al "nulla",
perchè
l'orizzonte jarrettiano rimane comunque
ancorato
ad una dimensione intimista e sommessamente
gioiosa, quando non pensosamente triste.
The River è subito un momento manifesto
di
questa tristezza pensosa, dichiaratamente
classica, che si spegne lentamente,
in un
suono rarefatto ed esangue. Irripetibile.
Tributaries muove dall'esplorazione
del silenzio;
lunghe oasi di stasi tra un suono e
l'altro
vengono a poco a poco riempite di musica,
lenta come il respiro di un vecchio.
E' un Jarrett sublime quello che emerge
dal
silenzio, immediatamente cantabile,
e poi
ritmico, denso, volto ad incrementare
la
frequenza del battito come nell'impercettibile
crescendo del Bolero di Ravel. Una
lunga
fase solo percussiva chiude il fluire
dei
suoni.
Paradox è il pezzo nel quale l'apporto
di
Peacock è più visibile ed apprezzabile.
Pervaso
da una forte tensione ritmica, cui
risulta
fondamentale il contributo di Jack
DeJohnnette,
la musica scorre su binari già toccati
in
altri contesti, come nel quartetto
europeo.
Per misura, ritmo, concisione (una
qualità
che non sempre si trova nel Jarrett
live)
è uno dei brani più riusciti.
Wave apre il secondo cd, introdotta
da un
insistito suono di poche note. Trascorrono
3' prima di arrivare al dunque, probabilmente
un omaggio al pianismo jazz nel suo
variegato
insieme, da Tatum a Errol Garner, da
Bud
Powell al sublime Bill Evans.
Non tutto fila benissimo, però. Tra
Jarrett
e Peacock si può evidenziare un ritardo
di
quest'ultimo a prendere subito gli
accordi
giusti in una o forse due occasioni.
O è
un effetto voluto?
Fatto sta, che siamo su 32' di grandissima
musica. Io non ho parole.
Facing East è un memorabile pezzo in
cui
è protagonista assoluto Jack DeJohnette,
un batterista, un percussionista (che
altro
dire?) assolutamente stellare. Fornisce
a
Jarrett il tappeto su cui far scorrere
le
note giuste, note rivolte idealmente
a levante,
al Giappone, a quel misterioso oriente
che
Jarrett, pur nel suo mistico fremito
religioso,
si dichiara "cristiano sionista",
non trascura quale fonte di una sorgività
primigenia.
Tsunami.
Pezzo ostico. Molti faranno fatica
ad arrivare
alla fine. Nemmeno io lo trovo particolarmente
riuscito. Si potrebbe descrivere come
un
bop stravolto dall'intromissione di
scariche
elettriche e disfunzioni nervose. Ciò
che
mi pare rilevante, in ogni caso, è
che Jarrett
non perda mai il filo, nonostante il
disordine
sonoro dal lui stesso cercato. Alla
fine
il pubblico sottolinea l'approvazione
con
una selva di applausi, segno che nell'esecuzione
dal vivo il pezzo aveva comunque una
sua
incisività rappresentativa.
Relay chiude il concerto. E si torna
a respirare
aria di standards, aria di Jarrett,
la musica
che preferiamo.
Poche considerazioni aggiuntive: probabilmente
non siamo di fronte ad un capolavoro, od
un disco di svolta storica ma, poco, se non
nulla, ci autorizza ad un parere tiepido,
o perfino negativo. Always Let Me Go è un
saggio riuscitissimo dell'arte del trio con
pianoforte, liberata dalla dorata prigionia
della musica standards, cioè legata alla
tradizione dei pezzi orecchiabili che hanno
reso celebre, desiderabile, amata la musica
americana più popolare. Proprio perchè priva,
almeno formalmente, di questo solido retroterra,
la proposta di nuova musica necessita di
precisazioni, sviluppi, messe a fuoco che
certamente verranno. Tutto si può dire tranne
che Jarrett manchi di ispirazione e mezzi
espressivi tali da farci sperare.
Testo di Gualtiero Lucarelli, Milano 14
aprile 2003
|
Menu
Vintage
Home
|